Margaret Atwood,
Moltissimo
Maria Chiara Sisi

Margaret Atwood, Moltissimo, trad. it. di R. Morresi, Milano, Ponte alle Grazie, 2021.

Margaret Atwood è un nome familiare per molti lettori italiani. I suoi romanzi, come Il racconto dell’ancella (1985), popolano gli scaffali di tutte le librerie e sono a buon diritto entrati nella categoria di best sellers. Ciò che però il lettore italiano spesso non sa è che la celebre romanziera canadese nasce in realtà come poetessa e tale è sempre rimasta. All’inizio della sua carriera letteraria troviamo, infatti, due raccolte di poesie: The circle game (1964) e The animals in that country (1968). Già in queste prime prove il suo stile è pungente e sarcastico: uno «stiletto» (Branko Gorjup),1 ma le tematiche sono ancora strettamente legate al paesaggio e all’identità canadese. Nel corso degli anni, via via che Atwood diventa sempre più coinvolta in battaglie sociali di ampia portata, la sua poesia comincia ad abbracciare questioni più universali come il rapporto uomo-donna o i problemi ambientali del nostro millennio. Ed è così che nelle numerose raccolte successive Atwood ritrae un mondo magico e incantato, frequentemente popolato da figure della mitologia classica e del folklore popolare. Questi elementi immaginifici sorprendentemente, però, non smettono mai rispecchiare la contemporaneità; di conseguenza, l’io lirico è difficilmente autobiografico e tende più spesso a portare sulla pagina una persona con il proprio punto di vista sulla società.

I primi cenni di autobiografismo si ritrovano in The Door (2007) dove, come nota Macpherson, proliferano anche riflessioni più intimistiche e metapoetiche.2 Eppure la biografia di Atwood è destinata a legarsi ancora più significativamente con la propria poesia. Senza infatti abbandonare il proprio immaginario mitico e sociale, una vicenda particolare la porta ad intrecciare poesia e vita. Ciò accade quando il 18 settembre 2019 Graeme Gibson si spegne al Wednesday Hospital di Londra. Lontano dal Canada, sua terra madre, si trova in Inghilterra a fianco di Margaret Atwood, l’amata compagna impegnata nella promozione del suo ultimo romanzo I Testamenti (2019). Atwood informa la stampa che la morte di Graeme a causa di un ictus è stata improvvisa ma non inaspettata: erano, infatti, già passati due anni da quando a Gibson era stata diagnosticata una demenza vascolare; nonostante ciò, dopo cinquant’anni di un legame fondato su un amore profondo, per l’autrice canadese la morte del compagno è un momento estremamente significativo, sia per la sua vita personale che per il proprio percorso letterario. All’età di 80 anni le appare infatti evidente tutto il peso del proprio vissuto e il suo sguardo sul passato si sofferma su tutto quel che ormai non esiste più.

Così, dopo 13 anni dall’ultima raccolta poetica, il 10 Novembre 2020 Margaret Atwood pubblica Dearly: New Poems. Il volume arriva sugli scaffali delle librerie italiane un anno più tardi, nella traduzione curata da Renata Moretti per la collana «Poesie», edita da Ponte alle Grazie. Significativa è la breve introduzione anteposta alla raccolta, dove leggiamo:

Scritte a mano, riposte in un cassetto, battute, riviste. Queste poesie sono state scritte tra il 2008 e il 2019. In questi undici anni le cose si sono fatte più scure nel mondo. E poi, sono invecchiata. Sono morte persone che mi erano molto vicine.

Di lunghi anni di produzione occasionale vengono qui messi in primo piano sia gli avvenimenti della contemporaneità storica che quelli biografici: la cronaca, la vecchiaia e l’esperienza del lutto si collocano sullo stesso piano, definendo così lo sfondo della produzione della poetessa canadese e ci permettono di percepire i sottili spunti autobiografici.

Indubbiamente la raccolta presenta temi così eterogenei fra loro che la ricerca di un leitmotiv è destinata a fallire. Eppure, nelle poesie emerge con delicata insistenza una profonda sensazione di “emptiness”, di vuoto. Un vuoto che diventa realtà palpabile proprio a causa dell’età avanzata dell’autrice che, con l’ironia che la contraddistingue, in La donna di latta si fa fare un massaggio si descrive così:

Sono chiusa dalla ruggine,
bloccata, ossidata.
Vecchia lattina di fagioli.
Donna di latta lasciata nella pioggia.
Muoversi equivale a soffrire.
Che corrosione.

La vecchiaia è dunque vista come decadenza del corpo, ma cos’altro? La risposta ricade proprio sulla presa di coscienza dell’esistenza del vuoto come elemento essenziale per ogni forma di vita. Vuoto che, nonostante la sofferenza, viene accolto benevolmente, come leggiamo in Se non ci fosse il vuoto:

Se non ci fosse il vuoto, non ci sarebbe vita.
Pensate.
Tutti quegli elettroni, le particelle e le altre robe
stipate assieme come carabattole in soffitta,
come immondizia in un compattatore
pressata in un ammasso piatto
così, niente rimasto tranne il plasma:

niente tu, niente me. […]
Quella stanza è elettrostatica per me da così tanto:
un vuoto uno spazio un silenzio
che racchiude una storia mai ascoltata
in attesa che io la porti via.

E trama sia.

Situata nella prima sezione della raccolta questi versi ci indicano una strada da percorrere. Qui il vuoto diventa occasione di poesia ed è celebrato in tutta la vitale capacità d’immaginazione che offre alla scrittrice. Tenendo ciò ben in mente sono diverse le poesie della raccolta che si stagliano come tentativo di riempire “uno spazio”, “un silenzio”, a cominciare proprio da quelle più socialmente impegnate, come Canti per sorelle uccise o Suite del Plasticene, in cui l’autrice dà voce ad un silenzio colmo d’ingiustizia. Il potere della poesia diventa ancora più evidente in poesie metapoetiche come Zombie, dove la poesia è strumento di rinascita per tutto ciò che nella memoria è destinato a sparire fatalmente. Potremmo quindi dire che, con il progredire degli anni, Atwood si guarda intorno notando molte lacune nella realtà a lei circostante, spazi vuoti che può riempire solo con la propria poesia.

Nella raccolta questa consapevolezza del vuoto lievita, sommessamente, quasi a rispecchiare l’avanzare dell’età, via via che i compimenti si succedono. Il suo culmine è nella quinta e ultima sezione, tutta incentrata sugli ultimi due anni di vita del «moltissimo amato» compagno. Le dodici poesie della sequenza finale ci trascinano quindi dentro la visione di Atwood, che già prima del decesso di Gibson, in l’Uomo invisibile, notava:

Ecco chi mi aspetta:
un uomo invisibile
definito da una linea tratteggiata:

la forma di un assenza
a tavola al tuo posto,
sedutomi di fronte,
mentre mangi toast e uova come al solito
o cammini più avanti nel vialetto,
un frusciare di foglie cadute,
un leggero addensarsi dell’aria.
Sei tu nel futuro,
noi due lo sappiamo.
Sarai qui ma non qui,
memoria muscolare, come appendere il cappello
all’attaccapanni che non c’è più.

È qui concentrato tutto il peso dell’assenza, dello spazio vuoto. Come poi ci si avvicina alla fine della raccolta, l’evidenza di questo vuoto investe tutto ciò che circonda la poetessa: passato, presente e futuro. In Moltissimo, penultima poesia, ciò è descritto con esemplare chiarezza quando, di fronte a delle vecchie polaroid, l’io poetico si lascia trasportare dalle proprie sensazioni:

Moltissimo amate, riunite qui insieme
in questo cassetto chiuso,
ormai sbiadite, mi mancate.
Mi manca chi è mancato, chi è partito troppo presto.
Mi mancano anche quelli che sono ancora qui.
Mi mancate tutti moltissimo.
Moltissimo rimpianto ho di voi.

Rimpianto: ecco un’altra parola
che non senti più tanto spesso.
Io rimpiango moltissimo.

Innegabilmente toccante, questa forma di rimpianto nel vuoto come espressione di amore – amore che ci riporta ancora a quel 18 settembre in un ospedale in Inghilterra, perché la assenza/presenza di Gibson permea sensibilmente l’intera raccolta. Basti pensare a tutte le figure di uccelli che Atwood dissemina nelle varie poesie e che, con scelta quanto mai appropriata, si trovano anche nella copertina dell’edizione italiana. Uccelli che, oltre ad essere simbolo di speranza e di rinascita, sono un legame tangibile con la figura di Gibson: il quale, fino all’ultimo giorno, aveva amato passare le proprie ore con un binocolo in mano in contemplazione degli uccelli che volavano attorno. Insomma tutto in Moltissimo ci riporta alla dedica iniziale: «Per Graeme, in absentia”».

Note

1 B. Gorjup, Margaret Atwood’s Poetry and Poetics, in The Cambridge companion to Margaret Atwood, ed. C.A. Howells, Cambridge, Cambridge University Press, 2021, pp. 141-155.

2 H. Slettedahl Macpherson, The Cambridge Introduction to Margaret Atwood, New York, Cambridge University Press, 2010.