Un ricordo di Cecilia Mangini
Lorenzo Pallini

Il 21 gennaio 2021, proprio nel centesimo anniversario del Congresso di Livorno che segnò la nascita del PCI, ci ha lasciati Cecilia Mangini, all’età di 94 anni. Regista, fotografa e sceneggiatrice, era nata a Mola di Bari nel 1927 ed è unanimemente considerata la prima donna documentarista italiana. Per molti anni quasi dimenticata, assieme al compagno e regista Lino Del Fra (1929-1997) e ad altre importanti figure, tra le quali lo stesso Fortini, ha raccontato senza compromessi e senza retorica il nostro Paese dal dopoguerra in poi.

All’indomani della scomparsa di Cecilia Mangini non intendo ripercorrere la sua ricchissima vita, i molteplici incontri, descrivere i suoi documentari e gli ideali perseguiti «con ostinata passione» personale e civile, secondo una fortunata definizione di Gianluca Sciannameo.1

Da diversi anni, com’è giusto, l’attenzione e i riconoscimenti nei suoi confronti sono enormemente cresciuti, i suoi film hanno fatto il giro del mondo, spesso accompagnati dalla stessa autrice che, per nulla scoraggiata dagli inevitabili acciacchi dell’età, non ha praticamente mai rinunciato a incontrare il pubblico, dai giovani nelle scuole ai circoli culturali, fino alle platee dei maggiori festival. Parallelamente, si sono moltiplicati studi, articoli, saggi e interventi critici sul suo cinema militante.

Preferisco semplicemente, privilegiando un racconto più personale, riportare alcuni episodi forse minori, che credo però siano utili a mettere in luce aspetti importanti, a partire dal rapporto della Mangini con Fortini, da lei sempre considerato imprescindibile punto di riferimento come autore, portatore di una visione politica “altra”, oltre che poeta amato.

Nella foto che le ho scattato a Firenze qualche anno fa, Cecilia stringe a sé con un leggero sorriso una copia della prima edizione di Una volta per sempre del 1963. Come recita la dedica all’interno, il libro è stato donato da Fortini ai «compagni di sventura» Lino Del Fra e Cecilia Mangini, con i quali aveva condiviso la lunga lavorazione di quello che avrebbe dovuto essere, dopo l’avventura di All’armi siam fascisti! del 1960/61, il loro secondo film insieme, La Statua di Stalin.

Al di là dell’autoironia tutta fortiniana, le sventure ci furono davvero se pensiamo che proprio in quel maggio ‘63 i tre giunsero con un gesto clamoroso a ritirare la firma dal film, ormai praticamente concluso, non riconoscendosi nella versione rimaneggiata e imposta dal produttore Fulvio Lucisano. Il documentario uscì poi con un titolo significativamente diverso (Processo a Stalin), falsato nella sceneggiatura di Fortini e rimontato con diversi tagli e modifiche da Renato May, che firmò anche la regia con lo stesso Lucisano. Così, dopo che la censura di Stato si era abbattuta e accanita soltanto due anni prima su All’armi siam fascisti!, una nuova censura preventiva (presumibilmente per motivi di opportunità commerciale e politica, mascherati poi da “dissidi con la produzione”) giunse a interrompere bruscamente quell’ambizioso progetto comune.2

Nel 2014, nel ventennale della scomparsa di Fortini, ebbi la fortuna di organizzare con Luca Lenzini, Valentina Faleri e altri collaboratori un ciclo di incontri e un percorso espositivo dal titolo Memorie per dopo domani. In quell’occasione Cecilia Mangini tornò a Siena assieme alla sua archivista e preziosa assistente Michela Zegna, su invito del Centro Franco Fortini, a cui solo poco tempo prima aveva donato copia di molti rari materiali: lettere, appunti, sceneggiature originali, documenti inediti che testimoniano un insolito e fortissimo rapporto professionale, umano e politico.3

La generosità, la disponibilità e la volontà di trasmettere una memoria non preconfezionata e autocelebrativa, ma “agita e dubitata”, sono del resto tratti che la Mangini ha sempre avuto molto spiccati. Non solo riguardo al suo cinema. L’ultimo esempio di questo sta nel fatto che, proprio pochi giorni prima di morire, abbia consegnato alla Cineteca di Bologna due bobine 35mm con il film inedito, di autori ignoti, Uomini e voci del Congresso socialista di Livorno, un documento straordinario che racconta quegli importanti avvenimenti da una prospettiva sconosciuta.4

Nel corso di due preziosi incontri alle Stanze della Memoria, di fronte a un folto pubblico di giovanissimi, Cecilia e Michela ripercorsero le complesse e affascinanti vicende collettive legate sia ad All’armi che a Stalin. Incrociando documenti, sceneggiature, articoli, spezzoni cinematografici, fotografie, volantini, libri e appunti, dettero vita a due veri e propri laboratori aperti, discutendo in tempo reale con i fortunati presenti. A conferma che la memoria non deve restare solo una “questione privata”, frutto di scavo individuale nei ricordi e ricerche d’archivio, ma può acquistare maggiore forza e vivacità se diffusa, discussa e arricchita dalla presenza di persone vive, in grado di rimetterla in moto e osservarla da angolazioni diverse.

A tal proposito, merita ricordare più nel dettaglio la storia del primo incontro dei registi di All’armi siam fascisti! con Franco Fortini. Bisogna anzitutto dire che fu proprio Cecilia a suggerirlo e volerlo fortemente come autore del testo che avrebbe accompagnato le immagini di questo importante documentario di montaggio. Come lei stessa ha raccontato più volte, gli altri due “Lini” (Lino Del Fra e Lino Micciché) avevano pensato a una figura diversa, in grado di dare al commento sonoro del film una solida impostazione storiografica e politica. Cecilia invece ebbe l’intuizione di scegliere non solo un intellettuale sui generis, autore di saggi politico-letterari, animatore di riviste e voce “fuori dal coro”, ma anche e soprattutto un poeta.

Si insiste per Salvatorelli, storico antifascista, molto preciso, dotto, professorale. Io sono contrarissima perché non credo a chi conosce la storia, ma credo a chi conosce il valore, il peso e la consistenza delle parole, cioè credo ai poeti. E amo Fortini perché lo leggo e lo seguo, pure se non lo conosco di persona. Si interpella Salvatorelli, ma risponde di essere impegnato. Allora a quel punto dico di sentire Fortini. Fortini non era impegnato e nonostante sia uscito dal partito molto polemicamente viene a trovarci perché è rimasto amico di Riccardo Lombardi, che rappresentava la destra del partito. Poi il partito si sposta, gli sfila davanti e allora diventa l’estrema sinistra. Fortini e Lombardi sono amici, così Fortini accetta di venire a trovarci.5

Al suo arrivo alla stazione di Roma, come ha più volte ricordato in pubblico Cecilia con occhi brillanti, Fortini è «un concentrato di diffidenza e freddezza». Loro stessi, in fondo giovani registi, sono forse un po’ intimoriti dalla sua presenza e soprattutto non affatto convinti che lui avrebbe accettato quella proposta. Fortini in realtà non pensava a questo, piuttosto non sapeva se fidarsi, perché ai suoi occhi in quel momento loro facevano parte del “gruppo dei socialisti” (ricordiamo che il film era stato in prima istanza commissionato dal PSI, attraverso la casa di produzione Universale film), da cui lui pochi anni prima aveva decisamente preso le distanze.

Lo portiamo subito in moviola, lui sta lì assorto, guarda in silenzio questo materiale non di qualità eccelsa, non c’è voce né musica. Non batte ciglio, è attentissimo e io ogni tanto lo osservo. A un tratto lo vedo che piange silenziosamente mentre passano le scene terribili della guerra di Spagna e lui, per non farsi vedere, non si asciuga le lacrime. Io in quel momento mi illumino e penso: è fatta, Fortini scriverà il commento! Lo scrive, concludiamo il film e decidiamo di presentarlo alla mostra di Venezia.

Dobbiamo quindi a questa intuizione di Cecilia e al fecondo rapporto che ne seguì, se quel testo, nella sua poeticità e musicalità dalle cadenze brechtiane, accompagna “in contrappunto” le sequenze del documentario, ingaggiando fotogramma per fotogramma un vero corpo a corpo con le immagini. Fortini stesso lo avvicina a «una ballata o al breve racconto storico dell’età romantica», interrogandosi peraltro lungamente sull’utilizzo potenzialmente equivoco e retorico del commento sonoro nel genere documentario. E a maggior ragione nel documentario di montaggio, creato a partire da un riutilizzo critico e consapevole dei materiali di repertorio, in questo caso spesso di quelli ufficiali e celebrativi del fascismo, “capovolti” e rivisti nella loro involontaria autodenuncia.

Il compito del commento è allora di tirare la corda nell’altro senso, cioè nel senso di un più ragionato tentativo di spiegazione, in tensione con gli effetti emotivi del visivo. Ma questo lo si può se allo spettatore e ascoltatore è ritmicamente consentita anche la distensione identificante o distraente; e così il testo dovrà procedere per continui cambi di velocità. Questo spiega perché l’omissione e la preterizione siano per eccellenza le figure di discorso di questo genere di comunicazione; e perché la critica più naturale sia quella di chi rileva l’assenza di questo o quell’elemento. […] In questo genere di film conta quel che si ricorda, non quel che c’è; la comunicazione globale, non la verità particolare. È un genere sintetico, non analitico.6

Sono considerazioni molto attente nonché estremamente attuali, ma ciò che più conta sono frutto di riflessioni comuni, di scelte sofferte e continui scambi, anche accesi, tra gli autori, come testimoniano le lettere inedite e i documenti analizzati in quegli incontri del 2014.

Proprio su questo patrimonio si comincia oggi a fare maggiore luce (soprattutto grazie al lavoro di molti giovani studiosi) e ci auguriamo si giunga presto a una riedizione critica completa di quei testi, capace di scavare a fondo esperienze tanto significative. Esperienze che Cecilia ha sempre ribadito con fermezza essere collettive, ripetendo che All’armi è un film realizzato da un gruppo che non si limita ai tre registi (Del Fra-Mangini-Micciché), ma che comprende a pari merito anche Franco Fortini ai testi ed Egisto Macchi alle musiche.

Un film corale, quindi, un film del NOI che parla a NOI, pretendendo che chi osserva sia partecipe e costringendolo a prendere posizione, a fare delle scelte. Proprio come gli autori hanno fatto a loro volta, giungendo anche a rischiare l’errore. Un film peraltro che non smette di interrogarsi sulla linea di continuità che collega il fascismo trionfante degli anni ’20, quello scellerato che trascina l’Italia in una guerra fratricida e quello più subdolo ma non meno pericoloso degli anni ’60. Il documentario viene infatti realizzato all’indomani degli scontri e delle manifestazioni di protesta di Roma, Genova, Palermo contro il Governo Tambroni, chiudendosi proprio sui morti di Reggio Emilia con quel tagliente «Bisogna scegliere, bisogna decidere. Il vostro destino è solo vostro. Rispondete».

E va oltre. Alla domanda «Ma c’è ancora il fascismo?», la risposta affermativa che ne segue arriva fino al presente, al revisionismo dei nostri giorni, ai rigurgiti nazionalisti e al fascismo tecno-burocratico proprio delle degenerazioni del capitalismo. Lino Del Fra si augurava che il film “invecchiasse presto”, superato dagli eventi e da “diversi doveri” all’azione… sappiamo oggi quanto tristemente attuale sia invece rimasto.

Negli anni seguenti ho continuato a frequentare Cecilia e la nostra amicizia è cresciuta in maniera sempre molto spontanea e diretta, coinvolgendo con mia grande gioia e gratitudine anche la mia famiglia. Proprio con la mia compagna Elisabetta Galgani e a nome della nostra associazione culturale «Marmorata169»,7 la invitammo a casa nostra per un incontro informale con un pubblico raccolto, un modo per rendere un sentito omaggio al suo cinema “resistente”. Partendo dalla proiezione dei documentari nati in collaborazione con Pier Paolo Pasolini, Ignoti alla città (l’esordio del 1958), Stendalì (1960), La canta delle marane (1962) e passando per i meno noti Divino amore (1960) e Felice Natale (1965).

C’è un filo rosso che collega questi ed altri film, dalle periferie romane al Sud arcaico, con i suoi riti perduti; molto forte è il dialogo “a distanza” con Ernesto De Martino, altra figura centrale per Cecilia. È un approccio che privilegia la cura e lo sguardo partecipe (mai “dall’alto in basso”) verso un mondo negletto e dimenticato, travolto dalla modernizzazione forzata e dal “progresso senza sviluppo”. Insieme, la necessità etica e politica della presa di posizione, l’urgenza della denuncia dei meccanismi perversi di un capitalismo che mette “l’uomo contro l’uomo”, costringendolo a scegliere tra lavoro e salute, tra salario e diritti, tra miraggio di benessere e perdita di identità.

Ma allo stesso tempo non c’è l’ingenuità di credere che un racconto per immagini, per quanto onesto, approfondito e coscienzioso, basti da sé a denunciare ciò che non va “una volta per sempre”.

Cecilia Mangini si interroga costantemente sul mezzo espressivo adottato, così come sulla grammatica e sulla sintassi del linguaggio cinematografico, ritenendo il “cinema del reale” (definizione che poco la convinceva) spesso insufficiente a cogliere realtà complesse e sfuggenti, consapevole del rapporto spesso contraddittorio tra “funzione e finzione”.

In questo senso lo sguardo del documentarista (come quello del poeta, soprattutto di un poeta come Fortini) è sempre e comunque parziale, sia perché non può non schierarsi («chi ha visto una verità, non può esserle infedele. Se lo fa è perduto», dice Fortini), conscio dell’impossibilità di uno sguardo neutrale, sia perché per sua natura è incompleto, figlio di certezze momentanee e di una scissione insanabile. Forse si tratta di un collegamento azzardato, ma non posso fare a meno di rileggere la definizione di poesia di Fortini, a sua volta mutuata dal Manzoni, alla luce di alcune considerazioni sul cinema che ho sentito fare a Cecilia Mangini in questi anni e sull’approccio del documentarista alle verità che sceglie di “inseguire”:

Dovessi dire, non tanto quel che la poesia è – ché è tante cose, fortunatamente irriducibili fra loro e contraddittorie – quanto che cosa vorrei o avrei voluto fosse sempre stata per me, una formula dunque della mèta personale piuttosto che una definizione universale, non avrei di meglio che quella manzoniana: «un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlare con più precisione, irrevocabilmente». Dove quel che mi pare importante è che vi si affermi bensì un assoluto della conoscenza (per visione però, che significa: di conoscenza razionale e tuttavia intuitiva) ma che il sospetto di eternità («per sempre»), e quindi di bronzo o mirra poetici, venga subito corretto, «con più precisione», dallʼavverbio. Questo sancisce la impossibilità che quel che è stato veduto dalla mente possa essere revocato in dubbio; impossibilità che è garanzia di verità e di necessità, aggiungiamo, formale; e tale irrevocabilità del “fatto” e della “memoria” situa la poesia non contro ma di fronte alla storia, fa di ogni poesia un componimento misto di storia e di invenzione, dove quel che puoi e quel che non puoi “avere inteso” sono speculari e non sovrapponibili, come le nostre due mani.8

Mi ha sempre stupito il fatto che Cecilia ogni volta volesse rivedere i suoi film con attenzione e trasporto, mentre molti altri registi spesso “fuggono” dietro le quinte o addirittura fuori dal cinema. Credo questo fosse dovuto in primis al rispetto per chi aveva scelto di essere lì con lei, ma anche in una certa misura alla volontà di entrare in comunicazione con quella micro-comunità che di lì a poco l’avrebbe (come sempre succedeva) sommersa di domande e impressioni. Nella certezza che autore e spettatore sono uniti da un patto di co-responsabilità e chiamati sempre a uno sforzo comune.

Tuttavia credo ci fosse anche altro: quegli occhi curiosi fissi allo schermo, su immagini viste centinaia di volte, cercavano ancora e ancora un significato ulteriore, una sfumatura diversa, magari un senso nuovo alla luce di contesti in parte o del tutto mutati. Trovo questo sia un altro dettaglio prezioso che avvicina Cecilia ancora una volta a Fortini: non volersi mai rassegnare a un significato cristallizzato e definitivo, andare sempre oltre con spirito onestamente autocritico, rivedere le proprie certezze senza vanto né falsa modestia. Il che non significa tradire la coerenza di fondo del proprio pensiero e dei propri ideali, ma sempre coltivare uno sguardo vigile e indipendente sulle cose, lottare per cambiare il presente, legare l’eredità di un passato a un’ipotesi di avvenire.

L’opera della Mangini è senza dubbio una lezione di libertà del pensiero, che in un momento storico come quello che oggi viviamo, ricorda a tutti la responsabilità degli intellettuali rispetto ai problemi del proprio tempo. I film di Cecilia Mangini richiedono poi un costante coinvolgimento emotivo ed intellettuale allo spettatore, chiamato ad un intervento critico di interpretazione degli eventi raccontati da una posizione che, a sua volta, non è mai neutrale. […] Il documentario non si rivolge alla nostra sensibilità estetica, ma richiede a chi guarda lo sforzo di attivare la propria coscienza sociale, la propria sensibilità e i propri desideri.9

Ma veniamo ai giorni nostri. Era il 2018 quando Cecilia, su mia richiesta, mi dà appuntamento a un caffè letterario di Ponte Milvio a Roma, luogo dov’era conosciuta da tutti e che lei presumo considerasse negli ultimi tempi una sorta di secondo studio. La vedo arrivare spedita e parcheggiare senza alcuna esitazione la sua “Blues mobile” (in realtà una Seicento, che lei ha guidato “sportivamente” fino alla tenera età di 93 anni) praticamente sull’aiuola spartitraffico di fronte al caffè, scendendone imperturbabile e sorridente con solo un libretto sotto braccio. Quel libretto era Il fascismo eterno di Umberto Eco, Cecilia lo ha portato per leggermi a voce alta la poesia di Fortini Canto degli ultimi partigiani, posta da Eco a conclusione di quel suo breve e denso testo.

Io lavoro già da diverso tempo al mio documentario su Franco Fortini10 e non ho dubbi sul fatto che Cecilia debba raccontare nuovamente davanti alla mia telecamera molte delle vicende di cui entrambi abbiamo già discusso tante volte. Ma lei è di parere diverso, non ho il coraggio di oppormi. Vuole leggere solo la poesia. Sistemo l’inquadratura, faccio partire la registrazione e lei dopo una pausa comincia a leggere. Quando arriva a scandire gli ultimi versi («Ma noi s’è letta negli occhi dei morti / e sulla terra faremo libertà / ma l’hanno stretta i pugni dei morti / la giustizia che si farà»), alza lo sguardo e mi fissa con i suoi occhi fiammeggianti di ragazza, capisco che aveva ragione lei.

Ma poi, quasi a sorpresa, riprende a parlare, tracciando un rapido ritratto di Fortini e ringraziandolo per aver concluso il loro film con quel «RISPONDETE». Infine fa di più: lo rilancia, rivolgendolo a se stessa e a noi: «RISPONDIAMO».

Oggi la ringrazio per quella lettura emozionante, per quelle poche parole necessarie, per non essersi fermata al semplice aneddoto o al ricordo. L’appello lacerante contenuto in quella poesia e quel «Noi» viscerale scandito dalle sue labbra non hanno mai cessato di illuminare il mio percorso alla scoperta di Fortini, segnandone la direzione e la necessità. Questo è il debito che ho con lei e il motivo per cui ho scelto di dedicarle il mio film.

Quando una persona come Cecilia se ne va, si è soliti dire che lascia “un grande vuoto”. Questo è certo. Ma è anche altrettanto certo che lei lascia “tanti pieni”. Tutti noi siamo pieni di lei e credo il suo più grande merito sia stato quello di aver sempre creato relazioni («Chi ha compagni non morirà», è stato detto al suo funerale, citando ancora una volta Fortini), oltre ad aver raccontato il mondo alla sua maniera, con la sua passione infinita, la sua caparbietà, il suo spirito irrequieto e mai addomesticato.

Note

1 Autore della prima monografia completa a lei dedicata, dal titolo «Con ostinata passione». Il cinema documentario di Cecilia Mangini (Bari, Edizioni Dal Sud, 2010), fu proprio Gianluca, molese come Cecilia (tra i pochi che abbiano sostenuto “in tempi non sospetti” il recupero e la valorizzazione del suo lavoro documentaristico), a farci conoscere dieci anni fa alla libreria “La Zona” di Siena.

2 Su questi temi è possibile leggere D. Santarone, Internazionalismo di Fortini: La statua di Stalin, in «L’ospite ingrato online», 2 dicembre 2014, e, più recentemente, la ricca tesi di Giuseppe Alessi dal titolo «Mutare in libere scelte quello che ancora ci sembra destino». Fortini e i testi per film, Università di Siena, Dipartimento di Filologia e critica delle letterature antiche e moderne, A.A. 2019-2020.

3 La maggior parte dei documenti originali è oggi conservata presso il Fondo Cecilia Mangini – Lino Del Fra alla Cineteca di Bologna. Michela Zegna è la responsabile dell’archivio cartaceo.

4 Il documentario è stato restaurato dalla stessa Cineteca e diffuso proprio in occasione dell’anniversario della nascita del Partito Comunista Italiano. Sarà visibile on demand fino al 17 febbraio sulla piattaforma Il Cinema ritrovato | Fuori Sala.

5 Le riprese video di quelle giornate, curate da Lorenzo Pallini, sono oggi disponibili sul sito dell’«Ospite ingrato» nella sezione «Audio/Video». Per la loro trascrizione ringraziamo di cuore Giuseppe Alessi.

6 Dalla premessa a F. Fortini, Tre testi per film, Milano, Edizioni Avanti!, 1963.

7 L’attività dell’associazione culturale «Marmorata 169» parte da un appartamento in un condominio storico di Testaccio: una casa aperta alla narrazione del nostro presente. Si occupa di raccontare collettivamente la storia e le trasformazioni delle città, a partire da Roma, attraverso varie arti: cinema e documentari, teatro in casa, attraversamenti urbani, festival letterari e di poesia, etc.

8 F. Fortini, Memorie per dopodomani. Tre scritti 1945 1967 e 1980, a cura di C. Fini, Siena, Quaderni di Barbablù, 1984; poi ristampato nel 2014 in occasione della rassegna omonima.

9 G. Sciannameo, «Con ostinata passione», cit.

10 Il film è uscito alla fine del 2020 con il titolo Franco Fortini – Memorie per dopo domani, in linea di continuità con la prima rassegna del 2014. È possibile oggi vederlo online sulla piattaforma OpenDDB. Molti dei materiali preparatori stanno via via confluendo nel sito ufficiale collegato.