Troppo presto, troppo tardi*
Un ricordo di Roberto Calasso
Mavì De Filippis

La quarta A era a pian terreno, non lontana dall’entrata della scuola e di fronte alla sala dei professori. Sto ricordando la classe che frequentavo all’età di quattordici anni, era il primo anno di ginnasio e l’istituto era il Tasso; l’edificio ospitava una scuola media, un ginnasio e un liceo classico, in via Sicilia 168 nei pressi di Piazza Fiume a Roma.

La classe era piuttosto piccola ma eravamo in tanti, fra questi tanti ricordo qualcuno: Roberto Calasso, Argentina Graziadei, Maria Teresa Calvano e Tenore di cui non ricordo più il nome. Come insegnanti avevamo: la Garaguso Di Porto (fumava una sigaretta dopo l’altra tenendo due pacchetti di nazionali, uno con le sigarette da fumare, l’altro per i mozziconi) per italiano, latino, greco, storia; la Cuzzer, con il suo grembiule nero sempre con tracce di gesso, austera ma molto brava nelle spiegazioni, per matematica e fisica; l’Ardito per il francese, doveva essere piemontese e quello che si dice una zitella.

Roberto veniva da Firenze con un leggero accento toscano, un tono di voce basso, lievemente baritonale. Tutte noi sue compagne lo trovavamo bello e un po’ misterioso, come la volta in cui arrivò dicendo di aver sonno perché aveva letto fino a tardi. Lo diceva con semplicità, come se fosse cosa ovvia. Con noi compagne e compagni era allegro, cordiale, sempre gentile, mai esagerato. Io avevo preso l’abitudine di portare delle caramelle Dufour incartate con all’interno creme di pistacchio, nocciola, cioccolato (oggi non ci sono più), a Roberto piacevano particolarmente e si può dire che le portassi per lui. Ogni tanto c’erano delle feste, ne ricordo una a casa Graziadei, per il compleanno del padre, l’avvocato; vi partecipavamo anche noi compagni e amici della figlia. Roberto ci diceva qualcosa sul ballo, la coppia non si doveva tenere nel modo usuale ma cingersi alla vita e questo, non so perché, mi colpì particolarmente, tanto che ancora vedo il gesto che Roberto faceva mentre lo diceva. A scuola andava bene in tutte le materie e con grande facilità e un gusto particolare per le lingue. Ma le sue letture non venivano dalla scuola, dagli insegnanti, erano sue, personali e non ne parlava più di tanto. La scuola è stata importante ma non determinante per le scelte culturali di Roberto quattordicenne. Le insegnanti ne subivano la personalità fuori dal comune, in particolare l’insegnante di italiano e latino la quale già aveva un metodo di insegnamento che sollecitava il senso critico, la partecipazione attiva e personale nell’apprendimento e la voglia di comprendere le origini della lingua italiana e la sua evoluzione. Ci dava delle radici e dovevamo cercare più parole possibili che derivavano da quella radice in italiano, latino, greco e francese. Mi appassionavo e passavo interi pomeriggi a far ciò a scapito degli altri compiti. E, se ben ricordo, l’insegnante, così facendo, accentuava il proprio metodo di insegnamento sollecitata dalla presenza di Roberto.

Quando incominciammo a studiare il greco e a saperne abbastanza, Roberto si divertiva, terminata la traduzione dal latino in italiano, a farla anche in greco. Era una specie di gioco per misurarsi con le parole, una cosa gratuita fine a se stessa.

Io lo osservavo a distanza un po’ divertita, un po’ innamorata. Al liceo cambiai sezione e la frequentazione quotidiana con Roberto si interruppe. Il viaggio in Grecia con alunni di tutte le classi permise di rifare qualcosa insieme. Fu un viaggio molto bello, ben organizzato, vedemmo tutti i luoghi più importanti. Come ho già scritto, a Epidauro, nel centro del teatro vedo ancora Roberto con un piccolo cavallo di Troia di legno in mano recitare qualcosa in greco.

Non ricordo più se qualche anno fa nel riprendere i contatti via email ho scritto di questi miei ricordi a Roberto. Oggi certo non lo posso più fare e mi spiace ma certo entrambi siamo stati riservati reciprocamente pur mantenendo l’amicizia adolescenziale. Pochi giorni prima di leggere della sua morte gli avevo scritto, come tante altre volte, di inviarmi i suoi ultimi due libri.1

Li ho letti, il primo racconta con freschezza e amore per quell’età dell’infanzia a Firenze circondato da parenti famosi, amici di famiglia, la guerra, le case, i giochi, un suo gatto di pezza, i passatempi con il passaggio dai soldatini di piombo ai libri, le prime letture. Il secondo è tutto incentrato sulla figura di Bobi Balzen, sulla loro amicizia a Roma e sulla nascita dell’Adelphi. Tra il periodo fiorentino e quello romano per Roberto, come scrive, c’è una separazione: «Una lastra impenetrabile e trasparente separa ciò che ho vissuto a Firenze fino alla fine del 1954 da tutto il resto. Per quanto remoto, quel resto, che ha inizio con Roma, fa già parte di oggi».

Non è certo un caso che egli abbia aspettato a scrivere questi ricordi sul finire della vita, quando si accetta di essere più indulgenti con se stessi e si lascia trapelare qualcosa di intimo e personale, certi, tra l’altro, che si potrà evitare di leggere commenti altrui sui propri ricordi e sulle proprie ricostruzioni mnemoniche di un passato remoto.

Certo con Roma c’è un allontanamento dal nucleo famigliare così particolare e impegnativo, sostituito dalla figura di Bobi Balzen anch’essa impegnativa e particolare. Ma, secondo me, Roberto da quando ha imparato a leggere, da quando ha amato la compagnia dei libri è rimasto sempre fedele a se stesso. Scrivere libri, raccontare favole, fare l’editore, così come lo ha fatto lui, vuol dire divertirsi con la propria passione, i libri “unici”.

Perché scrivo queste righe per l’amico Roberto? Per dire a tutti coloro che non lo hanno conosciuto adolescente che, pur con il passare del tempo e con i mutamenti nel corso di più di sessanta anni, Roberto è sempre rimasto fedele a se stesso e se anche è diventato un “personaggio pubblico” tutto quello che ha fatto lo ha fatto perché ci credeva, perché era importante, divertente per lui, anzi essenziale.

Dicendo questo non intendo certo non considerare l’importanza dell’impresa Adelphi con il gigantesco catalogo fatto solo di libri amati, come diceva Bobi Balzen e che, pur nella differenza, sono legati da un filo che può anche essere intravisto e colto.2

Non sempre ho letto subito i libri che Roberto veniva scrivendo e mi inviava, c’era qualcosa che me lo impediva, forse subivo involontariamente un giudizio corrente che lo designava come snob. O anche quando ci sono state delle dispute culturali su alcune scelte editoriali della nascente casa editrice, pur non conoscendo i motivi delle diatribe, mi schieravo in modo un po’ fazioso come è del mio carattere. O con i troiani o con gli achei! Oggi mi sto, almeno in parte, ricredendo, non tutto si risolve schierandosi. Prima di giudicare bisogna conoscere, capire. Se ci si lascia guidare dall’affetto non si abbandona la razionalità o la propria visione del mondo ma si guarda con mutato interesse e differente punto di vista.

Ed è anche per questo che scrivo questa specie di integrazione ai ricordi di Roberto e lascio spazio all’affetto. Gli anni della scuola rappresentano una sorta di trait d’union tra la fanciullezza e l’età adulta, quella lastra impenetrabile eppur trasparente. Una glossa in margine agli ultimi due libri di Roberto per cercare di capirne meglio la personalità.

Per far ciò si richiede di tenere presenti anche le pagine di L’innominabile attuale.3 Queste pagine dicono molto su come Calasso vedesse e vivesse l’oggi.

Già il disegno in copertina, L’Occhio alato di Leon Battista Alberti annuncia l’orrore di quanto verrà narrato nel libro.4 Si tratta di un libro che ripercorre gli anni dal 1933 a tutt’oggi. Li ripercorre scrivendo sui temi che meglio hanno caratterizzato il XX e l’inizio del XXI secolo. È un libro terribile perché terribili sono i fatti di cui si parla: il terrorismo, la società e il sociale, la democrazia e i suoi limiti, la religione e il sacro, internet. Turisti, terroristi, secolaristi, hackers, fondamentalisti, transumanisti, algoritmici: abitano e agitano “l’innominabile attuale”. Quando si passa al periodo fra il 1933 e il 1945 la scrittura si fa ancora più martellante e asettica, piena di riferimenti a documenti, in particolare sul nazismo e anche sullo stalinismo per denunciare come il mondo stesso avesse compiuto il tentativo, parzialmente riuscito, di autoannientamento.

Il libro ti coinvolge, ti tocca, ti appassiona nonostante, o forse proprio perché, è un libro scritto per descrivere e senza apparente passione. È un libro freddo, pieno di richiami, di citazioni, di documenti.

Si potrebbe attribuire a Calasso quanto egli scrive a pagina 58: «Stuart Mill, nella sua intemerata probità, pose a se stesso – e lo fece precipitare in uno stato che trovò descritto soltanto in Coleridge: “Un dolore senza uno spasimo, vuoto, buio e desolato”». Questo è il sentimento, l’atteggiamento mentale che accompagna, sorregge la scrittura di questo libro e del suo autore. L’età attuale è per Calasso l’età dell’inconsistenza.

Pur tuttavia c’è un punto di vista che sottende l’intera analisi che Roberto chiama «lo shock dell’ignoto» (pp. 87-88): non è un credo, una religione, è un bisogno, una esigenza ad andare oltre un essere nel mondo senza essere del mondo. È da questa esigenza e del suo venir meno che il mondo di internet, della datità, della digitabilità può venir valutato, respinto.

Riporto qui un passo sulla digitabilità perché con efficacia indica di quale penuria sia invaso il mondo attuale:

La digitabilità è il più grave assalto che abbia subito l’inclinazione a esporsi allo shock dell’ignoto. Erano già pochi coloro che coltivavano quella sensazione, come un segreto. Ma la rete ha obbligato chiunque a gravarsi di un immane sapere che non sa, come se ciascuno fosse avvolto da un ronzio ininterrotto e istruttivo in qualsiasi direzione. Un Google Earth esteso al tempo soffoca qualsiasi percezione dell’ignoto che viene inevitabilmente attenuata e depotenziata – o finalmente neutralizzata. (pp.88-89)

A chi volesse obbiettare che la rete diffonde cultura e che la posizione qui espressa è elitaria, direi che non sente già più il “ronzio” diffuso da internet e dai mas media. E, tanto per fare due esempi banali: le tesine fatte con il taglia e incolla da internet non arricchiscono chi le redige; fare, come sta facendo in questi giorni Hachette, un’edizione per bambini della Divina commedia solo con disegni colorati e nemmeno qualche terzina citata e spiegata è un’operazione truffaldina, che offende l’intelligenza di quei bambini per i quali questa opera è proposta.

Non penso di esagerare dicendo che la vera spinta che ha determinato le scelte di Roberto Calasso sia stata fin dalla sua giovinezza la ricerca dell’ignoto dai più vari e differenti punti di partenza, dalle diverse culture del mondo nei secoli passati.

Non posso, non voglio e non so ripercorrere l’intera opera di questo autore. Con questo mio saluto tardivo voglio ancora una volta riconoscere nel compagno di scuola già l’editore e lo scrittore.

Note

* Il titolo di questo articolo richiama il titolo di un film di Straub-Huillet: senza peraltro richiamarne, tengo a precisare, il significato.

1 R. Calasso, Memè Scianca, Milano, Adelphi, 2021; Id., Bobi, Milano, Adelphi, 2021.

2 Già nel libro L’impronta dell’editore Calasso scriveva: «La vera storia dell’editoria è in larga parte orale – e tale sembra destinata a rimanere. Una teoria dell’arte editoriale non si è mai sviluppata – e forse è troppo tardi perché si sviluppi ora. Andando contro a questi dati di fatto, ho provato a mettere insieme due elementi: qualche passaggio nella storia di Adelphi, quale ho vissuto per cinquant’anni, e un profilo non di teoria dell’editoria, ma di ciò che una certa editoria potrebbe anche essere: una forma, da studiare e da giudicare come si fa con un libro. Che, nel caso di Adelphi, avrebbe più di duemila capitoli».

3 R. Calasso, L’innominabile attuale, Milano, Adelphi, 2020.

4 «E soprattutto si disponeva di una cornice per introdurre un elemento che ritenevamo essenziale: l’immagine. […] Nome, carta, colori, schema grafico: tutti elementi essenziali della collana. Mancava ancora quello da cui un libro si lascia riconoscere: l’immagine. Che cosa doveva essere quell’immagine sulla copertina | Il rovescio dell’ecfrasi – proverei a definirla oggi. […] Ecfrasi era il termine che si usava, nella Grecia antica, per indicare quel procedimento retorico che consiste nel tradurre in parole le opere d’arte. […] Ora, l’editore che sceglie una copertina – lo sappia o no – è l’ultimo, il più̀ umile e oscuro discendente nella stirpe di coloro che praticano l’arte dell’ecfrasi, ma applicata questa volta a rovescio, quindi tentando di trovare l’equivalente o l’analogon di un testo in una singola immagine» (da I libri unici, in L’impronta dell’editore cit., pp.20-21; il corsivo è mio).