«Una condizione che è ancora la nostra»
Franco Fortini e gli scrittori vociani*
Lorenzo Tommasini

I.

Nel rievocare le riviste fondamentali per la sua formazione, stimolato da una domanda di Paolo Jachia, Fortini ricorda la grande importanza che ebbe la lettura di «Solaria», della «Riforma letteraria», di «Letteratura», di «Frontespizio», di «Costume», di «Campo di Marte».1 Come si può notare in questo elenco «La Voce» non trova spazio. Il motivo va in primo luogo ricercato nella cronologia: Fortini, nato nel 1917, era troppo giovane per essersi potuto accostare a quell’esperienza ed era cresciuto in un clima, quello di una certa restaurazione formale da un lato e dell’ermetismo dall’altro che, quando non ignoravano, prendevano le distanze dall’esperienza vociana.

Tuttavia negli anni della prima formazione Fortini ha comunque modo di intercettare gli ultimi riflessi di quell’esperienza. Come sottolinea lo stesso Jachia, infatti, nella cultura della Firenze degli anni Venti e Trenta «permangono echi e tracce “vociane” e futuriste».2 Nel nostro caso in particolare questi riverberi si concretizzano nella lettura di alcuni volumi delle Edizioni della Voce, e in particolare delle Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi di Piero Jahier che affascinava il giovane Franco Lattes per «lo stile insolito»,3 e della collana «Cultura dell’anima», diretta da Papini per l’editore Carabba. Si tratta di una collana che, per temi, programmi e collaboratori può a buon diritto essere considerata, per certi aspetti, un’iniziativa complementare a quella dei «Quaderni della Voce». Infatti tra i curatori troviamo molte delle firme della rivista: per esempio Papini che cura diversi volumi tra cui uno dedicato a Bergson, Prezzolini che cura un volume su Novalis, Boine su Sant’Anselmo, Slataper su Hebbel, Jahier su Proudhon e Calvino, Giani e Carlo Stuparich su Kleist e gli esempi potrebbero continuare. In questa edizione Fortini lesse sicuramente un volume di Kierkegaard curato da Knud Ferlov.4

Stando sempre alle testimonianze autobiografiche, Fortini ebbe poi occasione, all’inizio degli anni Trenta, di leggere Con me e con gli alpini di Jahier e Kobilek di Soffici che lo aiutarono a sviluppare una idea della guerra e del patriottismo diversa da quella che prima aveva tratto dalle letture di Cuore e dei Racconti militari di De Amicis.5

A metà degli anni Trenta Fortini si imbatte in Ragazzo di Jahier e nel Mio Carso di Slataper, letto «con molta emozione». Infine va ricordato l’importante incontro con Un uomo finito di Papini che in questi anni viene vissuto come un libro «rivelatore», che induce una forte identificazione nell’avventura intellettuale del giovane protagonista autodidatta.

Come si vede si tratta di tutta una serie di letture di autori che possono essere variamente ricondotti all’esperienza vociana. A quest’ultima è possibile dunque riconoscere una certa influenza sulla formazione del giovane Lattes. Tuttavia sembra che questi autori fossero presi come singole entità piuttosto che come gruppo e che a volte venissero percepiti come portatori di istanze contrapposte.

Così se Papini rappresenta il fascino delle grandi avventure intellettuali, Slataper – al contrario – rappresenta la «partecipazione appassionata alla vita del lavoro non intellettuale»6 e Soffici, dopo un breve entusiasmo iniziale, gli provoca una «acuta antipatia» che lo porta ad allontanarsene.

Questi autori sono però accomunati nella lettura fortiniana dal collegamento più o meno diretto con una forte inquietudine esistenziale. Colui che, all’interno del gruppo, sembra essere il più importante e che Fortini legge con maggior empatia è senz’altro Piero Jahier. In questo caso il riferimento immediato è a Ragazzo, opera dove viene narrata la storia di un giovane, costellata da traumi familiari e da ansie esistenziali, che attraverso una serie di esperienze si apre all’età adulta.

Tale autore costituisce un termine di confronto importante per il giovane Fortini che ritrova in lui quell’ansia religiosa che lo attanagliava in quegli anni e che sarebbe sboccata di lì a poco nella conversione alla fede valdese.

Nella definizione dell’avvicinamento alla nuova fede religiosa va citato però almeno un altro autore ascrivibile all’ambito vociano, vale a dire Carlo Michelstaedter, la cui lettura per esplicita ammissione costituisce un momento di svolta.7 È anche su questo autore, che va legato agli incontri giovanili con Kierkegaard, Dostoevskij e con la Bibbia, che si basa quella concezione del «cristianesimo tragico-eroico» che Fortini ha vissuto in gioventù. Una traccia importante di questo interesse e di questa influenza si ritrova in due scritti della fine degli anni Trenta: Solitudine di Michelstaedter, pubblicato sulla «Riforma letteraria» e Su Michelstaedter, testo rimasto a lungo inedito e pubblicato appena nel 2003.

In tali scritti emerge la figura dell’eroe solitario e «ai confini dell’esperienza religiosa»8 che non ha paura di guardare nell’oscurità, di farsi carico di tutta l’esistenza come se ogni uomo fosse «il primo e l’ultimo». Questa immagine rientrava bene nella visione fortiniana di quegli anni e, secondo l’interpretazione di Luca Lenzini costituisce un primo accenno a una visione dialettica della realtà (anche se giocata in chiave paradossale) in cui si può individuare una «via d’accesso privilegiata, per Fortini, alla scrittura […] con specifico riferimento al saggismo» e rinvia ad un atteggiamento di crisi che condiziona profondamente la vita di Fortini nell’anteguerra.9

Nel delineare i primi rapporti con i vociani va sottolineato che tra le varie letture che Fortini ricorda in Leggere e scrivere non c’è alcun accenno a nomi anche importanti per lui in seguito come quelli di Prezzolini, Boine, Sbarbaro e, soprattutto, Rebora.

L’interesse di Fortini verso i vociani ritorna nel dopoguerra attraverso la lettura di Pavese veicolato dalle pagine della rivista di poesia «La strada» di Antonio Russi. Questa rivista voleva farsi promotrice di un rinnovamento etico della cultura e in particolare della letteratura italiana, in un clima che tendeva già verso il neorealismo, e per far questo proponeva una serie di testi ed autori tra cui Jahier e Pavese.10

Tale coppia di autori, legata nella visione fortiniana dal forte dramma morale che si rifletteva nelle loro opere, rappresenta un’alternativa al gusto ermetico-decadente imperante nella prima metà del Novecento e sarà una costante del ragionamento sugli autori vociani da qui in avanti11 tanto da poter affermare che attraverso la mediazione della figura di Pavese Fortini giunge ad una nuova lettura di quella cultura dell’anteguerra che lo aveva affascinato, anche se per motivi di segno opposto. Naturalmente di mezzo c’è la guerra e l’esperienza dell’esilio svizzero – che, come ha dimostrato Dalmas,12 grande influenza ha nello sviluppo del pensiero politico e della produzione letteraria di Fortini negli anni successivi – e prima ancora l’esperienza della collaborazione alla «Riforma letteraria» e il fecondo dialogo con Noventa.

Ora però Fortini comincia a farsi un’idea del tutto differente di Jahier e dei vociani, non più interessato solo agli aspetti del dramma spirituale che esprimevano, ma piuttosto attratto dalla forte esigenza morale che accomuna i migliori tra di essi. Si viene così a delineare un doppio polo di interessi critico-interpretativi che ricorrerà a lungo negli scritti sui vociani di Fortini.

II.

Nel 1972-1973 Fortini, al suo secondo anno di insegnamento universitario, propone un corso intitolato La poesia italiana degli anni 1910-1925 nella critica letteraria del periodo 1950-1970. In realtà, stando al materiale conservato presso l’archivio Fortini di Siena e alle dichiarazioni d’autore relative a questa esperienza, sappiamo che l’andamento delle lezioni prese una piega che portò Fortini a trattare quasi esclusivamente l’esperienza della «Voce» e la poesia dei vociani.

Tale scelta va inserita in un contesto più ampio che investe l’intero corso di studi in Lettere moderne della facoltà di Lettere di Siena negli anni Settanta. Questo infatti sembra poter essere descritto come un vero e proprio laboratorio di studio sui vociani.13 Elenchiamo alcune date che sembrano significative a questo proposito: nell’anno accademico 1972-1973 Franco Fortini tiene il corso sui vociani; nel 1973 esce presso l’editore Pacini di Pisa un saggio di Romano Luperini intitolato Letteratura e ideologia nel primo Novecento italiano. Saggi e note sulla «Voce» e sui vociani; nel 1976 il medesimo saggio viene ripubblicato con alcune modifiche all’interno della collana della «Letteratura italiana Laterza» diretta da Muscetta con il titolo Gli esordi del Novecento e l’esperienza della «Voce»; nello stesso anno viene data alle stampe da Einaudi, all’interno della collana «La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste», l’antologia dedicata a «Lacerba» e alla «Voce» (1914-1916), curata da Gianni Scalia, anche lui docente a Siena; nel 1977, sempre all’interno della «Letteratura italiana Laterza» esce I poeti del Novecento di Fortini – dove ai vociani è concesso ampio spazio – ed infine, ancora nel 1977, viene pubblicato il saggio di Luperini su Scipio Slataper nella collana «Il castoro» della Nuova Italia.

Nei carteggi tra Fortini e Luperini e tra Fortini e Scalia14 non emergono tracce evidenti di un attivo scambio intellettuale in questi anni su tali temi e in mancanza di precise tracce documentarie non è possibile spingersi oltre il livello della semplice ipotesi, ma è comunque inimmaginabile che non si parlassero e confrontassero su questi argomenti nelle numerose occasioni che ebbero di incontrarsi in quel periodo.

La riflessione di Fortini sui vociani non può dunque essere considerata indipendentemente e va inquadrata in questo contesto “senese” al rapporto con il quale, con ogni probabilità, sono da attribuire alcune prese di posizione e tutta una serie di omissioni piuttosto vistose.

Il materiale conservato relativo al corso è composto da una serie di appunti più o meno conclusi che probabilmente costituivano l’introduzione alle lezioni, una serie di dispense monografiche dedicate a vari autori che rappresentano gli approfondimenti proposti e gli appunti per la conclusione del corso che sono un felice caso in cui sembra che il materiale si sia conservato interamente e che non presenti problemi di collocazione cronologica perché firmati e datati dallo stesso autore. In quest’ultimo caso ci troviamo davanti a quello che può essere trattato come un vero e proprio saggio sui vociani in sé coerente e conchiuso.

Gli autori su cui Fortini si concentra di più durante le lezioni sono cinque: Boine, Sbarbaro, Jahier, Michelstaedter e, soprattutto, Rebora. Come si vede la selezione, a quando ci è dato di sapere, tralascia alcuni dei protagonisti della stagione vociana che pure in altri momenti erano stati citati con apprezzamento ed interesse da Fortini. Questa è una delle scelte su cui probabilmente hanno influito anche i lavori dei colleghi dell’Università che, infatti, si stavano occupando proprio di alcuni di questi autori.15 Certo non è possibile esserne certi in mancanza di altre testimonianze, ma è improbabile che Luperini e Scalia non facessero cenno agli autori che stavano studiando nei loro corsi, come è improbabile (anzi, impossibile) non ne parlassero con Fortini. Sembra dunque di trovarsi davanti ad una sorta di “spartizione” degli autori vociani tra i tre critici, confermata anche dal fatto che, laddove gli stessi autori vengono trattati da più di uno di loro, ci sia una specie di divisione degli argomenti. Così Boine e Jahier vengono presi in considerazione sia da Luperini che da Fortini, ma il primo ne evidenzia maggiormente la carica di contestazione sociale, mentre il secondo le riflessioni sull’esperienza religiosa. L’impressione è che all’interno dell’Università di Siena si fosse creato una sorta di “studio seminariale” sui vociani in cui ognuno approfondiva certi autori o temi e li portava poi alla discussione comune.

Le dispense di Fortini che ci sono rimaste presentano in genere una introduzione, piuttosto didascalica, sull’autore o sulla materia trattata con molti dati biografici e bibliografici e poi degli approfondimenti su singoli aspetti od opere che in genere partono da un’analisi stilistica, metrica e sintattica per poi spostarsi al livello ideologico. Il ragionamento ha di solito un andamento relativamente piano e mostra la volontà di farsi capire dagli studenti riducendo l’utilizzo di paradossi e analisi complicate tipico del saggismo di Fortini.

Gli appunti preparati da Fortini per la lezioni del corso del 1972-1973 sono conservati, insieme ad alcuni materiali non direttamente riconducibili al corso, presso l’AFF nella scatola F2g XXXIX, cartella 2. L’elenco dei documenti presenti in questa cartella è il seguente:16

1. Appunti su Giovanni Boine (dispensa del corso): due fogli manoscritti solo sul recto in orizzontale numerati in alto a destra.

2. Appunti sui simbolisti: un foglio manoscritto sia sul recto che sul verso in orizzontale diviso in colonne.

3. Appunti su Michelstaedter: cinque fotocopie di fogli manoscritti in orizzontale su due colonne. Il testo è lo stesso del documento 15.

4. Appunti per il corso di Storia della Critica Letteraria, conclusioni: undici foglietti dattiloscritti solo sul recto con correzioni e aggiunte autografe numerati da 1 a 11.

5. Corso di Storia della Critica Letteraria, appunti: due fotocopie di dattiloscritti numerati in alto a destra 1 e 2.

6. Foglio sui vociani: un foglio dattiloscritto solo sul recto su scheda per pareri di lettura della Mondadori.

7. Schema sui vociani: quattro fogli stampati da pc con annotazioni autografe numerati parzialmente e in maniera discontinua. Il primo foglio non è numerato e riporta un lungo passo presente anche nel secondo foglio. I fogli dal secondo al quarto sono numerati a penna rispettivamente 1, 2 e 4, manca un foglio intermedio. Si tratta di una porzione del testo poi stampato, con qualche modifica, in Il frammentismo della rivista «La Voce» e Piero Jahier, Fondazione Calzari Trebeschi, Brescia 1990.

8. Appunti sulla «Voce»: venti fogli dattiloscritti solo sul recto con correzioni e annotazioni autografe. I fogli sono numerati in maniera discontinua. Il primo con il numero 3. Poi da 3 a 11, poi da 15 a 23 e poi 25 e poi 30. Il testo presenta diverse incertezze, punti di domanda, nomi non compresi e storpiati, puntini di sospensione o spazi bianchi al posto di alcune parole. Tutto ciò fa supporre che il testo non sia stato battuto a macchina da Fortini, ma da una delle dattilografe milanesi cui talvolta si affidava.

9. Fotocopie di testi: due fotocopie, una con un testo di Sbarbaro e una con un testo di Lalla Romano.

10. Appunti su Giovanni Boine: fotocopie del documento 1.

11. Foglio di dispensa su Rebora: fotocopia di un foglio del documento 17.

12. Corso di Storia della Critica Letteraria: si tratta di fotocopie del documento 5, in tutto sono tre fogli e il secondo è in doppia copia.

13. Fotocopie delle dispense su Sbarbaro: si tratta dello stesso testo del documento 20 più un foglio. Il testo si trascrive direttamente nella parte dedicata al documento 20 a cui si aggiunge di seguito la trascrizione del foglio in più qui presente.

14. Corso di Storia della Critica Letteraria, Clemente Rebora: in totale si tratta di dodici fogli. I primi otto sono dattiloscritti solo sul recto con correzioni e annotazioni autografe e sono parzialmente numerati. Inizialmente era presente una numerazione alfabetica dal secondo foglio in poi (da “b” a “h”), poi sostituita da due numerazioni numeriche, la prima con una penna rossa (che contrassegna il primo foglio col numero 3, i successivi regolarmente fino a 7 e poi i rimanenti da 11 a 13) e la seconda che riguarda solo gli ultimi tre fogli dove si cassa il numero a penna rossa e lo si sostituisce con uno a penna nera da 8 a 10. Dopo questi otto fogli sono presenti altri quattro in fotocopia che riportano quelli contrassegnati originariamente da “b” a “e” senza le correzioni e le aggiunte presenti negli altri.

15. Dispense su Carlo Michelstaedter: cinque fogli manoscritti in orizzontale solo sul recto numerati in alto a destra da 1 a 5. Il testo è lo stesso del documento 3.

16. Alcuni fogli di dispensa su Rebora: si tratta di otto fogli in fotocopia come i primi del documento 14 con qualche piccolo appunto in meno.

17. Dispense su Rebora: un foglio A4 usato in orizzontale con due colonne di testo manoscritto solo sul recto.

18. Altri appunti su Rebora: un foglio A4 e tre fogli più piccoli manoscritti solo sul recto tranne il secondo che riporta un epigramma sul verso. I fogli 2-4 sono numerati in alto a destra con questi numeri. I primi tre fogli riprendono considerazioni simili a quelle già svolte nella prima parte del documento 14. Il quarto ed ultimo contiene appunti sparsi. Sul verso del secondo foglio si legge a penna rossa: «Venne per una croce e n’ebbe due / Emilio Castellani il traduttore. / Doppia Germania, dalle pietre tue / doppio commendatore».

19. Dispense su Rebora: fotocopia della trascrizione dattiloscritta di Spunti demoniaci di cui al punto 17 e al punto 11 (tre fogli).

20. Appunti su Rebora: alcune stampe da pc su Rebora (otto fogli, il primo riporta degli appunti manoscritti sul verso) variamente numerate con correzioni e note autografe (si tratta del lavoro in vista del saggio su Rebora del 1994).

21. Dispense su Sbarbaro: tre fogli manoscritti scritti in orizzontale solo sul recto numerati in alto a destra da 1 a 3. Un quarto foglio legato a questi è conservato in fotocopia nel documento 13. Nella trascrizione si riporta questo quarto foglio dal documento 13 di seguito agli altri.

22. Dispensa su Piero Jahier: fotocopie di tre fogli manoscritti parzialmente numerati.

23. Foglio di appunti su Jahier: un foglio manoscritto sia sul recto che sul verso con appunti.

III.

Nell’introdurre il corso Fortini sceglie di partire dal cosiddetto «problema degli inizi»,17 cioè la questione di quando vada fatta cominciare la letteratura italiana contemporanea. Tale questione è ineludibile per avviare un discorso sul Novecento perché esplicita il «criterio di rilevanza» con cui lo studioso si approccia all’argomento e pone le basi per una interpretazione storica del fenomeno letterario che metta in relazione le diverse opere, i diversi autori e le diverse forme di comunicazione. Scrive significativamente Fortini: «La partizione cronologica implica giudizio – o pregiudizio – e non può essere considerata solo un sussidio pratico». Questo discorso, applicato alla contemporaneità mostra una sua specificità: «La famosa frase secondo la quale ogni storia è storia contemporanea va corretta in questo senso: che ogni storiografia essendo scelta, ogni scelta privilegia ed elegge un dato ordine di elementi e li carica di un segno di valore, positivo o negativo».18

Il momento di avvio del Novecento letterario italiano viene dunque individuato da Fortini nelle avanguardie artistiche di inizio secolo. Tuttavia, viene sostenuto, i problemi posti da esse vanno considerati in relazione al modo in cui sono stati affrontati dagli altri autori e dai critici nel corso del tempo. Dunque quello che si propone di fare Fortini è appunto valutare tali problemi in rapporto alla loro emersione storica.

Per cominciare quindi si sottolinea l’importanza di una descrizione della società, delle strutture economiche e della cultura dell’epoca:

Proporsi di interpretare alcuni testi della poesia lirica italiana la cui composizione si situa fra la fine del primo decennio del nostro secolo e l’inizio del decennio seguente, alla luce della critica letteraria che dal 1945 al 1960 circa si è occupata di questi testi, vuol dire anzitutto rilevare che questa critica, almeno in tutta una sua parte maggiore, di non distaccarsi [sic] dalla tradizionale impostazione storicistica. Avviene così che quasi ogni discorso critico su quelle operazioni poetiche si inizia con referenze al quadro generale della società italiana e non italiana di quel periodo per poi passare al quadro delle tendenze culturali dominanti, a quello delle forme e del linguaggio letterari.19

Dopo queste riflessioni e prima di giungere all’analisi dei singoli autori Fortini sente l’esigenza di storicizzare anche i problemi critici posti dall’esperienza della rivista fiorentina e sostiene che il «problema critico dei vociani», di cui vuole trattare nelle sue lezioni, si pone solamente con l’affermarsi dell’ermetismo che è costretto ad interrogarsi sull’eredità lasciata dalla «Voce», in genere accettando le innovazioni formali, ma rifiutando l’assillo etico e morale. Tale problema poi si riaffaccia, anche se in forme differenti, nel secondo dopoguerra con una serie di critici che saranno il costante riferimento di Fortini durante il corso e tra cui spiccano in particolare Pier Vincenzo Mengaldo, Alberto Asor Rosa e Edoardo Sanguineti.

Per venire alle dispense dedicate agli autori possiamo cominciare da Jahier che abbiamo visto quale importanza avesse avuto nella gioventù di Fortini. Delle lezioni su di lui non è rimasto moltissimo e, in buona parte, si tratta di appunti piuttosto disorganici e dunque di difficile interpretazione, tuttavia si tratta per vari motivi di un passaggio chiave – come si vedrà – della generale descrizione tentata nel corso. Dalle fotocopie della dispensa rimasteci vediamo come Fortini cominci il suo discorso con la presentazione delle possibili letture politiche ed ideologiche di Jahier. Infatti, fino agli anni Cinquanta la sua figura è stata apprezzata da sinistra in quanto in opposizione con le scelte degli ermetici, facendone «una alternativa popolare e antifascista all’estetismo». Il riferimento polemico probabilmente è da rintracciare in «Officina», o per lo meno anche in «Officina», e in particolare nelle posizioni di Leonetti, che in un articolo del 1956 poneva Jahier – insieme agli altri vociani maggiori – in netta opposizione all’estetismo,20 e di Roversi, che ancora nel 1965 riprendeva l’idea della natura democratica dell’opera di Jahier descrivendo la sua ferma opposizione al «superomismo ribellistico» che lo porta a vivere il suo rapporto con i commilitoni con un grande «fervore pedagogico» che fa di lui un «maestro» e un «rivoluzionario».21 Questa concezione era stata però criticata da Asor Rosa che in Scrittori e popolo aveva portato l’attenzione su un altro aspetto: «il populismo sentimentale, il moralismo sentenzioso, la simpatia sostanzialmente rettorica per i contadini»,22 ricordando anche la sua partecipazione ad alcune riviste di propaganda bellica durante la Grande Guerra. Dopo aver analizzato la natura dell’umiltà e del democraticismo jahieriano, il critico concludeva chiedendosi in maniera retorica: «Non dovremmo finalmente ammettere che anche questo libro gronda di retorica intellettualistica, come tanti altri libri “nazionalisti” sulla prima guerra mondiale?».23

Fortini vuole cercare di andare oltre questa opposizione e rileva che, prescindendo dall’esperienza nel conflitto mondiale, Jahier va comunque inserito nel gruppo dei migliori vociani per il suo tentativo di superare il momento etico e quello estetico che, nel suo caso, si traduceva anche nel superamento delle differenze di classe.

La cosa più interessante da notare della dispensa è però il fatto che Fortini insista su una lettura “religiosa” di Jahier. Alcune sue scelte vengono infatti ricondotte alla sua fede valdese:

È abbastanza ovvio e persino banale rilevare come le origini calviniste disponessero Jahier ad una tipica illusione “religiosa” assai frequente nei protestanti italiani e in quanti, usciti da una educazione cattolica, hanno teso ad identificare sviluppo democratico e società del progressismo borghese. La difesa del contadino e delle sue virtù (e quindi della patria italiana come patria contadina e non industriale ecc. ecc.), in breve tutti i temi che nutrono la retorica patriottica dell’alpino Jahier, è la continuazione del sogno rappresentato dallo sviluppo di società borghesi a forte componente contadina; i piccoli proprietari difensori del proprio campo e della propria Bibbia.24

In questo senso è utile legare tali riflessioni, oltre all’ovvio rimando alle esperienze personali, anche all’attenzione che Fortini dedica agli scritti religiosi di Boine su cui torneremo tra breve. Il concentrarsi sulle inquietudini religiose dei primi anni del Novecento e una lettura impostata anche sui caratteri della fede sono delle caratteristiche che ricorrono nel corso e sono temi che con ogni evidenza giocano un ruolo importante nel determinare l’interesse fortiniano verso i vociani e che torneranno in maniera importante anche nei momenti di riflessione successivi.25

Fortini, poi, passa all’analisi delle tre opere principali di Jahier – le Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi, Ragazzo e Con me e con gli alpini – dal punto di vista formale, ricavando alcune considerazioni sull’ideologia dell’autore. Lo stile volutamente elementare e relativamente piano viene considerato in rapporto con l’idea di «semplicità e schiettezza» di cui Jahier voleva farsi portatore con la sua azione umana e letteraria. In questo modo emerge in maniera più chiara rispetto ad altri autori «una caratteristica della ideologia letteraria di quel momento, ossia il rifiuto, almeno tendenziale, della forma intesa come mediazione per affermare invece una tendenziale immediatezza». Considerazione, questa, che viene subito specificata mettendo a fuoco la sua successiva evoluzione:

Questa tendenza alla immediatezza sarà poi accusata dalla critica come irrazionalismo e moralismo. La critica antivociana di Serra, di Cecchi, dei giovani Debenedetti, Solmi, Montale prende corpo sopratutto nell’immediato dopoguerra ed è la forma liberal-crociana di “richiamo all’ordine”. Essa esorcizza, nel nostro paese ogni avanguardismo, tanto nelle sue forme “plebee” […] e di sinistra, quanto in quelle mistico-religiose.26

Questo discorso sul rifiuto di una mediazione stilistica va messo in relazione con la riflessione fortiniana sulle avanguardie storiche, con la sostanziale simpatia con cui Fortini guardava alla loro apertura27 e con la constatazione che il rifiuto e il superamento di queste istanze da parte delle successive correnti letterarie comporta anche la negazione della fiducia in una presa sulla realtà della scrittura che alimentava la speranza di una possibilità di rinnovamento e cambiamento sociale.

La posizione di Jahier viene descritta come quella di chi riconosce di essere in una situazione tragica alla quale non si può sottrarsi, ma in cui si è costretti a dibattersi con una lucida e terribile consapevolezza. In questo va riconosciuto il suo eroismo, non assimilabile a quello «volgare […] di tipo dannunziano o nietzschiano» ma piuttosto, riconducendo ancora una volta il discorso alla religione protestante di Jahier che si traduce in assillo etico, a «quella militia hominis super terram che è la vita, per una disposizione repressiva, autopunitiva, sacrificale» preso atto del peso di quella «responsabilità individuale» data dalla consapevolezza dell’influenza delle nostre azioni umane sugli altri uomini.

Su questa base, nonostante tutti i limiti del suo populismo evidenziati in precedenza e che pure riconosce, Fortini individua comunque in Jahier «il solo orizzonte ideologico non evasivo o meno evasivo di altri»28 rispetto all’esperienza della guerra e al sentimento della truppa contadina verso di essa.

Nelle dispense dedicate a Boine, dopo alcuni accenni biografici, ci si concentra in particolare su due punti: la sua «incompiutezza» e la sua «vocazione “religiosa”».29 La prima viene ricondotta alla sua incapacità di rappresentare la necessità, che pure manifesta, della insostenibile totalità del vivere, che si condensa in una volontà di immediatezza e di abbandono. Sulla seconda invece si insiste maggiormente proponendo un discorso più complesso sul quale converrà soffermarsi. È innanzitutto degno di interesse che, nelle letture proposte, Fortini confini il Peccato all’interno di una esercitazione mentre scelga di occuparsi a lezione soprattutto degli scritti religiosi e in particolare di analizzare l’importante articolo del 1911 intitolato Esperienza religiosa. Questo saggio nasce dall’allontanamento di Boine dall’esperienza modernista con cui aveva inizialmente simpatizzato e parte da una constatazione di come la difesa della religione, che un tempo era considerata oggettività e logicità sia ora confinata nella soggettività e nell’esperienza individuale. Boine rifiuta questa visione della religione e per far questo riprende Hegel, visto come punto di equilibrio tra la religione da una parte e il positivismo dall’altra. Il sentimento resta qualcosa di indeterminato che tendenzialmente produce caos, ma la base di questo caos viene individuata nel «sentimento religioso». Sembra interessante notare come questi concetti vengano ricondotti da una parte a Freud e dall’altra a Lukács e a Marx: al primo per la possibile lettura di questi elementi come nevrosi fondamentale; al secondo per la “riscoperta” di Hegel che conduce nei medesimi anni; al terzo per una possibile lettura di queste idee di Boine – il sentimento come ignoto da risolvere – legate all’idea di reificazione.

Tali elementi, secondo Fortini, spiegano la sfortuna critica subita da questo autore rifiutato sia da “destra” negli anni successivi alla morte in nome del ritorno all’ordine che da “sinistra” per il suo carattere giudicato eccessivamente religioso negli anni dell’immediato secondo dopoguerra a cui va aggiunto il giudizio negativo su un tardo libriccino intitolato Discorsi militari, influenzato dal clima interventistico immediatamente precedente alla Grande Guerra dove si esaltano la disciplina e il sacrificio in nome della patria.30

Come per le righe dedicate a Jahier, l’interesse di queste pagine risulta anche dal possibile collegamento con le convinzioni personali di Fortini che, come abbiamo detto, in gioventù – e non solo – non era stato insensibile ai richiami del discorso religioso e aveva avvertito come importanti e cogenti i temi toccati da Boine. Sembra quasi che nelle inquietudini del giovane ligure egli ritrovasse parte delle proprie e vi vedesse, in nuce, la possibilità di soluzioni affini a quelle che poi avrebbe trovato lui stesso. Quella che emerge è, insomma, una lettura molto personale dell’autore.

Un discorso simile può essere fatto anche per Michelstaedter che rappresenta un punto di riferimento importante per gran parte della vita di Fortini e che non a caso ritorna anche nel corso.31Il nome del filosofo goriziano era ben presente al giovane Lattes fin dagli anni Trenta, quando – stando alla sua stessa testimonianza – legge La persuasione e la rettorica trovato su una bancarella e ne resta subito affascinato. La lettura della sua opera si salda ai ragionamenti religiosi che Fortini svolge in quel periodo influenzati da Kierkegaard e Barth come si può notare nei due importanti scritti databili tra il 1938 e il 1939, Solitudine di Michelstaedter e Su Michelstaedter a cui si è già accennato in precedenza. Tali riflessioni lo porteranno prima alla conversione alla fede valdese e poi lo influenzeranno almeno fino alla crisi che vivrà durante il periodo dell’“esilio” svizzero durante la Seconda guerra mondiale che lo condurrà alle note prese di posizione politiche. È interessante notare che anche in questo caso gioca un ruolo fondamentale nell’interesse di Fortini verso Michelstaedter il confronto con Lukács che avviene in diversi momenti. Ai fini del nostro discorso conviene richiamare almeno due saggi. Il primo è Lukács giovane, scritto nel 1963 e successivamente raccolto in Verifica dei poteri, dove il paragone è dato dalla concezione della dimensione tragica dell’esistenza, ritenuta l’unica possibile per poter affrontare la realtà della vita da Michelstaedter e rifiutata da Lukács (e da Fortini) perché «vivere “in tragico” equivale a morire». Nonostante i due filosofi abbiano un retroterra culturale ed esperienziale molto simile, l’ungherese riesce a sottrarsi alle «scelte perentorie della “forma” tragica» e così «si rifiuta alla “morte” accettando la dimensione del discorso intermedio»,32 cioè della mediazione. Il secondo scritto è Le ultime parole davanti alla corte, composto nel 1974 e raccolto in Questioni di frontiera in cui ritorna lo stesso discorso giocato però in termini maggiormente politici e sociali laddove Michelstaedter, che davanti alla “rettorica” del mondo sceglie il suicidio, viene preso come campione della posizione anarchica e individualista, mentre Lukács, che invece sceglie di impegnarsi attivamente per cambiare il mondo, rappresenta la posizione comunista.

Nel periodo compreso cronologicamente tra questi due saggi Fortini tiene il corso sui vociani all’interno del quale decide di parlare anche di Michelstaedter. La sua inclusione nel campo degli scrittori della «Voce» non è così scontata: il giovane goriziano, durante la sua vita e il suo soggiorno fiorentino, non aveva mai scritto un articolo o partecipato attivamente alla rivista e non aveva mai frequentato il gruppo dei principali autori vociani. Fortini è consapevole che «nulla autorizza a noverarlo tra gli “scrittori” italiani del periodo preso in considerazione», ma dichiara che lo include perché ciò che gli interessa è la «descrizione di un “campo” letterario»33 e che occuparsi della sua opera è molto utile nella descrizione delle inquietudini che percorrevano la piccola borghesia di inizio Novecento. D’altra parte non è il solo ad operare questa scelta, lo stesso Luperini nel suo saggio già citato del 1973-1976 dedicato ai vociani, dopo una introduzione generale, sceglie di occuparsi in alcuni capitoli monografici di quattro autori in particolare: Slataper, Boine, Jahier e, appunto, Michelstaedter, per il quale però poi riconosce che, in fin dei conti, ci sono più elementi di distanza che di unione con i vociani veri e propri.

La lettura che Fortini propone di Michelstaedter si inquadra in un più generale ripensamento sul filosofo goriziano svolto in questi anni. Infatti, bisogna notare come al tentativo di definire le fonti dell’opera del filosofo goriziano si accompagna una giustificazione dell’interesse verso i suoi scritti sulla base di una sua attualizzazione e di un suo collegamento alle contemporanee correnti di pensiero e in particolare a Marcuse e all’idea di un “Grande Rifiuto” proposta in L’uomo a una dimensione.

Questo parallelo è un punto chiave del discorso svolto da Fortini che adesso è più cauto verso le influenze kierkegaard-barthiane a cui aveva in precedenza collegato La persuasione. Ora scopre un nuovo interesse verso l’opera del goriziano grazie all’accostamento di quest’ultima alle riflessioni di Hegel, Marx, Schopenhauer34 e altri autori più recenti, tra cui spicca, per essere stato l’unico richiamato nella dispensa, Marcuse. L’attualizzazione è giustificata dalla vicinanza del rifiuto della rettorica – descritto nelle ultime pagine della Persuasione come un moto di rigetto della società vista come “comunella dei malvagi”, come «rettorica organizzata a sistema»35 che opprime l’essere umano imponendogli dei «valori assoluti» ammantati dalla falsa «oggettività» della «scienza» costringendolo a rinunciare a se stesso36 – all’idea proposta da Marcuse nell’Uomo a una dimensione di un «Grande Rifiuto» da contrapporre al sistema economico, politico e sociale vigente basato su una falsa libertà democratica e su una tolleranza repressiva.37 La lettura che Fortini fa di Michelstaedter perde dunque i caratteri esistenzialistici che la caratterizzavano in precedenza per recuperare il filosofo goriziano in qualità di critico della società borghese. Si tratta di una visione tanto personale quanto aperta a una più ampia dimensione didattica, come la situazione richiedeva.

Si deve poi sottolineare come nella dispensa Fortini si concentri soprattutto sulla definizione delle ascendenze filosofiche e sugli aspetti stilistico-retorici delle poesie e delle prose di Michelstaedter nel tentativo di svelarne l’intima chiave compositiva. In queste pagine emerge una predilezione per i testi poetici mentre la Persuasione e il Dialogo della salute, le due opere filosofiche riconosciute unanimemente come le più importanti, vengono trattati più brevemente. L’occasione accademica costringe ad una lettura di Michelstaedter attenta ai fatti formali che negli studi citati precedentemente, più personali, mancava. Viene ora rilevato che la lontananza di Michelstaedter dai centri culturali della nazione all’epoca lo condanna ad una lingua pregna di involontaria letterarietà, lontana dal parlato che lo conduce ad una scrittura dal «timbro solenne e spesso glaciale» di cui non è nemmeno consapevole. Fortini, infatti, nel provare a rintracciare alcune influenze e rimandi ad alte esperienze poetiche, è costretto ad ammettere che si tratta di un «“unicum”» per la poesia «del suo tempo, almeno per l’Italia».38

Da queste lezioni nasce anche il saggio che Fortini compone nel 1974 intitolato Un biglietto di Michelstaedter e che poi sarà posto in apertura dei Saggi italiani. Il saggio consiste nell’analisi di una breve lettera di Michelstaedter all’amico Enrico Mreule, esaminata e sviscerata in tutti i suoi aspetti formali e messa in relazione con l’atmosfera culturale dell’epoca. Sulla base di precisi raffronti testuali, si può affermare che viene ripreso il discorso della dispensa dimostrando una volta di più l’importanza di questi appunti anche al di fuori del contesto accademico.

Nella dispensa dedicata a Sbarbaro, dopo aver dato alcuni «dati informativi», si prendono in esame in particolare la prima edizione di Pianissimo e i primi Trucioli. L’obiettivo dichiarato non è la trattazione «monografica dello sviluppo di una personalità», ma la valutazione del contributo di Sbarbaro all’«area di costruzione poetica»39 presa in esame. In questo senso Fortini tende a esaltare come il più «autentico» il poeta di Pianissimo del 1914 e dei Trucioli composti tra il 1914 e il 1918. Per far ciò riprende una tesi di Passione e ideologia di Pasolini (ma anche di Solmi e Sanguineti) secondo cui Sbarbaro è tra quegli autori la cui vena più schietta non sopravvive al vocianesimo e si ritrova strozzata nel passaggio al rondismo con il cosiddetto ritorno all’ordine e con tutto ciò che questo comporta dal punto di vista dell’espressione formale. Ciò implica il rifiuto della tesi (sostenuta tra gli altri da Barberi Squarotti) secondo la quale il merito principale di Sbarbaro sta nell’aver espresso uno stato di totale «atonia morale» e di sostanziale alienazione e rifiuto della realtà.

Partendo da questo inquadramento teorico Fortini conduce degli approfondimenti a campione su alcuni testi mettendone in luce i principali fatti formali e giungendo quindi a racchiudere la poesia di Sbarbaro nella categoria del «“dimesso sublime”» segnata da un uso di parole comuni e concrete da una parte e da una sintassi ricercata e una metrica straniante ma debitrice verso i grandi modelli della letteratura italiana dall’altro.

Dal punto di vista ideologico, infine, Fortini individua le radici di Sbarbaro in quelle correnti del Romanticismo che rifiutavano l’ottimismo progressista di matrice illuminista, pur richiamandosi ad essa nel rifiuto della religione. In una parola: «È lo stoicismo che vira al cinismo».40

L’ultimo autore trattato con una certa ampiezza da Fortini è Rebora a cui vengono dedicate lunghe e fitte pagine di analisi linguistiche e stilistiche che poi con ogni evidenza, come già accennato in precedenza, saranno alla base degli studi futuri e in particolare del saggio sui Frammenti lirici composto negli anni Novanta ed uscito postumo nel 1995.41 Da questa analisi molto dettagliata affiora una visione di tale poeta che rifiuta l’idea di una sua supposta arretratezza. Questa idea era affermata talvolta dalla «cosidetta critica di sinistra» che sottolineava come nelle opere dei vociani non emergesse una chiara posizione di classe. Fortini invece constata che i vociani con ogni probabilità erano in grado di analizzare la realtà sociale in cui si trovavano a vivere in maniera più compiuta di quanto non avvenga nelle loro opere letterarie e in ogni caso rappresentano il punto di più avanzata consapevolezza poetica su tutta una serie di questioni ideologiche che erano sorte all’epoca tra cui, in primo luogo, «le conseguenze alienanti della urbanizzazione e industrializzazione».

È il tema delle “radici” e dello sradicamento: della autenticità e della inautenticità. Non è un caso che in Rebora la negatività urbana sia rappresentata dai “traffici” ossia dal momento commerciale dunque tipicamente borghese e non da quello produttivo-industriale.42

Su questa base ideologica si instaura l’espressionismo di Rebora la cui fisionomia si caratterizza per un processo di rottura e lacerazione stilistica che gli permette di giungere ad un linguaggio particolare che informa di sé ogni parte dell’opera in versi e in prosa. Ciò però porta Rebora a rinchiudersi nel suo sistema e finalmente, secondo Fortini, lo rende assimilabile ad un poeta classicistico che si trova a fare i conti con una lingua poetica convenzionale.

Rebora non lascia senza intervento stilistico nemmeno un pollice del proprio testo. E anche le sue prose lo testimoniano. Non allentando la tensione in nessun punto, la tensione tende a farsi sussultoria e, nel suo sussulto, uniforme. Sono in lui eccezionali quei mutamenti di registro con i quali i grandi lirici si portano ad indicare l’esistenza di piani diversi della letteratura. Sicché il lettore sente che la soggettività – intesa come temperamento, come nesso psicologico fondamentale o, se vogliamo, nevrotico – del soggetto parlante, dell’autore insomma, si distaccasse dalla oggettività ossia dai suoi temi.

Ne consegue l’impressione che di questa poesia si possa parlare bensì come riflesso di una condizione di violenza e di lacerazione ma come un riflesso passivo e quindi relativamente statico.43

IV.

Ovviamente, pur considerando, com’è doveroso, il corso nella sua interezza (o facendolo per quanto i materiali rimasti ce lo consentano) le parti che per un discorso complessivo sul rapporto tra Fortini e i vociani risultano di maggior interesse sono le parti introduttive e, soprattutto, quelle conclusive che svolgono un ragionamento complessivo sulla rivista fiorentina e i suoi autori.

In queste ultime in particolare viene riconosciuto come il corso sia interamente giocato su due piani interpretativi, da una parte un inquadramento storico che colloca gli autori e i testi analizzati in «rapporto ad una situazione sociale, culturale, ideologica», dall’altra un’attenzione ai fenomeni formali con il proposito di mettere in luce le caratteristiche stilistiche interne ai testi notevoli di uno stesso autore. Le due impostazioni tendono talvolta a contraddirsi, ponendo in primo piano alternativamente l’autore con la sua esperienza umana e gli elementi comuni che legano i vari autori e i vari testi.44

Le posizioni a cui Fortini riconduce il discorso critico sui vociani in esame sono sostanzialmente tre. La prima è quella di Sanguineti che tende a sottolineare come i vociani siano accomunabili sia sul piano morale che su quello stilistico, riconoscendo la loro specificità in una particolare «etica dell’espressione». Scrive Sanguineti, significativamente citato negli appunti fortiniani:

Essi furono la voce più diretta e autentica della grande crisi, anzi furono la crisi, immediatamente, e non nell’orizzonte degli esami di coscienza dei letterati, ma… sopra il piano tanto più vasto e responsabile, della generale coscienza nazionale… Non è soltanto l’arte del verso che gravemente si interroga sopra il proprio senso e sopra il proprio destino, sono i superstiti di una società ormai destinata a riuscire travolta… le estreme possibilità di una critica coscienza borghese, in quel momento… e pongono domande, e dicono inquietudine e furore; e non ottengono risposta.45

Come si vede si tratta di una visione che valorizza l’espressione della coscienza della crisi della società borghese di inizio Novecento che si salda con la consapevole ricerca di uno stile espressionista che vuole interrogare con forza la realtà anche se non ottiene nessuna risposta. Non è un caso che l’autore che Sanguineti tende a valorizzare di più all’interno del gruppo variamente ascrivibile alla «Voce» è Dino Campana.

La seconda posizione presa in esame è quella di Mengaldo che si oppone a Sanguineti in nome di uno studio dei vociani non limitato al loro tempo, ma attento alle eredità e alle implicazioni che creano nei loro successori. Inoltre l’opposizione è data da una visione della loro produzione letteraria che privilegia l’aspetto formale su quello morale che risulta troppo involuto e sfuggente per essere espresso in maniera compiuta, tanto che la tensione del linguaggio lo oltrepassa sempre. La citazione scelta da Fortini è altrettanto significativa della precedente:

Quando si legge un poeta autentico come Rebora […] o, a livello meno alto, Boine, ciò che anzitutto colpisce è una sorta di drammatico squilibrio tra la continua, ossessiva moltiplicazione di verba e invenzioni stilistiche e l’indeterminatezza dei referenti, quasi un brancicare mimico del linguaggio che tenti di afferrare e quasi produrre contenuti sfuggenti che il prelogico èlan morale non è in grado di selezionare nel magma del vissuto; in un rapporto tanto paradossale quanto necessario tra astrattezza di contenuti e massima energia e concretezza del linguaggio.46

L’ultima posizione esaminata è quella di Asor Rosa che valorizza la concezione frammentaria della letteratura intesa come una forma di comunicazione «breve, concentrata, estremamente espressiva», concepita come percorso di «autoanalisi personale» che nasce dal rigetto e dal rifiuto del mondo intellettuale della piccola borghesia di inizio Novecento.

Fortini riassume così le tre posizioni:

Si può dire che nel primo critico la valutazione positiva è provocata dalla energia della innovazione formale degli autori considerati; nel secondo, dalla loro capacità di prolungarsi nella successione letteraria; nel terzo, dal rapporto con una situazione letteraria arretrata rispetto al maggior decadentismo europeo ma avanzata rispetto ai crepuscolari e futuristi.47

Su queste considerazioni Fortini poggia per sviluppare le proprie. Egli trova un forte punto di contatto tra gli autori che ha scelto di trattare sulla base di una «tematica filosofica, metafisica, cosmica» che li inserisce nell’alveo di una grande tradizione della letteratura italiana che trova il suo massimo esponente in Leopardi. È questa concezione che lo guida nel privilegiare alcuni autori rispetto ad altri (viene quasi del tutto ignorato Campana) e alcune opere in genere considerate minori (si pensi a Boine di cui – s’è visto – si analizzano gli scritti religiosi, mentre si tralascia Il peccato). La «Voce» secondo Fortini propone, attraverso questo ragionare in versi, la necessità di una nuova cultura in grado di coniugare sapere e moralità. Ma questa necessità, mentre propone qualcosa di nuovo, mostra il vuoto che si era creato nella vecchia cultura risorgimentale e la sua ormai conclamata insufficienza. Di fronte a questa crisi le risposte possono essere diverse: assistiamo contemporaneamente al ripiegamento «sarcastico-depressivo» dei crepuscolari da una parte e al rumoroso tentativo di innovazione futurista. I vociani invece reagiscono cercando di proporre un «rinnovamento culturale, ossia morale e civile», cercando di prendere coscienza della realtà sociale che li circonda con apposite inchieste nel tentativo di intervenire sul reale. Scrive Fortini:

Quelle che siamo soliti chiamare “le inquietudini del primo Novecento” oppure il “moralismo” dei Vociani, altro non è che la coscienza della dissoluzione di alcune strutture socioculturali; e la tensione – prepolitica, semipolitica, apertamente politica o solamente ideologica – a intervenirvi.48

O, espresso in altri termini:

Quelle che vengono chiamate le inquietudini morali degli Anni Dieci e che si manifestano soprattutto nell’opera dei vociani non sono altro che il grido e il lamento, espresso liricamente, di fronte all’orrore crescente del capitalismo imperialistico. La radicale diversità fra costoro e i futuristi, i dannunziani e i crepuscolari è tutta qui.49

In questo senso l’esperienza dei vociani viene a costituirsi come un modello fondamentale di impegno civile in una situazione di crisi. Il moralismo, inteso come «l’atteggiamento di chi guarda a sé e alle cose umane sopratutto in termini di bene e di male»50 è dunque, per Fortini, la risposta alla crisi dei modelli sociali.

A questo punto si vede chiara la ragione non solo del filosofare, dell’andar costruendo cumuli di frammenti lirico-esistenziali tenuti su dal cemento di razionalizzazioni filosofiche o approssimativamente tali, ma anche di quella furia espressiva, di quel “brancicare mimico del linguaggio”: è che il poeta si sente investito di una responsabilità di emergenza. Comincia a saper di non aver più posto nella società e per questa crescente solitudine pensa di surrogare o integrare le altrui attività, dandone una interpretazione complessiva etico-estetica, insomma formata e formale. In questo senso, gli autori che abbiamo letti sono […] i primi veri impegnati (“engagés”) della letteratura italiana del nostro secolo.51

Questa concezione non è del tutto estranea alle idee sulla «Voce» espresse su «Officina» e in particolare, anche se non viene citato esplicitamente, si può pensare alle riflessioni di Angelo Romanò sullo stile dei vociani che punta il dito proprio verso la mescolanza di filosofia e poesia su cui si basa il loro «pastiche», inteso però alla fin fine come modo per aggirare la realtà.52

Fortini chiude poi l’intero suo corso con un confronto generazionale e ad una attualizzazione dell’esperienza vociana. La borghesia dell’epoca faceva della sovrastruttura culturale un’ideologia connettiva da porre come valore assoluto davanti alle classi oppresse. Davanti a questa situazione, quando le contraddizioni iniziano ad essere troppo gravi, sorgono due forme di protesta. Da una parte quella della lotta politica socialista che punta a rovesciare la società e dall’altra la «forma “artistica” o letteraria».

Fortini individua tre maniere in cui quest’ultima può realizzarsi. La prima avviene con la «separazione» dell’arte dagli altri elementi che compongono il discorso socioculturale e si tratta di una posizione «estetistica», caratteristica dei simbolisti. La seconda propone la scomparsa dell’arte nell’unione di esperienza e comunicazione ed è la risposta proposta dei surrealisti. Infine la terza è l’idea del «modello profetico» che consiste nell’«ipotesi di superamento delle contraddizioni e divisioni presenti» con un’anticipazione del futuro.

Sulle prime due Fortini avrà modo di tornare nei corsi successivi, ora invece si concentra sui vociani che secondo lui scelgono la terza possibilità rifiutando le altre e le loro implicazioni e così facendo si pongono in una situazione di passaggio che ha numerosi punti di contatto con quella del presente. Per questo la loro esperienza può essere ancora utilmente considerata e attualizzata:

A questo punto si intende perché e in quali limiti i poeti che abbiamo interpretati hanno qualcosa da dirci ancora e direttamente: essi non vollero più (o non poterono più) esprimersi nei termini di una solitudine protetta e non vollero ancora proporsi di scomparire nell’immediatezza del circolo esperienza-comunicazione. Per questi due rifiuti essi rappresentano, pur nei loro limiti e nella loro infelicità, una condizione che è ancora nostra. La sentiamo presente, con le sue contraddizioni, nei loro momenti migliori e ne è la vera ragione, l’ispirazione più certa.53

V.

Dopo il corso del 1972-1973, l’altro momento della riflessione che Fortini conduce sui vociani negli anni ’70 è rappresentato dal saggio-antologia I poeti del Novecento uscito, come già ricordato, nel 1977 nella collana della «Letteratura italiana Laterza» diretta da Muscetta.

Il primo capitolo del libro è dedicato a «La poesia del Novecento: l’età espressionista», cioè all’età delle sperimentazioni che danno avvio al nuovo secolo dal punto di vista letterario. Nonostante in questo capitolo si parli di molti autori, tra cui Lucini, i futuristi, Onofri, Valeri e altri, il centro è occupato dai vociani a cui viene indubbiamente attribuita un’importanza fondamentale. Qui convergono e vengono riprese e sviluppate, infatti, molte delle idee espresse durante il corso.

Fortini comincia anche in questo caso col porre il «problema degli inizi» consapevole che «tra la fine del secolo e quella della prima guerra mondiale ebbe a intervenire un mutamento decisivo nelle forme e nei temi della poesia italiana e che sia necessario, descritte le diverse correnti, privilegiarne alcune».54 E Fortini, evidentemente, sceglie di privilegiare i poeti riconducibili all’area vociana dando grande spazio a Boine, Jahier, Sbarbaro, Bacchelli, Campana e soprattutto Rebora cui viene riservato un capitoletto a sé. Non ha senso ripercorre puntualmente la trattazione dei singoli autori perché sostanzialmente riprende quando era stato detto durante il corso, però è possibile provare a svolgere alcune brevi considerazioni di carattere generale.

Nell’analizzare la ricostruzione che Fortini propone bisogna innanzitutto rilevare che il campo qui, rispetto al corso, è più rigidamente limitato alla poesia e, in secondo luogo, che – come s’è già accennato – l’anno prima era uscito nella stessa collana un volume sulla «Voce» di Romano Luperini. Tale libro in realtà si occupava sopratutto della prosa dei vociani e molto poco della poesia, ma Fortini non poteva non tenerne conto nella selezione degli autori e delle tematiche da trattare nel suo saggio-antologia. Non è un caso infatti che, come nota Donatello Santarone, in questo volume si rimandi al saggio di Luperini per un inquadramento generale dei vociani.55

Forse è anche per questo che Fortini tende a trattare questi scrittori come individui anziché come un gruppo, privilegiando l’analisi dei singoli caratteri piuttosto che quella degli elementi in comune, come dichiara esplicitamente in apertura: «La poesia, del nostro come di altri secoli, non coincide con la storia dei suoi gruppi intellettuali e delle loro tendenze».56

Davide Dalmas, in un saggio in cui descrive il rapporto tra Fortini e Jahier, si concentra soprattutto sull’antologia del ’77 e sostiene che il piemontese, nei Poeti del Novecento, acquisisce «il rilievo che si dà a una “funzione”. Nel cammino della poesia italiana del Novecento, che Fortini intende individuare e proporre pur nella coscienza dell’impossibilità di ridurre ad unum una ormai innegabile varietà, Jahier non rappresenta tanto un poeta di risultati lirici concreti, e neppure una poetica ben sviluppata, quanto una possibilità di essere poeta, o meglio un’esigenza».57

Un’affermazione simile si potrebbe allargare, magari con qualche sfumatura, anche agli altri vociani citati. Il minimo comun denominatore, come nota Mengaldo, tra questi autori, infatti, «è semmai di carattere etico-psicologico, non stilistico».58 Cioè i vociani, prescindendo dalle varie sfaccettature che questo assume, sono comunque visti sotto la categoria del “moralismo”. Qui però il concetto non assume quel valore in fin dei conti positivo che aveva nel ’72-’73 ma viene problematizzato e complicato partendo da una considerazione di Contini che a proposito di Jahier afferma: «Sintassi impressionistica e iterativa, ritmo lungo, espressività eclettica, coincidenza di egotismo e moralismo».59 E Fortini commenta:

È il giudizio, duro per la sua brevità, di Contini; che però è difficile respingere se si considera che ogni moralismo implica un eccesso di importanza accordato al proprio io e che solo nella dimenticanza, cioè nel superamento di quello, si dà vera poesia. Perché il narcisismo dei poeti, di cui spesso di parla, si distingue in amore per il sé visibile e pubblico (e da quello vengono moralismo e vanità) e in amore per un sé sfuggente e nascosto che è invece la fonte della poesia.60

Questo brano segna probabilmente il momento più critico e di minor adesione di Fortini all’idea etica proposta dai vociani. Ora viene colpita l’idea stessa di moralismo, che se prima veniva considerato con una certa simpatia come la posizione più avanzata tra quelle ideologicamente possibili all’epoca e dunque apprezzato, ora viene assimilato alla vanità del poeta e sostanzialmente ad una falsificazione della propria interiorità indotta dalla società.

Il pubblico a cui idealmente si rivolgeva il libro era lo stesso del corso, quello degli studenti universitari e degli ambienti accademici, dunque rimane un evidente fine didattico in questi scritti (anche se ovviamente in un libro stampato che, a differenza di un corso, teoricamente può circolare anche fuori da questi ambienti c’è per forza di cose una maggior apertura), tuttavia l’interpretazione fortiniana qui probabilmente risente dell’evolversi dei tempi e della rappresentazione dell’intellettuale che stava cambiando, rendendo ora insufficiente un approccio considerato come eccessivamente semplicistico.

VI.

L’ultimo momento di riflessione sui vociani come gruppo da parte di Fortini è rappresentato dal testo intitolato Il frammentismo della rivista «La Voce» e Piero Jahier pubblicato nel 1990 dalla Fondazione Calzari Trebeschi che, nonostante il titolo, più che trattare di Jahier propone un discorso generale. Questo saggio viene sostanzialmente composto con l’assemblamento di alcune parti prese di peso dagli appunti del corso e da altre – anche se di entità minore – tratte dai Poeti del Novecento. Dunque non ci troviamo davanti a delle grandi novità rispetto all’interpretazione proposta in precedenza ma tale scritto ha comunque una sua importanza, sia perché conferma la validità che queste tesi avevano agli occhi di Fortini anche in tarda età, sia perché contiene alcune utili precisazioni, sia – infine – perché c’è un sostanziale ritorno alle posizioni espresse nel corso, forse anche dovuta agli eventi storico-politici avvenuti negli anni Ottanta in Italia e nel mondo, giocate però in un contesto di forte partecipazione personale.

In apertura dello scritto viene ripreso il discorso sul ruolo civile dell’intellettuale e anche il moralismo viene rivalutato in chiave positiva riprendendo il tema, che era già stato affrontato in precedenza, dell’eredità della «Voce»:

Essi sono stati i poeti della sola generazione culturale che, dopo la prima fase del Risorgimento e prima di quella della seconda guerra mondiale – vale a dire in tutto un secolo – ha preso coscienza di una responsabilità degli intellettuali come ceto di fronte alle trasformazioni indotte dalla economia del capitalismo avanzato.61

In questo senso i vociani possono ancora essere presi a modello. Secondo Fortini

lo scacco dei poeti vociani è dato, paradossalmente, dalla loro capacità di impegno e di speranza. Ma la loro “parte” ideologica e morale è travolta dalla guerra e poi, quattro anni dopo, dalla vittoria fascista. […] I vociani si erano illusi di evocare, a partire dal proprio caos linguistico e anche intellettuale, il linguaggio di una nuova società e di un nuovo contratto sociale.62

In tale sconfitta storica del tentativo vociano c’è una forte identificazione del Fortini del 1990, che in questi anni sta vivendo un’altra sconfitta storica, come viene esplicitato quando dichiara che il giudizio su Jahier (e sui vociani) di Contini già riportato nei Poeti del Novecento è un «giudizio, odioso ma irrespingibile, sulla mia stessa giovinezza».63 E in maniera ancora più evidente quando confessa con parole piuttosto forti:

Può sembrare assurdo e quasi irresponsabile: ma verso i poeti e gli scrittori di cui abbiamo parlato, nonostante quasi tutto un secolo ce ne separi, sopravvive in me un senso di malessere e di pena. Non già perché essi non siano pervenuti a dire quel che volevano; né perché lontani dall’equilibrio o perché travolti giovani dalla malattia o dalla guerra o dalle sorti politiche. Ma perché è stata frustrata la loro più intensa volontà, quella di una unità di letteratura e di esistenza, di parola scritta e di presenza al mondo. Per chi ha la mia età l’accento di quegli autori (Jahier, Rebora, Slataper e anche Michelstaedter […]) ha voluto dire […] una condizione di conflitto radicale con l’esistenza e la società. Sono stati quindi una scuola di libertà.64

Come si vede, Fortini mostra una profonda identificazione nell’esperienza vociana e la vive quasi come un estremo rifugio davanti al crollare delle utopie sociali e della stessa funzione dell’intellettuale. Davanti al ridursi degli spazi di azione essi ritornano ad essere un modello valido, sospirato quasi con nostalgia, e vengono a rappresentare una sorta di caos primigenio da cui poteva ancora nascere una elaborazione sociale differente. Ricordare tali cose, per il Fortini di questi anni, ovviamente acquisisce un forte significato anche politico, quasi fosse un appello fatto guardando un presente che mostra una sconfitta, cercando di ricostruire le orme lasciate dal proprio passaggio nel passato che è l’unico modo per volgersi verso il futuro. Queste ultime righe sui vociani vengono dunque a rappresentare quasi un corollario che accompagna quell’estrema invocazione racchiusa nel celebre «proteggete le nostre verità».

Note

* Il presente saggio nasce dalla revisione di un capitolo della mia tesi di dottorato intitolata Le lezioni inedite di Franco Fortini. Studio e edizione, elaborata sotto la supervisione di Niccolò Scaffai presso l’Université de Lausanne in cotutela con l’Università di Siena e discussa il 6 aprile 2020.

1 F. Fortini, P. Jachia, Fortini. Leggere e scrivere, Firenze, Nardi, 1993, p. 30.

2 Ivi, p. 14.

3 Ivi, p. 13.

4 Ivi, p. 37.

5 Ivi, p. 18.

6 Ivi, p. 27.

7 Ivi, pp. 35-36.

8 F. Fortini, Solitudine di Michelstaedter, in «La riforma letteraria», n. 28, aprile 1939, p. 10.

9 L. Lenzini, Le parole della promessa, in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. XXXIII.

10 F. Fortini e P. Jachia, Fortini. Leggere e scrivere cit., p. 29.

11 Ritorna con una certa importanza sia nel corso sui vociani che Fortini tenne nel 1972-1973, sia nel saggio-antologia I poeti del Novecento (a cura di D. Santarone, Roma, Donzelli, 2017, p. 20).

12 D. Dalmas, La protesta di Fortini, Aosta, Stylos, 2006.

13 L’insistenza da parte di vari docenti su questi argomenti mi è stata confermata anche da diverse testimonianze orali di ex-studenti.

14 I carteggi sono conservati presso l’Archivio Franco Fortini della Biblioteca Umanistica dell’Università di Siena.

15 Nello specifico, per restare ai volumi pubblicati citati in precedenza, nei saggi di Luperini un certo spazio era stato dato a Prezzolini e Papini, per non parlare dell’intera monografia che era stata dedicata a Slataper, mentre Scalia, nella sua antologia, dà ampio spazio ad altri autori vociani, soprattutto i più tardi.

16 I numeri dei singoli documenti e delle singole unità archivistiche sono da me attribuiti in modo da rendere più facilmente identificabili le successive citazioni che vengono fatte tutte in base a questa numerazione.

17 Documento 5.

18 Ibidem.

19 Documento 8.

20 F. Leonetti, Il decadentismo come problema contemporaneo, in «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, a cura di G.C. Ferretti, Torino, Einaudi, 1975, p. 226.

21 R. Roversi, Interventi, in «Paragone. Rivista mensile di arte figurativa e letteratura», n.s. Letteratura, 188/8, ottobre 1965, p. 105.

22 Documento 22.

23 A. Asor Rosa, Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa 2015, Torino, Einaudi, 2015, p. 75.

24 Documento 22.

25 Cfr. F. Fortini, Il frammentismo della rivista «La Voce» e Piero Jahier, Brescia, Fondazione Calzari Trebeschi, 1990, p. 10.

26 Documento 22, nota.

27 F. Fortini, Due avanguardie, in Id., Saggi ed epigrammi cit., p. 84.

28 Documento 22.

29 Documento 1.

30 Per un inquadramento generale di quest’opera si rimanda almeno al classico M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 77-83.

31 Per un inquadramento generale del rapporto tra Fortini e Michelstaedter cfr. L. Tommasini, Tradire Beethoven. Fortini e Michelstaedter, in Dall’altra riva. Sereni e Fortini, a cura di N. Scaffai e F. Diaco, Pisa, ETS, 2018, pp. 115-133.

32 F. Fortini, Lukács giovane, in Id., Saggi ed epigrammi cit., pp. 269-270.

33 Documento 15.

34 M. Cerruti, Carlo Michelstaedter, Milano, Mursia, 1967, pp. 114-126.

35 C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano, Adelphi, 1995, p. 118.

36 Ivi, p. 125.

37 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, trad. it. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Torino, Einaudi, 1967, p. 265.

38 Documento 15.

39 Documento 21.

40 Ibidem.

41 F. Fortini, «Frammenti lirici» di Clemente Rebora, in Id., Saggi ed epigrammi cit., pp. 1706-1752.

42 Documento 8.

43 Ibidem.

44 Documento 4.

45 Ibidem. La citazione, che presenta diverse omissioni, è tratta da E. Sanguineti, Introduzione, in Id., Poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1969, pp. LV-LVI.

46 Ibidem. La citazione, che presenta diverse omissioni, è tratta da P.V. Mengaldo, La poesia italiana del Novecento secondo Sanguineti, in «Strumenti critici», 14, febbraio 1971, p. 113.

47 Ibidem.

48 Ibidem.

49 Documento 8.

50 F. Fortini, Il frammentismo della rivista «La Voce» e Piero Jahier cit., p. 2.

51 Documento 4.

52 A. Romanò, Osservazioni sulla letteratura del Novecento, in «Officina» cit., pp. 318-319.

53 Documento 4.

54 F. Fortini, I poeti del Novecento cit., p. 6.

55 Ivi, p. 15, nota.

56 F. Fortini, I poeti del Novecento cit., p. 14. Cfr. P.V. Mengaldo, Fortini e «I poeti del Novecento», in ivi, p. VII: «Ciò che anzitutto colpisce in essa è infatti il fermo rifiuto di privilegiare “linee” o tendenze su altre e sulla autonoma consistenza degli individui».

57 D. Dalmas, La doppiezza del poeta: Jahier e Fortini, in Resultanze in merito alla vita e all’opera di Piero Jahier. Saggi e materiali inediti, a cura di F. Gianone, Firenze, Olschki, 2007, p. 105.

58 P.V. Mengaldo, Fortini e «I poeti del Novecento» cit., p. XIV.

59 La citazione è tratta da G. Contini, Letteratura dell’Italia unita. 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968, p. 702. La stesa citazione è ripresa anche negli appunti del corso sui vociani (documento 23).

60 F. Fortini, I poeti del Novecento cit., p. 20.

61 F. Fortini, Il frammentismo della rivista «La Voce» e Piero Jahier cit., p. 3.

62 Ivi, pp. 8-9.

63 Ivi, p. 14.

64 Ivi, pp. 1-2.