Margaret Atwood è un nome familiare per molti lettori italiani. I suoi romanzi, come Il racconto dell’ancella (1985), popolano gli scaffali di tutte le librerie e sono a buon diritto entrati nella categoria di best sellers. Ciò che però il lettore italiano spesso non sa è che la celebre romanziera canadese nasce in realtà come poetessa e tale è sempre rimasta. All’inizio della sua carriera letteraria troviamo, infatti, due raccolte di poesie: The circle game (1964) e The animals in that country (1968). Già in queste prime prove il suo stile è pungente e sarcastico: uno «stiletto» (Branko Gorjup),1 ma le tematiche sono ancora strettamente legate al paesaggio e all’identità canadese. Nel corso degli anni, via via che Atwood diventa sempre più coinvolta in battaglie sociali di ampia portata, la sua poesia comincia ad abbracciare questioni più universali come il rapporto uomo-donna o i problemi ambientali del nostro millennio. Ed è così che nelle numerose raccolte successive Atwood ritrae un mondo magico e incantato, frequentemente popolato da figure della mitologia classica e del folklore popolare. Questi elementi immaginifici sorprendentemente, però, non smettono mai rispecchiare la contemporaneità; di conseguenza, l’io lirico è difficilmente autobiografico e tende più spesso a portare sulla pagina una persona con il proprio punto di vista sulla società.
I primi cenni di autobiografismo si ritrovano in The Door (2007) dove, come nota Macpherson, proliferano anche riflessioni più intimistiche e metapoetiche.2 Eppure la biografia di Atwood è destinata a legarsi ancora più significativamente con la propria poesia. Senza infatti abbandonare il proprio immaginario mitico e sociale, una vicenda particolare la porta ad intrecciare poesia e vita. Ciò accade quando il 18 settembre 2019 Graeme Gibson si spegne al Wednesday Hospital di Londra. Lontano dal Canada, sua terra madre, si trova in Inghilterra a fianco di Margaret Atwood, l’amata compagna impegnata nella promozione del suo ultimo romanzo I Testamenti (2019). Atwood informa la stampa che la morte di Graeme a causa di un ictus è stata improvvisa ma non inaspettata: erano, infatti, già passati due anni da quando a Gibson era stata diagnosticata una demenza vascolare; nonostante ciò, dopo cinquant’anni di un legame fondato su un amore profondo, per l’autrice canadese la morte del compagno è un momento estremamente significativo, sia per la sua vita personale che per il proprio percorso letterario. All’età di 80 anni le appare infatti evidente tutto il peso del proprio vissuto e il suo sguardo sul passato si sofferma su tutto quel che ormai non esiste più.
Così, dopo 13 anni dall’ultima raccolta poetica, il 10 Novembre 2020 Margaret Atwood pubblica Dearly: New Poems. Il volume arriva sugli scaffali delle librerie italiane un anno più tardi, nella traduzione curata da Renata Moretti per la collana «Poesie», edita da Ponte alle Grazie. Significativa è la breve introduzione anteposta alla raccolta, dove leggiamo:
Indubbiamente la raccolta presenta temi così eterogenei fra loro che la ricerca di un leitmotiv è destinata a fallire. Eppure, nelle poesie emerge con delicata insistenza una profonda sensazione di “emptiness”, di vuoto. Un vuoto che diventa realtà palpabile proprio a causa dell’età avanzata dell’autrice che, con l’ironia che la contraddistingue, in La donna di latta si fa fare un massaggio si descrive così:
bloccata, ossidata.
Vecchia lattina di fagioli.
Donna di latta lasciata nella pioggia.
Muoversi equivale a soffrire.
Che corrosione.
Pensate.
Tutti quegli elettroni, le particelle e le altre robe
stipate assieme come carabattole in soffitta,
come immondizia in un compattatore
pressata in un ammasso piatto
così, niente rimasto tranne il plasma:
niente tu, niente me. […]
Quella stanza è elettrostatica per me da così tanto:
un vuoto uno spazio un silenzio
che racchiude una storia mai ascoltata
in attesa che io la porti via.
E trama sia.
Nella raccolta questa consapevolezza del vuoto lievita, sommessamente, quasi a rispecchiare l’avanzare dell’età, via via che i compimenti si succedono. Il suo culmine è nella quinta e ultima sezione, tutta incentrata sugli ultimi due anni di vita del «moltissimo amato» compagno. Le dodici poesie della sequenza finale ci trascinano quindi dentro la visione di Atwood, che già prima del decesso di Gibson, in l’Uomo invisibile, notava:
un uomo invisibile
definito da una linea tratteggiata:
la forma di un assenza
a tavola al tuo posto,
sedutomi di fronte,
mentre mangi toast e uova come al solito
o cammini più avanti nel vialetto,
un frusciare di foglie cadute,
un leggero addensarsi dell’aria.
Sei tu nel futuro,
noi due lo sappiamo.
Sarai qui ma non qui,
memoria muscolare, come appendere il cappello
all’attaccapanni che non c’è più.
in questo cassetto chiuso,
ormai sbiadite, mi mancate.
Mi manca chi è mancato, chi è partito troppo presto.
Mi mancano anche quelli che sono ancora qui.
Mi mancate tutti moltissimo.
Moltissimo rimpianto ho di voi.
Rimpianto: ecco un’altra parola
che non senti più tanto spesso.
Io rimpiango moltissimo.
1 B. Gorjup, Margaret Atwood’s Poetry and Poetics, in The Cambridge companion to Margaret Atwood, ed. C.A. Howells, Cambridge, Cambridge University Press, 2021, pp. 141-155.
2 H. Slettedahl Macpherson, The Cambridge Introduction to Margaret Atwood, New York, Cambridge University Press, 2010.