Internazionalismo
di Fortini:
La statua di Stalin
Donatello Santarone

Giovedì 4 e venerdì 5 dicembre alle Stanze della Memoria (Via Malavolti, Siena, dalle 17 alle 22) Cecilia Mangini, Michela Zegna e Lorenzo Pallini discuteranno di All’armi siam fascisti (1962) e Processo a Stalin (1963). Pubblichiamo qui il saggio di Donatello Santarone, Internazionalismo di Fortini: La statua di Stalin, dal volume dello stesso Santarone, Le catene che danno le ali. Percorsi educativi tra didattica intercultura letteratura, Firenze, Le Lettere, 2013. Ringraziamo l’editore e l’autore per aver consentito la pubblicazione.

Da questa veglia d’Italia chi ora ti pensa si sa figlio anche del tuo cuore.

A Boris Pasternak, 1955

Una delle eredità più preziose di Franco Fortini è stata l’apertura alla cultura e alla politica europee e mondiali. Attraverso Fortini abbiamo conosciuto Brecht, Eluard, Goethe, Lu Xun, Lukàcs… Attraverso Fortini abbiamo conosciuto un’altra prospettiva nella storia del socialismo, sempre in dialogo e in polemica con i partiti della sinistra, sempre attenta a ricordarci le verità fondamentali del marxismo e a farci avvertiti della degenerazione del socialismo costituita storicamente dallo stalinismo. Verità spesso amare e difficili da digerire, come quando, in un importante convegno organizzato dal gruppo del Manifesto nel 1977 sui paesi dell’allora “socialismo reale”, Fortini affermò in modo impietoso che

le testimonianze che ci vengono dall’Est […] non ci lasciano illusioni. I compagni dell’Est qui ci parlano in nome di una sconfitta storica di dimensioni enormi. Noi, nel nostro paese, non abbiamo subito fino in fondo una sconfitta di quelle dimensioni e di quella portata. Noi non vogliamo bere fino in fondo il liquore di quella sconfitta. […] I compagni ceki, o ungheresi, o polacchi ci dicono in termini estremamente chiari che quei regimi, i regimi nei quali vivono, sono dei regimi di oppressione, sono dei nemici del popolo e senza appello. […] I compagni dell’Est sembrano portatori di esigenze che dovremmo chiamare, con termine approssimativo, di tipo etico. La distanza tra il linguaggio dei compagni dell’Est e il nostro è ancora molto grande.1

L’apertura all’Europa e al mondo, la fuoriuscita dal nazionalismo italico degli anni Trenta iniziano dal conflittuale rapporto con Firenze, la “città nemica”, e dal conseguente desiderio di evadere da un clima provinciale e poi anche da un’Italia amata solo per le sue plebi, il suo «piccolo popolo riunito».2 Qui si inserisce l’esperienza con i rifugiati in Svizzera, le conoscenze, le letture e l’osmosi con la cultura diversa della futura moglie Ruth Leiser. Poi il dopoguerra, i primi viaggi. D’ora in avanti, oltre alle relazioni con tanti amici e compagni e all’impegno collettivo in giornali e riviste, luoghi della battaglia politico-culturale, due sono i mezzi attraverso i quali Fortini si “emancipa” da una cultura piccolo borghese e puramente nazionale: le letture e i viaggi (la Francia di Sartre, l’Unione Sovietica, la Cina di Mao, Israele e la Palestina, l’America Latina, il Sud Africa dell’Apartheid).

Il mondo come nostra unica spiegazione per conoscere se stessi: questa convinzione di Fortini è al base della sua caparbia volontà di intrecciare destini individuali e destini generali, di coniugare la parte con il tutto. L’interrogazione del mondo è al centro della poesia e della saggistica di Fortini e sarà di grande interesse scoprire come leggeranno le sue opere i giovani immigrati alfabetizzati alla cultura e alla storia italiane. Probabilmente scopriranno un autore che ha saputo includere nella sua opera e nella sua esistenza parti importanti del mondo delle periferie dell’impero, dando voce a chi, nella cultura occidentale, ancor oggi è visto minacciosamente come uno “straniero” da sfruttare e poi respingere.

Scrive nel 1990:

Tutti siamo l’arabo di qualcuno. […] I caratteri religiosi, etnici, nazionalistici dei conflitti sono la maschera di altri dei quali si preferisce non parlare. Le disuguaglianze sono truccate da diversità. La società multinazionale o multirazziale richiama a proprio fondamento le dichiarazioni universalistiche delle costituzioni del tardo Settecento, ma nel medesimo tratto moltiplica le appartenenze, i sistemi di regole, le corporazioni, i ruoli.3

Oltre alle tante poesie e traduzioni, oltre agli innumerevoli saggi presenti nei suoi libri maggiori, basterebbe ricordare alcune opere in cui la dimensione internazionale dell’esistenza, della società e della cultura è assolutamente centrale: Diario tedesco, Asia maggiore. Viaggio nella Cina, La statua di Stalin, Profezie e realtà del nostro secolo, I cani del Sinai, l’antologia scolastica Gli argomenti umani.4

Internazionalismo significa assumere il punto di vista proprio delle classi oppresse, attraverso la mediazione del marxismo, per leggere il presente e se stessi in esso e per operare in vista del superamento di quel «sistema di rapporti fra uomini mediati da cose»5 che definiamo capitalismo.

Il punto d’arrivo di questa prospettiva internazionalista, in senso cronologico (l’ultima redazione è del 1994, l’anno della morte di Fortini), ma direi pure compositivo, è senz’altro L’Internazionale, anzi, questo è il titolo preciso, Sull’aria della “Internazionale”.6 Questo testo, cantato magistralmente da Ivan Della Mea, con il ricorso ad una tonalità parlata, piana, prosaica, sottolineata dall’arpeggio solo melodico della chitarra classica, riassume il comunismo di Fortini e permette di leggere, retrospettivamente, tanta parte della sua opera. Per un’analisi dettagliata del testo rimandiamo al saggio di Mavì De Filippis, Un’altra umanità, apparso nel n. 4 del 1995 de Il de Martino, Bollettino dell’Istituto Ernesto de Martino, interamente dedicato a Fortini. In questa sede vorrei solo richiamare schematicamente tre cose. La prima concerne la chiara coscienza che il comunismo è di questo mondo e va perseguito qui e ora: Il nostro sogno è la realtà (v. 25). La seconda è la necessità, attraverso il processo di costruzione della nuova società comunista, di riprendere la verità (in rima con libertà), cioè la capacità di nominare uomini e cose che ci hanno fatto servi, capacità che va affermata sempre attraverso la parola, che alla verità si accompagna: E insieme ci riprenderemo – la parola e la verità (v. 18). La terza e ultima osservazione riguarda la dimensione internazionale del comunismo, che ovviamente è già nel titolo e nella volontà di Fortini di riproporre uno degli inni maggiori del movimento operaio, volontà attestata, fra le altre cose, da ben quattro versioni (1968, 1972, 1990, 1994), e che è ribadita dal terzultimo verso: Da continente a continente – questa terra ci basterà (v. 26).

Rileggendo alcune opere di Fortini relative alla dimensione internazionale della sua opera, mi sono imbattuto nelle seguenti righe di giornale: «A 12 anni dalla fine dell’Urss, la festa che segnava l’anniversario della grande Rivoluzione d’Ottobre del 1917 è stata abolita dal parlamento di Putin. Il 7 novembre sarà sostituito dal 4 novembre: del 1612. Il giorno in cui Mosca fu liberata dall’occupazione polacca».7

Mi è venuto subito alla mente, mentre leggevo queste parole, un testo di Fortini del ’63 intitolato La statua di Stalin e ho pensato che potesse essere interessante e utile riproporlo oggi.

La statua di Stalin8 è un lungo e denso testo di 52 pagine a commento di un film documentario sulla figura di Stalin e sulla Rivoluzione d’Ottobre proposto a Fortini da Cecilia Mangini e Lino Dal Fra dopo il successo di All’armi siam fascisti del 1961 che, insieme a Scioperi a Torino, scritto nel ’62 sulle lotte operaie della Lancia e della Michelin, compone un trittico di grande interesse per comprendere le posizioni storico-politiche di Fortini e il suo marxismo allora considerato eretico e critico, e che oggi, poiché parliamo di eredità, rappresenta una prospettiva feconda per ricostruire un possibile “discorso socialista” (come suona il sottotitolo di Dieci inverni).

La statua di Stalin appartiene al genere documentario, «ha – scrive l’Autore nella Premessa – tutte le caratteristiche ibride della saggistica e tutti i vizi dell’oratoria», «è dimostrativo-persuasivo ma si affida soprattutto alla successione emotiva delle immagini, della parola e del commento musicale, quindi al montaggio», «il genere potrebb’essere più utilmente avvicinato alla ballata o al breve racconto storico dell’età romantica», «l’omissione e la preterizione [sono] per eccellenza le figure di discorso di questo genere di comunicazione», «è un genere sintetico, non analitico».9

Nel 1971 a commento di un altro suo testo simile, Intervento alla manifestazione per la libertà del Vietnam, scriverà con riferimento ai tre testi per film di questi anni: «La metrica del testo somiglia abbastanza ad un elementare sistema di suggerimenti per la dizione e l’intonazione, con un meccanismo di pause, di cadenza brechtiana, che avevo già usato in alcuni testi per film».10

Fortini avverte i rischi che l’immagine e il suono divorino la parola, che si perda il «carattere obiettivo e informativo» del commento», che lo spettatore si identifichi passivamente nei personaggi e assuma la tradizionale «suddivisione fra buoni e cattivi, nostri e loro», dimenticando il precetto brechtiano sullo straniamento. «Il compito del commento – scrive Fortini – è allora di tirare la corda nell’altro senso, cioè nel senso di un più ragionato tentativo di spiegazione, in tensione con gli effetti emotivi del visivo».11

Purtroppo, a differenza dei primi due documentari, All’armi siam fascisti e Scioperi a Torino, questo tentativo non si realizzò secondo gli intenti dello scrittore e dei registi, perché, per ragioni commerciali, «il film [fu] decomposto e ricomposto dalla Produzione» la quale, dopo aver «alterato, tagliato e sostituito come più gli piacque», cambiò il titolo del film intitolandolo Processo a Stalin. A quel punto sia Fortini che i due registi Mangini e Dal Fra ritirarono le loro firme da un film «stravolto e falsato».12

Vediamo ora com’è fatto il testo. Si tratta di 20 macrosequenze, 20 commenti dimostrativi-persuasivi con forti intenzionalità pedagogiche, parenetiche (esortative e ammonitorie), di insegnamento politico, 20 lasse o stanze di ballata, blocchi narrativi divisi in strofe e versi di varia lunghezza in cui si raccontano, in una sorta di compendio di storia mondiale del Novecento, la Rivoluzione d’Ottobre, i suoi effetti sulle vicende storiche del secolo, l’affermazione dello stalinismo. Il punto di vista è quello dichiarato di un marxista antistalinista e internazionalista, allora considerato “eretico”, le cui opinioni «non coincidevano, o non sempre, con quelle delle direzioni dei partiti socialisti o comunisti italiani o stranieri»,13 il quale, dopo i fatti di Ungheria del ’56, in un testo ironico de L’ospite ingrato, scrive: «Ragazzi, per mostrare i miei nastrini antistalinisti non ho / bisogno di rivoltare la giacca».14

La statua di Stalin è del 1963 quando le sinistre – scrive Fortini – erano «inamidate o balbettanti [cioè dure o incerte] per il decoroso vizio di nasconder la verità nei libroni specialistici, per paura di suscitare cattivi pensieri nei propri elettori o per incapacità di riscrivere il sommario di storia dei tempi moderni senza del quale non si danno né ideologia né politica rivoluzionaria».15

La dichiarazione del punto di vista è esplicita nel testo ed è esplicitata nella Premessa:

Non si parla di “storia” senza dare una definizione, almeno indiretta, del proprio momento storico. Quindi il testo del film non doveva lasciare dubbi sulla collocazione ideologico-politica: la sinistra socialista e marxista per la quale il nemico principale è l’ordinamento capitalistico della società e la storia è anzitutto storia della lotta delle classi.16

1.

Ed è proprio dal presente che ha inizio la narrazione. Fortini evoca la rivolta operaia di Berlino Est del ’53, la riabilitazione del polacco Gomulka del ‘56, i fatti di Ungheria dello stesso anno. Tre strofe alternate da un verso isolato in cui si ricorda il tempo trascorso dalla morte di Stalin. Il quale, nell’ultima strofa, diviene il centro della riflessione storica che prepara il seguito della narrazione:

Giuseppe Stalin. Da pochi mesi
Nikita Kruscev ha detto la verità al XX° Congresso.
Dietro l’uomo e il monumento, dietro quel nome,
c’è l’Unione Sovietica, il Comunismo,
il conflitto del secolo; e anche il nostro destino.
Perché la Repubblica Sovietica, il primo stato socialista
fu paura e speranza, è speranza e paura
per centinaia di milioni di uomini? Perché
la Russia sovietica ha creato Stalin?
Perché l’ha dovuto distruggere?

In questa strofa e in tutta la riflessione storica, ideologica e politica di Fortini va notato un fatto fondamentale, cioè la presa in carico di tutta la storia del movimento operaio, del socialismo e del comunismo, ivi incluso il carico di tragedia, di terrore e di crudeltà di cui lo stalinismo è stato la quintessenza. Fortini, in altre parole, che per tutta la vita ha lottato contro le degenerazioni del socialismo, non finge candidamente di dire: “questa storia non mi riguarda, sono affari vostri”, non si apparta in una setta di “duri e puri”, portatori di un atteggiamento di disperata rinuncia, incapaci di comunicare e di modificare gli orientamenti prevalenti allora nel movimento operaio. Egli sa che quella storia tragica rappresenta il presente del socialismo e che riguarda «anche il nostro destino» (stanza 1, strofa 6).

A Boris Pasternak

Anche per gli occhi morti che hai visti vivi
hai detta la tua verità e ora osservi la notte.
Ma un giovane anche per te senza saperlo ora scrive;
e giovani altri lontani parlano. Di altre lotte.17

Egli è cosciente della necessità di capire quali sono le ragioni che hanno prodotto Stalin, per poter con più forza e consapevolezza riaprire una speranza possibile verso il socialismo. La duplicità verso l’Unione sovietica, espressa dal chiasmo del doppio settenario «fu paura e speranza, è speranza e paura» (1,5), richiama in qualche modo anche il titolo del testo che stiamo esaminando: La statua di Stalin, che viene abbattuta dai rivoltosi ungheresi («23 Ottobre 1956, a Budapest / Studenti e operai manifestano contro / la subordinazione dell’Ungheria all’Unione Sovietica. / Il monumento a Stalin viene abbattuto»), ma che pure è stata venerata e protetta da milioni di proletari, la statua di Stalin è simbolo del terrore e, insieme e nonostante tutto, simbolo di una speranza.

4 novembre 1956

Il ramo secco bruciò in un attimo.
Ma il ramo verde non vuol morire.
Dunque era vera la verità.
Soldato russo, ragazzo ungherese,
non v’ammazzate dentro di me.
Da quel giorno ho saputo chi siete:
e il nemico chi è.18

Questa dialettica, è bene subito precisarlo, non modifica il duro giudizio storico su Stalin, responsabile di un mutamento genetico del socialismo tale da renderlo irriconoscibile. Pure tutto questo coniuga il verbo al presente, per citare una sua poesia famosa, e lo fa, come notò Romano Luperini al convegno senese su Fortini dell’ottobre 2004, perché è tipico della cultura comunista della Terza internazionale aderire alle pieghe del presente da cui prendere le mosse per qualsiasi prospettiva futura.19

In questa prima stanza (la chiamo così perché l’Autore fa riferimento alla ballata), e in tutte quelle che seguiranno, sono presenti nomi, luoghi, eventi che vanno scrupolosamente verificati e annotati, spiegati e chiosati.

A proposito della rivolta operaia del «16 Agosto 1953, a Berlino Est» (incipit del testo di Fortini), vorrei citare una poesia inedita di Brecht, che si riferisce a questa vicenda e più in generale alla deriva burocratica del socialismo. La poesia si intitola Il nuovo dialetto e fu pubblicata in italiano nel n. 18 del 2 maggio 1980 da Rinascita, allora settimanale del Partito Comunista Italiano. Il poeta tedesco denuncia la separatezza di tanti burocrati della Germania Orientale incapaci di comprendere i bisogni del popolo:

Il nuovo dialetto

Quando insieme alle loro mogli parlavano di cipolle
– i negozi erano di nuovo vuoti –
comprendevano ancora i sospiri, le imprecazioni, le battute
con cui la vita insopportabile
viene comunque vissuta da chi sta in basso.
Ora
hanno il potere e parlano un nuovo dialetto
che essi solo comprendono, un gergo incomprensibile
parlato con voce minacciosa e pedante
e riempie i negozi – senza cipolle.
A colui che ascolta il gergo incomprensibile
manca il mangiare.
A colui che lo parla
manca la capacità di ascoltare.

2.

La seconda stanza inizia con un ballo alla corte zarista. Lo zar Nicola II è fulminato con un giudizio di Trotskij, tutto in asindeto come l’intera prima strofa: «incolore, piano, beneducato, crudele» (2,1). Altri esempi di fulminanti settenari in asindeto: «corda catena frusta», «Olga, Maria, Anastasia» (2,1). Da una parte il privilegio di zar, zarine, principesse, principi, ammiragli, ministri, archimandriti, proprietari della terra e di tutto; dall’altra i contadini:

Cento milioni di analfabeti, di anime semivive.
Mangiano meno di chiunque altro, in Europa.
Lo zar scrive sulla scheda di censimento: “Proprietario terriero”
(Di cinque milioni di ettari)
Trentamila proprietari possiedono la stessa superficie
di terra fertile che dieci milioni di famiglie contadine». (2,4)

Alcuni versi sono memorabili: «Il popolo russo abita una casa di morti» (2,2); oppure, con un finale brechtiano, che precipita nella perentoria e tagliente immagine dei ragazzi che imparano dai comportamenti dei grandi, esaltata dall’enjambement: «La Russia sotterranea è in guerra con lo zar. / Gli sguardi dei ragazzi / imparano».

In questo scenario, isolati, esiliati, costretti in carcere, i padri della futura rivoluzione: Lenin intento a scrivere un lavoro sul capitalismo russo, Trotskij che studia Antonio Labriola, Stalin organizzatore di scioperi. Poi la rivoluzione del 1905, la “domenica di sangue”, l’eccidio di mille lavoratori, la repressione. Ma la scintilla del Soviet si era intanto accesa.

3.

Nella terza stanza entra in scena il riarmo dell’impero tedesco. Si prepara la prima guerra mondiale. Il movimento operaio è forte, ma il vecchio socialismo è diviso. A Parigi il 31 luglio 1914 viene assassinato Jaurès, il socialista contrario alla guerra. Anche qui echi brechtiani: «Chi è sfruttato ha una patria?» (3,2), «Ad avvitare le spolette stanno le orfane future, / le prossime vedove» (3,3). Lenin lancia la sua parola d’ordine: «La guerra imperialista trasformala in guerra civile» (3,8).

Il testo si chiude con l’inizio della rivoluzione del marzo 1917.

4.

Lo zar abdica. Il governo provvisorio continua la guerra. Ma il 3 aprile del 1917 torna Lenin dall’Europa: «È l’invito ad osare» (4,8). Fine della guerra, pace, pane e terra. Qui, come in una rassegna di legioni, scorrono i nomi dei rivoluzionari: Trotskij, Stalin, Kamenev, Zinoviev, Kollontai, Rykov. «E si parla di noi» (4,9). Poi la sofferta firma della pace.

5.

Nella quinta stanza, la scena si apre sul movimento rivoluzionario in Europa.

La rivoluzione spartachista del gennaio 1919 e l’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, da Fortini definita «una delle menti più alte del marxismo moderno» (5,1). Assassinio perpetrato con la complicità, non omette di ricordare l’Autore, dei socialdemocratici tedeschi.

Il primo congresso del marzo 1919 della Internazionale comunista che sostiene la necessità di una rivoluzione socialista mondiale. In questi versi Fortini prefigura l’opposizione tra l’internazionalismo politico e culturale di Lenin e Trotskij e di tanti altri rivoluzionari, che molto hanno viaggiato, conosciuto e letto, e il nazionalismo di Stalin:

In questa sala
insieme ai rivoluzionari che non conoscono frontiere
sono anche quelli che, come Stalin, conoscono bene
solo il mondo delle repubbliche sovietiche. Una differenza
che gli anni renderanno tragica (5,2)

Intanto in Italia monta l’occupazione delle fabbriche, in Ungheria scoppiano i moti comunisti guidati da Bela Kun e repressi dai militari come in Polonia e Finlandia. In Bulgaria il re Boris fa assassinare venticinquemila contadini.

6.

La stanza 6 descrive «la crociata di quattordici nazioni» contro il primo stato socialista del mondo. Le parole di Lenin sui dieci milioni di morti causati dalle borghesie europee per decidere «se a dominare il mondo avrebbero dovuto essere / dei banditi inglesi o dei banditi tedeschi» (6,3) risuonano in tutta la loro drammatica verità e attualità. Intanto Trotskij crea l’Armata rossa che l’Autore paragona agli eserciti della rivoluzione francese. Ancora lotte contro i Bianchi, Trotskij che percorre su un treno blindato tutta la Russia, la battaglia per salvare Leningrado.

7.

La Russia si libera, i Bianchi vengono sconfitti, la guerra dopo otto anni (1914-1921) finisce e «i carri armati si mutano / in trattori» (7,2). Ma gli effetti di un periodo così duro si fanno sentire: fame, carestia, tifo, colera. Marzo 1922: ribellione duramente repressa dai bolscevichi dei marinai di Krònstadt. Poi la NEP, la nuova politica economica.

Tra masse deluse e scontente,
tra nuovi gruppi di interessi, il partito di Lenin
è incerto. Il comunismo russo si ripiega
su se stesso. È come avesse affidato
l’avvenire socialista all’Occidente (7,11)

Queste prime sette stanze del testo, precedenti la morte di Lenin, sono molto importanti perché preparano lo svolgimento degli avvenimenti successivi. Sono, per dir così, propedeutiche a Stalin. Descrivono le condizioni interne e internazionali che hanno consentito l’affermazione dello stalinismo e la sua lunga durata.

Per evitare che il film – scrive Fortini – potesse essere scambiato per una volgare requisitoria contro Stalin, si era cercato di dare la masssima rilevanza alla parte antecedente la morte di Lenin, con una durata quasi pari a quella destinata al trentennio successivo; e poi, perché la critica all’età staliniana non si esprimesse solo a proposito dei processi, delle deportazioni e dei delitti, si era voluto farla precedere e accompagnare dalle immagini degli avvenimenti internazionali che tanto avevano contribuito a fare della Russia di Lenin quella di Stalin: l’accerchiamento capitalistico del primo stato dei Soviet, la crociata degli stati borghesi, il fallimento delle rivoluzioni in Europa, l’avvento dei fascismi, la rivoluzione e la lotta antigiapponese in Cina, la venuta di Hitler al potere, la guerra civile spagnuola.20

8.

Il 21 gennaio 1924 muore Lenin. La stanza 8 è tutta inframezzata da poesie di Majakovski e pensieri di Lenin. Il primo compone versi premonitori:

Io temo
che processioni e mausolei
offuschino la semplicità di Lenin…
…io temo
ch’egli venga falsato…

Il secondo ci ricorda cosa ha significato «dire / al mondo tutta la verità sulla vita»: «La nostra è apparsa l’unica verità: / sgradevole rozza nuda crudele, / ma verità» (8,3). Qui e altrove Fortini sottolinea, facendolo proprio, l’appello di Lenin alla verità.

Nel testo vengono descritti i funerali del grande rivoluzionario e compaiono i nomi dei più eminenti bolscevichi: Krupskaia, Zinoviev, Kamenev, Radek, Bucharin. «Nicolai Bucharin, secondo Lenin / “il teorico più grande e più prezioso”. / Stalin lo fucilerà nel Trentotto» (8,23). Trotskij è malato in Georgia «ingannato da un telegramma di Stalin / che anticipa la data della cerimonia» (8,12), Trotskij è già ai margini del partito. E Fortini citerà un suo pensiero a spiegazione di quel che accadrà dopo: «La storia è una madre crudele. / Entro quindici anni Stalin avrà sterminata / la vecchia guardia leninista» (8,13). Qui inizia l’enumerazione dei maggiori bolscevichi che saranno fucilati o incarcerati o si suicideranno negli anni del terrore staliniano. Alla citazione dei rivoluzionari fanno da contrappunto quattro citazioni di Lenin, l’ultima delle quali chiude la stanza e lascia una speranza di futuro nonostante tutto: «Ma a noi è spettata la felicità di iniziare una nuova epoca» (8,24).

In questa stanza viene citato per la seconda volta Radek, il dirigente bolscevico che ispirerà un saggio memorabile di Fortini, Le mani di Radek, che porta la medesima data de La statua di Stalin, 1963. La scomparsa del viso di Radek, ma non delle mani, da una pellicola censurata da Stalin e riferita ad un congresso della Terza internazionale, è l’occasione per riproporre i “fondamenti” del marxismo contro le derive tecnocratiche della sinistra del tempo, italiana e sovietica.

C’è la tendenza – scrive Fortini – a rubricare come un unico fenomeno (indipendente dalla struttura sociale) il primato che americani e russi attribuirebbero alla scienza e alla tecnologia e la scarsa sensibilità alla dimensione storica. Che cosa significa, quella tendenza? […] Implica l’idea che siano le tecniche a determinare la coscienza, non la struttura sociale come organizzazione della proprietà e rapporti fra classi.21

E contro il cosiddetto “marxismo moderno”, europeo e sovietico, Fortini rivendica la contemporaneità del passato rivoluzionario e del presente storico dei popoli “sottosviluppati”:

Per questo è urgente sbarazzarsi di tutta quella secolare parte di basso storicismo, fra esortatorio e produttivistico, di famosa ascendenza capitalistica, che è quasi da sempre il fondiglio delle sinistre europee e tuttora si rimescola nel linguaggio ufficiale sovietico. E farlo in nome della assoluta sincronicità tendenziale del mondo presente e passato e delle nostre esistenze in esso, sincronicità che deve essere conquistata e che comincia ad esistere intanto come rivendicazione della contemporaneità di tutti i viventi. Bisogna uscire dalla demenza morale indotta dalla fase attuale del capitalismo, che ha toccato anche il comunismo sovietico (e italiano): e sapere che l’operaio cinese, il negro minatore del Sudafrica e l’insorto contadino venezuelano non sono il nostro passato. Sono il nostro presente. Anzi, nella misura in cui sono le più chiare figure del transito e del mutamento, essi sono il nostro futuro, occupano un luogo al quale ancora dobbiamo venire.22

9.

«È l’ora di Stalin» (9,1): così si apre questa nona stanza che segna il passaggio tra il prima, l’età leniniana, e il dopo, l’inizio della “rivoluzione tradita” (Trotskij). Stalin è definito come lo sarà Francisco Franco in Spagna: «generalissimo» (9,1).

Il testo è scandito – come anche in altre stanze – da date, giorni, avvenimenti precisi, alternati da giudizi, commenti, prese di posizione nette e lapidarie.

Nel 1924 Trotskij è già isolato e Stalin pensa al socialismo in un paese solo. La prospettiva di una rivoluzione permanente viene abbandonata.

Nel 1927, nel decennale dell’Ottobre, l’opposizione di sinistra manifesta ma viene repressa. Trotskij e Zinoviev vengono espulsi dal partito.

Nel 1928 il fondatore dell’Armata Rossa viene scacciato dall’Urss.

A proposito di Trotskij, tanto importante per le posizioni internazionaliste di Fortini, così lo ricorderà nel ’73, dopo un viaggio in Messico e una visita nel luogo dove assassinato da un sicario di Stalin:

Ancora presente il Fascio, alcuni suoi libri furono i primi a parlarmi della Rivoluzione russa; anche grazie a loro, nei mesi della Resistenza e negli anni seguenti, seppi alcune cose che molti compagni non sapevano o non volevano sapere; nella grande disputa aperta nel 1956, la figura e le idee sue sono state centrali d’una controversia ininterrotta.23

Dopo aver liquidato la “sinistra”, Stalin attacca la cosiddetta “destra” del partito. Bisogna industrializzare il paese e combattere i contadini ricchi. Bucharin prevede la sua fine, «Bucharin che sapeva…» (9,5). Va ricordato che Fortini, durante l’esilio Svizzero del ’43-‘45, poté leggere, oltre a Marx e Lenin, i verbali dei processi a Bucharin che pochissimi socialisti e comunisti italiani conoscevano. Così risponderà nell’87 ad una domanda di Attilio Lolini a proposito dell’esperienza del «Politecnico»:

Riversavo in quella attività giornalistica tutto quel che avevo imparato nei venti mesi oltre il Gottardo; e da un’altra cultura, da un’altra lingua. [corsivo nostro] Ciò mi dava, senza che me ne rendessi minimamente conto, uno strano privilegio nei confronti di coloro che erano rimasti in Italia. Un opuscolo di Victor Serge (16 fusillés. Où va la révolution russe?), L’espoir, di Malraux e il verbale dei processi a Bucharin bastarono per farmi capire cose che a Milano non si sapevano (o non si volevano sapere).24

Nel 1929, la grande svolta, il primo Piano Quinquennale, il culto della personalità.

In pochi anni la situazione precipita e la natura del socialismo sovietico cambia radicalmente.

10.

La stanza dieci ci porta a metà del “poema” fortiniano. Inizia con la descrizione dell’avvio dell’industrializzazione forzata, il primo piano Quinquennale del 1929, un «lavoro disperato» (10,1) che coinvolse 160 milioni di uomini «in una lotta / contro tempo e miseria» (10,1). Fortini riporta un’affermazione di Stalin sull’arretratezza sovietica e sulla necessità di recuperare il distacco con i paesi capitalistici altrimenti questi «ci schiacceranno». «Ed era vero», aggiunge Fortini. Per poi subito precisare, con un dialettico ricorso all’avversativa:

Ma troppo bello
per essere vero l’eroico idillio agreste
di trattori e fanciulle, di mèssi prese d’assalto
come barricate festose» (10,1)

La nascita dei kolkoz (fattorie collettive), la lotta contro i kulaki (contadini ricchi), le requisizioni, le deportazioni in Siberia, i campi di lavoro forzato «per costruire canali, miniere, dighe, in climi mortali» (10,5): la collettivizzazione forzata causò la morte di donne, uomini, bestiame (la metà fu sgozzato). «Eppure» – scrive Fortini, ancora una volta con una avversativa dialettica – «nel Trentaquattro due milioni di mugiki / sapevano guidare i trattori / e l’analfabetismo era sparito» (7,1).

Poi l’affermarsi della burocrazia come casta di privilegiati, la lotta contro l’egualitarismo di sinistra, le differenze enormi tra le retribuzioni.

«L’industrializzazione forzata ripeté / le violenze del capitalismo occidentale / al suo nascere» (10,11) e l’Urss divenne una grande nazione industrializzata. Procede per tutta la stanza l’andamento dialettico di Fortini: fatica e gioia, arretratezza e sviluppo, vessazioni e impegno morale, consapevolezza che quanto si andava costruendo sarebbe servito al proletariato mondiale.

I terribili anni Trenta saranno evocati in una splendida poesia pubblicata in Paesaggio con serpente.25

27 aprile 1935

Un orto di rose guardavo dai vetri
del liceo trentacinque anni fa.
Ottantamila lavoratori inauguravano
la metropolitana tutta fatica loro
a Mosca, tutte sale splendide.

Un autore che è morto ne diceva le lodi.
E le conosco oggi, le traduco.
Domandavo amore alle rose bianche,
gialle e bianche. La città era chiara.
Nell’aria i primi seni. Orazio acuto e amaro.

Lavoratori di Mosca ottantamila
la storia ha un modo di ridere che è ripugnante.
Non sapevate, non sapevo. Ma e le rose?
Nulla vogliono sapere, le pigre rose.

11.

L’Asia chiede aiuto all’Urss. La Cina da un secolo era sotto il dominio dell’Europa. I milioni di morti contadini, l’oriente, erano per noi «favola esotica o brivido» (11,3). Stalin imponeva ai comunisti cinesi di allearsi con i nazionalisti perché non pensava che la Cina fosse matura per la rivoluzione. Ma nel 1927, a Shanghai, Ciang Kai Shek massacra i comunisti.

Puntuale la critica di Fortini al “nazionalismo” socialista di Stalin:

Diecine di migliaia di comunisti,
di operai e di intellettuali, a Shanghai, a Canton,
furono uccisi anche perché la Russia di Stalin
doveva edificare il socialismo in un solo paese.
E a chi non poteva aspettare diceva: aspettate» (11,5)

Ma Mao e i comunisti cinesi non aspettano, costruiscono l’esercito rosso di contadini, intraprendono la Lunga marcia e combattono contro i resti del vecchio impero, contro i nazionalisti di Ciang Kai Shek, contro l’occupazione giapponese. E il 1° ottobre 1949 proclamano la nascita della Repubblica popolare cinese, il secondo stato socialista del mondo.

12.

Presa del potere di Hitler in Germania. Altro tragico errore – dopo quello cinese – di Stalin: il “socialfascismo”. Le forze della sinistra tedesca affrontano divise le elezioni. I nazionalsocialisti vincono. L’industriale dell’acciaio Krupp esulta: nuove commesse militari sono in arrivo.

13.

Mussolini e l’incontro con Hitler.

1934, inizio del secondo piano quinquennale. Una nuova coscienza avanza che potrebbe mettere in discussione il «principio di autorità» (13,9).

È interessante notare come Fortini insista sulla nascita di una coscienza proletaria, più colta e consapevole, nonostante i o come conseguenza dei processi di industrializzazione forzata.

Stalin sa bene che le fabbriche nuove, le nuove scuole
che i suoi piani costruiscono (e ogni verità d’arte,
ogni scoperta di scienza)
scavano la fossa al principio di autorità,
minano le statue, scavalcano le citazioni, disperdono lo stato di polizia» (13,9)

Questo spiega, per Fortini, l’accanimento di Stalin anche verso i comunisti più fedeli.

14.

«La notte dei processi» (14,1) apre la stanza 14, cupa e crudele. È l’agghiacciante descrizione del clima di terrore e di tradimenti che accompagna i grandi processi del ’35-’38. L’intera generazione leninista, i comunisti che avevano fatto la Rivoluzione, vengono sterminati. Zinoviev, Kamenev, Radek, Bucharin e i generali dell’Armata Rossa Tukacevsky, Jegorov, Jagoda. Un’epurazione micidiale: un milione di iscritti cacciato dal partito, milioni di deportati e uccisi, un quarto dell’Armata Rossa, ventimila ufficiali, deportati; migliaia di fuciltati (14,12).

Nel testo viene citata una dichiarazione di Trotzkij dall’esilio che denuncia «i veri criminali» [che] «si nascondono sotto la maschera degli accusatori», «l’irresponsabile dispotismo della burocrazia su di un grande popolo». Dichiarazione che si conclude con la parola-chiave di questo testo fortiniano, “verità”: «Il mio compito è oggi – dice Trotskij – quello di dire la verità» (14,10).

Il giudizio storico di Fortini sulla tragedia dei processi – che, come scrive nella Premessa, segue «la linea interpretativa che nei suoi libri il Deutscher ci fornisce» – tende a presentare Stalin come un «funzionario diligente e attivo», «delegato di una casta di funzionari e burocrati», «sistema parassitario alle radici del socialismo», che si è impadronita del potere su un popolo che, nonostante tutto, andava costruendo «i fondamenti del socialismo» (14, 7-8).

«Ma il più grande delitto» dello stalinismo – conclude Fortini negli ultimi due versi di questa stanza – «fu di avere divisi i compagni / tra chi decide soltanto e chi deve soltanto eseguire» (14,15).

15.

Ai processi si accompagna il culto della personalità, una sorta di beatificazione permanente della figura di Stalin, che umilia e infantilizza il popolo, che rende afasico il partito, che cancella, falsifica, riscrive la storia. La delega al Capo, la fiducia illimitata nei confronti del Genio sono anch’esse – come tutte le manifestazioni di questo periodo – vissute dal popolo sovietico in modo contraddittorio, e tale contraddizione Fortini la riassume con particolare acume nei versi seguenti, che precipitano nella secchezza del novenario in clausola:

Per mille servi pagati a scrivere e dire l’elogio
del capo lungimirante, del genio di Stalin,
ci sono decine di milioni di persone che vogliono crederlo
per sfuggire a se stesse, all’angoscia di dover scegliere
il proprio destino in comune» (15,2)

16.

Lo sguardo si allarga ancora agli eventi mondiali e nella sedicesima stanza si racconta la Guerra civile in Spagna, la politica dei Fronti popolari, le Brigate internazionali e l’eroico sforzo dei combattenti repubblicani contro i fascisti spagnoli. Anche qui Fortini mostra i limiti della politica internazionale di Stalin, in particolare nel duro conflitto che oppose anarchici e comunisti, pagato dai primi molto spesso con la repressione o con la vita. Ancora una volta egli insiste sulla contraddizione storica dell’Urss: «La mano che aiuta / è la stessa che frena» (16,6).

Il dissidio tra anarchici e comunisti sarà oggetto, vent’anni dopo la sconfitta di quello che egli definisce «l’ultimo momento rivoluzionario dell’Occidente» (16,9), di una fulminante intuizione sulla figura di Mao:

Insomma, quando un capo comunista come Mao scrive per il suo esercito: “Quando bevi al pozzo ricordati di chi l’ha scavato” o verga consigli di morale quotidiana (quali un Lenin o uno Stalin non si sarebbero mai sognati, almeno in quella forma, di dare), non indulge soltanto ad una tradizione della cultura nazionale, quella della “sapienza” e del precetto morale: ma esprime una profonda esigenza di unità immediata fra vita privata e pubblica, fra presente e futuro; la totalità dell’uomo, la sua liberazione, la sua reintegrazione non è rimessa soltanto all’avvenire, ma anticipata nel presente. Detto paradossalmente, vi si realizza quella saldatura tra anarchismo e comunismo, tra essere per avere e avere per essere, che dalla Comune in poi ha lacerato (tanto più profondamente quanto più l’esigenza anarchica ed utopistica sembrava apparentemente scomparsa) il movimento di liberazione operaia del nostro Occidente.26

17.

Siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale. Francia e Inghilterra escludono l’Urss dalla conferenza di Monaco del settembre 1938 in cui si consegnò la Cecoslovacchia a Hitler. Mosca comprende che l’attacco delle armate hitleriane a est è imminente e decide «guadagnare tempo e spazio» firmando un patto di non aggressione con la Germania nazista, il patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939. Fortini commenta:

È il patto germano sovietico, necessità tattica
che l’ideologia staliniana volle presentare
come strategico trionfo. E che impose
ai comunisti occidentali,
ai lavoratori francesi
chiamati alle armi contro Hitler
scelte spietate come atti di fede» (17,1)

Intanto l’esercito nazista dilaga in Europa.

Il 21 agosto 1940 a Città del Messico Trotskij viene assassinato da un agente di Stalin. «Chi in quei giorni ne visita la salma / crede sia quella di un vinto. Oggi sappiamo / che non è così» (17,6).

18.

La stanza 18 è tutta sull’invasione nazista dell’Urss e sulla eroica resistenza del popolo sovietico. Un lungo discorso di Stalin incita la popolazione al combattimento. Ma egli «Non è più il capo comunista. Ricorda / i condottieri antichi» (18,6) e dietro la sua parola non si udiva più quella di Lenin «che chiamava ad unirsi contro il nemico di classe» (18,8). Stalin diviene «la figura della patria» (18,2), non della classe.

Intanto le fanterie di Hitler arrivano a ridosso di Mosca e Fortini ricorda il grido del commissario politico Klockov: «non possiamo più ritirarci. Abbiamo Mosca alle spalle». (18,5). Un grido che ritorna come un disperato e lucido testamento nell’ultima poesia dell’ultima raccolta del 1994, pochi mesi prima della morte, Composita solvantur:27

Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.

“Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci.
Abbiamo Mosca alle spalle”. Si chiamava
Klockov.

«L’inamata anzi detestata Mosca,» – ha scritto Rossana Rossanda – «quell’ossimoro che era lo stato operaio – il ritorno della mente alla difesa di Mosca rinvia, più che alla gravità del presente, allo scoglio del secolo, alla contraddizione fra spinta rivoluzionaria e un riformismo che si muove solo quando il nemico è già alle porte. Ma allora si muove. Disperante ma da non dimenticare».28

E di questo Fortini è assolutamente cosciente: «Il sacrificio / della Russia ha salvati tutti noi / dalla servitù tra noi medesimi nata» (18,8).

19.

Alla fine della guerra l’Urss fa il tragico bilancio delle perdite: 1700 città e paesi rasi al suolo, oltre 20 milioni di morti, interi popoli spariti.

Stalin estende la sua influenza ad est, isola l’Urss, «fa di ogni stato socialista uno stato / d’assedio» (19,3). E riprendono i processi, le esecuzioni, le deportazioni. Solo la sua morte aprirà finalmente «l’età / della lotta per sapere fino in fondo / chi Stalin era stato, chi noi con lui, e perché» (19,4).

Ancora una volta Fortini non si tira indietro, non si mette da parte, non si dichiara fuori da una storia fatta pure di orrori e crudeltà: rivendica l’urgenza di capire. Per capire e per andare oltre lo stalinismo, per ricostruire una idea e una pratica diverse di comunismo, è necessario fare i conti con la propria storia, con il passato che si è voluto occultare o cancellare, con quella parte del socialismo e del comunismo che Fortini ritiene essenziale rileggere e riattualizzare. C’è, su questo punto, un testo importante del 1957, dal titolo Lettera a un comunista, pubblicato in Dieci Inverni. 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista29

Qui Fortini, rivolgendosi a un amico sindacalista del Partito comunista italiano, auspica il superamento delle divisioni storiche dei due partiti della sinistra italiana, PCI e PSI (al quale Fortini era ancora iscritto), e ipotizza il superamento della forma partito allora dominante, fondata sul centralismo democratico e sull’unanimismo (almeno apparente) nelle scelte politiche. E lo fa in nome di una tradizione plurale e ricca della storia del movimento operaio, che andrebbe, a parere di Fortini, recuperata e studiata di nuovo. Il XX° Congresso del Pcus, il Rapporto Kruscev, la discussione sui fatti di Ungheria sembrerebbero dargli ragione.

Ma c’è qualcosa che costringerà, che già costringe, i Partiti Comunisti ad abbandonare l’illusione autocratica: è il meccanismo delle riabilitazioni. Fino ad oggi si è cercato di conferire alle riabilitazioni un carattere di mera pietà storica; anzi, la stessa nozione di “riabilitazione” vuol far credere ad una continuità, quella di chi riabilita, e ad un ricupero di individui o organismi che erano caduti in un buio nulla. Ma non è così; grazie ad alcuni autoriabilitati – Tito, Gomulka – ci si accorge che tutta la storia del comunismo non si presenta più come storia di un principio, di una interpretazione, di un metodo che successivamente espunge da sé, esclude ed annichila i propri “rami secchi”; non più come una ortodossia vittoriosa fra eresie, ma come complessa historie des variations, nella quale l’unità c’è, ma invisibile. Le riabilitazioni hanno un carattere gnosologico che invano si cerca di occultare. Il confine tra “nemico” e “compagno”, così apparentemente chiaro nel presente, diventa incerto nell’immediato futuro. Ci si trova costretti a rendere giustizia a tutti coloro che hanno combattuto contro la borghesia e l’imperialismo: e sono interi comitati centrali, intere popolazioni di militanti, fucilati, deportati, scomparsi o bollati d’infamia: dai marinai di Kronstadt ai processati di Mosca, dalle vittime delle “purghe” al partito Polacco del 1938, da Béla Kun a Marty, da Trotsky a Rajk, dagli anarchici spagnuoli ai socialisti polacchi, dagli juogoslavi ai greci… Uomini, movimenti e momenti da studiare di nuovo, da valutare e da giudicare di nuovo; sconfitti di ieri che però non sono per questo i vincitori di oggi, ma solo le presenze, gli spettri e i salutari rimorsi senza dei quali il proletariato mondiale non potrebbe continuare il suo cammino.30

20.

Dopo la morte di Stalin, dopo il XX° Congresso e i fatti di Ungheria, Fortini vede aprirsi, dai primi anni Sessanta, una fase nuova della lotta mondiale per il socialismo, a partire dalle rivoluzioni del Terzo Mondo. E’ la Cina di Mao, anzitutto; ma poi Vietnam, Congo, Algeria, Angola, Cuba, «rivoluzioni nazionali con parole d’ordine socialiste» (20,2), rivoluzioni che smuovono le sterminate periferie del capitalismo in Asia, Africa e America Latina. Queste masse, secondo Fortini, non chiedono solo solidarietà dall’Occidente, ma interrogano noi su noi stessi, sulle nostre società: «Voi non potete aiutarci / se non aiutando voi stessi; se non liberando voi stessi / da chi vi divide da noi» (20,2).

E il commento al film si chiude con tre versi – l’ultimo dei quali è un endecasillabo – che legano le prospettive del presente ai grandi ideali nati con la Rivoluzione d’Ottobre: «mutare in libere scelte / quello che ancora ci sembra destino» (20,5).

Franco Fortini nel ’63 vedeva quella mèta vicina. Oggi sappiamo che si è di molto allontanata. Ma sappiamo anche che le contraddizioni e i conflitti generati dal capitalismo non sono venuti meno e che, se sapremo resistere e non disarmare, potremo ritrovare nei migliori maestri del marxismo e nelle esperienze storiche del movimento operaio, le idee, gli orientamenti, i pensieri per riattualizzare una prospettiva socialista di mutamento della nostra epoca. Se non lo facciamo qui e ora, non avremo nulla da trasmettere ai tanti giovani combattivi dei nuovi movimenti, ai tanti oppressi privi di un ideale che non sia quello etnico-religioso o mercantile. E non avremo il diritto di imprecare contro il degrado dei nostri giorni. In questo caso le uniche cose che potremmo sopportare sono il cinismo e il silenzio.

Attraverso questo testo – e i molti scritti saggistici coevi – arriva a maturazione, Fortini nel ’63 ha 46 anni, la posizione originale di un marxismo che definirei espansivo (cioè non dogmatico ma neanche eclettico) piuttosto che critico, aggettivo troppo abusato se diamo per scontato che le verità di Marx sono di per sé “critiche”. Dire marxista critico a me pare, oggi, un pleonasmo. Chiunque innovi e aggiorni il pensiero di Marx è un marxista critico: come definire, altrimenti, Labriola, Lenin, Gramsci, Mao? Ortodossi, critici, eterodossi, revisionisti?

La statua di Stalin è un compendio di storia mondiale del Novecento dal punto di vista di un marxismo antistalinista non volgare né dogmatico, acuto e capace di anticipare il grande tema di una possibile fuoriuscita a sinistra dallo stalinismo che dividerà la sinistra mondiale, ma che troverà sbocco a destra nella negazione di tutta o quasi l’eredità del movimento operaio (anarchico, socialista, comunista) e nell’abbraccio mortale con il pensiero o dell’irrazionalismo debole dei nipotini di Nietsche o del liberismo forte dei pronipoti di Ricardo e Adam Smith.

Un’opera utilissima per ricordare che il Novecento non è stato solo macerie e miserie, ma anche tensione verso un mondo più giusto in questa terra e sua parziale realizzazione. Come dice Lenin, citato da Fortini, a noi è spettata la felicità di iniziare una nuova epoca…

Note

1 F. Fortini, Non mi basta la contemplazione atterita della contraddizione, in «Il manifesto», Potere e opposizione nelle società post-rivoluzionarie, Roma, Alfani, 1978, pp. 109, 111.

2 Cfr. le poesie La città nemica e Italia 1942 da Foglio di via, Torino, Einaudi, 1946, in F. Fortini, Versi scelti (1939-1989), Torino, Einaudi, 1990, pp. 8 e 10.

3 F. Fortini, Extrema ratio, Milano, Garzanti, 1990.

4 Cfr. F. Fortini, Diario tedesco 1949, Lecce, Manni, 1991; Id., Asia Maggiore. Viaggio nella Cina e altri scritti, a cura di D. Santarone con postfazione di E. Masi, Roma, Manifestolibri, 2007 (prima ed. Torino, Einaudi, 1956); Id., Tre testi per film. «All’armi siam fascisti» 1961, «Scioperi a Torino» 1962, «La statua di Stalin» 1963, Milano, Edizioni Avanti!, 1963; Id., Profezie e realtà del nostro secolo. Testi e documenti per la storia di domani, Bari, Laterza, 1965; Id., I cani del Sinai, Bari, De Donato, 1967; Id. Gli argomenti umani, con A. Vegezzi, Napoli, Morano, 1969 (II ed. ampliata con letture di storia antica e medievale, ivi, 1972).

5 R. Rossanda, Uno sperato tutto di ragione, in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. XVII.

6 In F. Fortini, Poesie inedite, a cura di P.V. Mengaldo, Einaudi, Torino, 1995.

7 «Il manifesto», 24 novembre 2004.

8 F. Fortini, Tre testi per film, cit. D’ora in avanti i numeri tra parentesi riferiti alle “stanze” e alle strofe de La statua di Stalin faranno riferimento a questa edizione.

9 F. Fortini, La statua di Stalin, in Id., Tre testi per film, cit., pp. 5-7.

10 F. Fortini, Saggi ed epigrammi, cit., p. 1795.

11 F. Fortini, La statua di Stalin, cit., pp. 5-6.

12 Ivi, p. 13.

13 Ivi, pp. 7-8.

14 F. Fortini, L’ospite ingrato. Testi e note per versi ironici, Bari, De Donato, 1966, p. 31.

15 F. Fortini, La statua di Stalin, cit., p. 11.

16 Ivi, p. 7.

17 F. Fortini, Poesia e errore, Milano, Mondadori, 1959, in Id., Versi scelti (1939-1989), cit., pp. 8 e 10.

18 F. Fortini, Una volta per sempre, Milano, Mondadori, 1963, in Id., Versi scelti (1939-1989), cit., p. 135.

19 Dieci inverni senza Fortini. 1994-2004. Atti delle giornate di studio nel decennale della scomparsa. Siena 14-16 ottobre 2004 – Catania 9-10 dicembre 2004, a cura di L. Lenzini, E. Nencini, F. Rappazzo, Quodlibet – Archivio Fortini, Macerata 2006, pp. 284-285.

20 F. Fortini, La statua di Stalin, cit., pp. 10-11.

21 F. Fortini, Verifica dei poteri, Milano, Il Saggiatore, 1969, p. 132.

22 Ivi, p. 135.

23 F. Fortini, Al tavolo di Trockij, in Id., Saggi ed epigrammi, cit., p. 1483.

24 F. Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 464-465.

25 F. Fortini, Paesaggio con serpente, Torino, Einaudi, 1984, in Id., Versi scelti (1939-1989, cit., p. 239.

26 F. Fortini, Asia Maggiore, cit., pp. 33-34.

27 F. Fortini, Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994, pp. 62-63.

28 R. Rossanda, Uno sperato tutto di ragione, cit., pp. XXIV-XXV.

29 F. Fortini, Dieci Inverni. 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, Milano, Feltrinelli, 1957.

30 F. Fortini, Saggi ed epigrammi, cit., pp. 1340-1341.