Conobbi Aldo Braibanti nell’autunno del 1940, all’università di Firenze. Eravamo iscritti entrambi al primo anno, lui di filosofia, io di lettere; e, diversissimi per carattere, facemmo subito amicizia. Io ero orientato verso studi di filologia classica; ma, per una sorta di «amore non corrisposto» che già allora avevo per la filosofia (e che mi è poi sempre rimasto, e ha reso saltuari e frammentari i miei studi filologici, senza per questo farmi mai diventare un filosofo), frequentavo con una certa assiduità anche le lezioni filosofiche, e soprattutto mi piaceva leggere libri di filosofia e discuterne coi miei compagni. E appunto con Aldo le discussioni erano più lunghe e più vive. Frequentavamo anche le conferenze e i dibattiti di quella singolare istituzione che era la Biblioteca Filosofica, in via Ginori: un’istituzione di vecchia data, ormai sul punto di essere assorbita e sopraffatta dall’università, ma ancora non del tutto priva di un residuo di autonomia.
Nel ’40-42 e ancora nei primissimi mesi del ’43 (che fu il periodo più intenso della nostra amicizia: dalla fine del ’42 io mi ero trasferito coi miei genitori a Pisa, rimanendo iscritto all’università di Firenze, ma ben poco potendo frequentare) né io né Aldo eravamo marxisti. Io ero una specie di gentiliano che si andava orientando verso un materialismo pessimistico, con molte contraddizioni e moltissima confusione d’idee. Aldo era, non solo un conoscitore del pensiero di Spinoza quale non mi è mai più accaduto di trovare neppure tra studiosi ben più anziani e «professionali» (facendo un’affermazione così recisa sono convinto di non esagerare), ma un seguace ardente dello spinozismo, che egli viveva come una severa religione laica e democratica (anche delle idee politiche di Spinoza era ottimo conoscitore). Per l’arte non aveva ancora, se ben ricordo, l’interesse che poi gli divenne così predominante; o forse con me, che sapeva negato all’arte, non ne parlava: sicché io rimasi meravigliato quando assai più tardi, e senza aver potuto seguire la sua evoluzione culturale successiva, seppi che non su Spinoza si laureava, ma sul concetto di grottesco. Per la natura aveva già allora un interesse profondo, di stampo panteistico: coerente, quindi, col suo spinozismo. Amava già allora le formiche, alle quali avrebbe poi dedicato tante indagini e tanti scritti appassionati.
Nelle nostre lunghe conversazioni – mi riferisco sempre ai primi anni di università – aveva larga parte la politica. Eravamo tutti e due antifascisti; ma quale differenza di rigore, di impegno, di dedizione! Quelle che poi sarebbero state le conseguenze della sua azione di antifascista (la prigionia, la tortura, senza escludere nemmeno la morte), Aldo le aveva messe in conto fin dal principio, anche se, ovviamente, nessuno nel ’42 o ai primi del ’43 poteva ancora prevedere attraverso quali vicende il fascismo sarebbe caduto, quale terribile prezzo, prima di cadere, fascisti e nazisti avrebbero fatto pagare al popolo italiano. Ma direi che egli, più che essere semplicemente pronto a pagare di persona, sentiva il dovere di pagare di persona: un desiderio di sacrificarsi che, in qualche modo, era più mazziniano che marxista, ma che comunque nasceva da un’esigenza di combattere in prima fila e non nelle retrovie, di escludere ogni soluzione di antifascismo a buon mercato.
Venne l’inasprirsi delle persecuzioni prima del 25 luglio 1943, venne il periodo badogliano con le sue effimere illusioni di libertà e di pace vicina, venne l’8 settembre e la Resistenza. Io a Pisa riuscii a sottrarmi ai reclutamenti dei repubblichini e ai bandi delle SS che intimavano di presentarsi per andare ai lavori forzati, pena la fucilazione. Corsi qualche rischio anche grave; ma la mia sarebbe stata la morte di chi cerca di sfuggire a un nemico spietato, non quella di chi lo affronta per combatterlo. La differenza è essenziale.
Tra i più coraggiosi nell’affrontare il nemico, nel darsi senza riserve e prudenze alla lotta clandestina, ci fu invece Aldo Braibanti. Fu arrestato una prima volta e incarcerato nel periodo anteriore al 25 luglio. Rimesso in libertà nel periodo badogliano, si ridiede all’attività politica con ardore raddoppiato, e passò di nuovo alla lotta clandestina dopo l’8 settembre. In quel periodo io lo rividi un paio di volte, negli ultimi viaggi a Firenze che potei fare prima che i continui bombardamenti aerei e poi l’avvicinarsi della linea del fronte rendessero impossibile spostarsi.
Era sereno, anche un po’ scherzoso e in apparenza svagato come sempre, ma ben consapevole che la «stretta» più dura e decisiva doveva ancora venire. Il resto – il suo secondo arresto, le disumane torture della banda Carità, il suo comportamento eroico – lo seppi soltanto a liberazione avvenuta, quando lo rividi divenuto segretario del Fronte della gioventù, dirigente del Pci dotato di grande prestigio, ma senza il minimo tono di «autorità»; e lo seppi non da lui, che rifuggiva dal parlare di quella sua eccezionale esperienza di sofferenza e di lotta, ma dai suoi compagni e dagli amici che avevamo in comune. Poi, quasi improvvisamente, la politica in senso stretto smise d’interessarlo: lo aveva interessato solo finché era stata tutt’uno con una forte tensione morale, con un impegno assoluto.
Così severo ed esigente con se stesso, non lo era con gli altri. Aveva certo capito benissimo, fin dai nostri primi colloqui, che il mio non era un antifascismo della sua tempra; eppure mi fu e mi rimase fraternamente amico, non tentò nemmeno di convertirmi ad un antifascismo più militante. Il ricordo di questa sua capacità di amicizia anche verso persone così diverse da lui ha contribuito, tanto tempo dopo, a farmi sentire con particolare indignazione la stolta e feroce accusa di «plagio» che, in questa Italia non più fascista nel senso proprio del termine ma ancora tanto repressiva e conformista, tanto distante da quella per la quale egli aveva rischiato la vita, lo portò, anni fa, ancora una volta in galera. Egli era, ed è certamente rimasto, l’uomo meno «plagiatore» che io abbia conosciuto, il più disponibile ad accettare le diversità e le contraddizioni degli altri. In ben altro senso (non con autoritarismi o tecniche persuasive più o meno insidiose, ma col puro e semplice esempio della sua personalità) era certo capace di esercitare su altri un influsso profondo. Anch’io non posso ricordare i miei grigi anni d’università senza pensare, prima che ad ogni altro mio compagno, a Braibanti: al suo rigore morale e politico che non andava mai a scapito della sua ampiezza e varietà d’interessi, del suo inquieto spirito problematico.