
Nel «Tornasole» di Mondadori debutta un nuovo narratore: Piergiorgio Bellocchio, autore di tre racconti che s’intitolano complessivamente I piacevoli servi. Bellocchio è nato a Piacenza trentaquattro anni fa. La sua attività specifica era stata finora assorbita dalla rivista «Quaderni piacentini» che, secondo l’informazione della scheda editoriale, è un periodico di «politica e cultura molto impegnato nella ricerca e nel dibattito ideologico». Noi che seguiamo da tempo i «Quaderni piacentini» possiamo dire che tale dichiarazione corrisponde alla pura verità. E tuttavia una considerazione siffatta non serve che a rilevare il disimpegno, politico e culturale di Bellocchio: la sua libertà di fondo nei confronti di ogni presupposto ideologico.
Il che significa che la letteratura, al suo livello più cosciente si rifiuta ormai di «suonare il piffero» alle tesi proposte dal cosiddetto engagement. Non che vi sia una contraddizione in atto o una situazione di doppia verità. Dovremmo concludere piuttosto che la verità della letteratura, seppure finisce per toccare lo stesso bersaglio che l’ideologia aveva indicato, percorre un cammino diverso. Non è dimostrato insomma, rispetto ai resultati dell’arte, che, tra due punti, il raccordo più semplice e utile sia quello della linea retta. La letteratura segue una propria parabola autonoma e verifica ancora una volta il detto che tutte le strade portano a Roma. L’autore espone la propria realtà, ma si esime da un intervento esplicito. Sta al lettore decidere se il quadro di quella realtà possa essere decifrato, in un secondo momento, attraverso gli accertamenti più pertinenti alla coscienza ideologica. Con tutta probabilità, tale coscienza saprà dirci che il male fisico e metafisico che si cela alla base di quelle storie narrate ha una sua radice nella società in cui viviamo; ma non si tratterà, per così dire, che di una riprova del nove. La verità dell’operazione è tutta nel testo, e la riprova non può modificare quella verità, se tale essa è di per sé.
Piergiorgio Bellocchio, a quanto mi si dice, è fratello del regista cinematografico che ha fatto tanto parlare di sé col film I pugni in tasca. La parentela non è casuale. Ambedue gli autori perseguono uno stesso obiettivo: la demistificazione del reale, l’eliminazione di ogni sovrastruttura di sentimento, di comodità psicologica, di luogo comune. La vita e la morte resultano dissacrate del pari, umiliate al rango di tic nervosi, di meri accidenti, o di conseguenze logiche di una degenerazione di fondo. Ma la differenza tra lo scrittore e il regista è questa: che dove quest’ultimo dimostra una maggiore familiarità col proprio linguaggio d’immagini (e con la propria tecnica del montaggio narrativo) e, nello stesso tempo, rivela una piena soggezione a motivi tardo-naturalistici (quasi zoliani), il primo si muove con qualche asprezza di tecnica e di strutturazione, ma, nel complesso, con una più matura consapevolezza del punto al quale è pervenuta la sensibilità artistica d’oggi. Se I pugni in tasca si fondano ancora su una scienza della natura e dell’uomo (l’epilessia e le derivanti anomalie morali, le tare ereditarie), l’alterazione della realtà che è alla base di questi racconti muove da un pronunciamento di sfiducia più totale: forse storico, prima che scientifico o sociologico. Quanto poi quella storicità contribuisca a un riflesso o a un’eco esistenziale è un problema d’altro ordine: che si pone in termini non troppo diversi da quelli in cui si pone il rapporto tra storicità e significato esistenziale nell’opera di Dostoevskij. Per esempio: chi abbia presente L’eterno marito, al quale in questi ultimi tempi ha dato nuova popolarità una riduzione ad uso di quel meraviglioso attore che è Salvo Randone, disporrà già di una buona chiave per intendere il primo racconto di Bellocchio: A discolpa.
Un tale, che è poi l’Io narratore, acquista la villa di un megalomane andato in rovina, concedendo all’ex-proprietario di restare nell’abitazione in qualità d’inquilino. Ma il «cavaliere» non sarà mai puntuale agli appuntamenti mensili. Invano il nuovo padrone leva contro di lui l’arma dello sfratto; il cavaliere non paga l’affitto e approfitta di certe proprie risorse di commediante per irretire l’altro in un giuoco fatto di sottili perversioni. Sarebbe così facile metterlo sulla strada: eppure il padrone nuovo ha quasi bisogno di quel rapporto innaturale: per esercitare la propria crudeltà nei confronti del cavaliere implorante e per subire (secondo un’angolazione masochistica) una crudeltà più sottile: quella delle suppliche vischiose, dei pianti, delle implorazioni nauseabonde.
Ora appunto, la crudeltà del film I pugni in tasca è di tipo oggettivo: fino alla possibilità di risalire a una ragione fisiologica. Il discorso di Piergiorgio Bellocchio è invece di tipo tutto moderno: l’autore si immerge dentro la stessa crudeltà che egli esercita, e mentre la esercita la subisce. È in questo segno che si chiude il circolo dostoevskiano a cui si accennava: e dicendo questo, si lascia anche capire che la novità di Bellocchio è pur sempre relativa: le sue sono in ultima analisi delle liaisons dangereuses. Ma il suo merito sta nella possibilità di fare aderire una particolare tradizione a nuovi contenuti: il protagonista del secondo racconto, un giocatore incallito ed ottuso, che vive solo nei momenti che passa al tavolo verde, per tornare poi ad essere una perfetta nullità, è un personaggio che solo apparentemente si muove nei termini di una superpassione di ordine naturalistico. In realtà egli è un morto semovente: il suo mondo è immobile, paranoico, senza increspature di affetti. Il suicidio – che sarà piuttosto un lasciarsi morire – è scontato in partenza. La sua ultima passeggiata, prima di finire sotto le ruote del treno, ricorda perfino certe famose pagine di Oriani, in Vortice. Eppure questo personaggio è molto più vicino al livello di Beckett che al tipo dell’eroe ottocentesco.
L’ultimo racconto, che dà il titolo al libro, è il più lungo e il più significativo. E qui torniamo a dire che mentre nei Pugni in tasca l’altro Bellocchio si risolve soprattutto nella narrazione, il narratore, al contrario, dimostra, proprio in tale registro, una vocazione meno forte. Molto forte è bensì la tentazione di dar fondo al proprio sistema dell’universo; vuotare il sacco su certi problemi: l’amore, la morale, la politica, l’arte. E se certe cose Bellocchio le dice a titolo personale, altre rispecchiano l’ambiente dei suoi tre personaggi. Che sono indicati come A, B e C, e parlano ciascuno in prima persona. A è il marito rinunciatario e conformista, disposto a fare molte concessioni alla moglie, ma non al di là del limite di sicurezza; B è l’amico di famiglia, innamorato della moglie di A: un uomo che prende le cose sul serio; C è il gaudente senza scrupoli che spinge il giuoco a fondo: diventa l’amante della moglie di A ma con un biglietto di viaggio in tasca che lo terrà lontano per almeno due anni. Queste maschere, appunto, avrebbero dovuto avere una maggiore autonomia: laddove assai spesso affida loro divagazioni che sono soltanto sue: per esempio quelle, assai acute, sul carattere sessuale di Donn’Anna nel Don Giovanni mozartiano. Forse una struttura diversa – per esempio lo scambio epistolare di tipo mondano-filosofico – avrebbe consentito una fusione maggiore tra elementi narrativi e saggistici.
Ma (è un’ipotesi) può darsi che l’autore abbia voluto raggiungere proprio quel resultato: di screditare cioè l’autonomia del personaggio e anzi di farlo in poltiglia calandolo nel bagno acido di un linguaggio «arrabbiatissimo». Tutte le cose qui sono chiamate con il loro nome; eppure non c’è ombra di scandalo e tanto meno di pornografia. Basta dirle, le cose, perché sia chiaro quanto poco senso abbiano. Ecco insomma un narratore inquietante: da non perdere di vista.
[«Epoca», n. 815, 8 maggio 1966, pp. 140-141]