Trittico per Gino Blasucci
Pierluigi Pellini

A un mese esatto dalla scomparsa di Luigi Blasucci (Altamura, 23 maggio 1924 – Pisa, 29 ottobre 2021), lo ricordo sull’«Ospite ingrato» ripubblicando, senza variazioni di sostanza, il necrologio che ho scritto per «il Manifesto» (è uscito sul giornale del 30 ottobre); offrendo la trascrizione, con qualche nota, di una delle cinque lettere scritte da Blasucci a Franco Fortini e conservate presso la Biblioteca di Area Umanistica dell’Università degli Studi di Siena; e concludendo con qualche sparsa noterella personale.

I.

Luigi Blasucci era l’ultimo grande della critica letteraria italiana del Novecento. Si è spento a Pisa, dove ha insegnato prima nei licei della provincia, poi all’Università, infine alla Scuola Normale. Era nato in Puglia, nel 1924, in una famiglia di estrazione socio-culturale umilissima; uomo di invidiata bellezza e impeccabile eleganza, aveva nel suo habitus intellettuale, non meno che nei modi e nel portamento, una sprezzatura aristocratica.

Non leggeva mai per dovere professionale; studiava solo gli autori che più amava, e di cui conosceva a memoria centinaia, forse migliaia di versi: Dante, Ariosto e Montale, oltre ovviamente a Leopardi, di cui era il massimo specialista. E non a caso, credo, se ne è andato poche settimane dopo aver licenziato per la stampa il secondo e ultimo volume del suo splendido commento ai Canti (il primo volume è uscito, per Guanda, due anni fa). È stato, alla lettera, il lavoro di una vita: avviato negli anni Ottanta del Novecento su sollecitazione di Gianfranco Contini, già a buon punto alla metà del decennio successivo, e poi solo apparentemente accantonato, in realtà lo ha accompagnato fino a pochi giorni fa. Blasucci ha integrato, limato, rielaborato quasi quotidianamente il suo Leopardi per tre decenni, con instancabile dedizione: certo per scrupolo di rigore filologico e aggiornamento bibliografico, ma soprattutto per geloso attaccamento a uno scartafaccio che era ragione di esistenza. Il destino di Sherazade non è solo una metafora letteraria.

Se, più di chiunque altro, Blasucci ha saputo fare dell’explication de textes un genere critico maggiore, svincolato da ogni ipoteca ancillare, non è solo – non tanto – per il suo proverbiale orecchio metrico e ritmico, per la sua capacità di percepire ogni sfumatura della lingua, ogni minimo scarto figurale. Se meglio di tutti sapeva leggere una poesia, descriverne le forme e spiegarne il senso, al tempo stesso con limpido nitore e minuziosa finezza, è soprattutto perché credeva nella letteratura: anche quando si dedicava a esercizi di «diligente micrologia» (parole sue), non sezionava freddamente i testi per asettico dovere di laboratorio, come troppi studiosi delle forme e delle strutture appartenenti alle generazioni successive. Nel dettaglio stilistico cercava il segreto della riuscita estetica, e anche un senso complessivo, utile alla vita: fedele, in questo, all’esempio di Leo Spitzer; e a una mai rinnegata formazione crociana, o post-crociana (suoi maestri, alla Normale, sono stati Luigi Russo e poi Mario Fubini); una formazione che a fine Novecento poteva apparire retaggio attardato, ma si rivela oggi, al consuntivo, meno caduca di tanti dogmi metodologici d’importazione.

Per irridente opposizione agli “ismi” critici di volta in volta dominanti, Blasucci si definiva con autoironia “critico liceale”: capace cioè di spiegare nel modo più semplice la costruzione e la lettera della poesia (metrica, lingua, struttura); e di mirare all’essenziale, che per lui era sempre nel testo, non nelle categorie filosofiche, sociologiche, psicologiche convocate, più o meno pretestuosamente, per interpretarlo. Perciò, forse, il suo capolavoro – quantomeno al di fuori dell’àmbito degli studi leopardiani – rimane la pionieristica Lettura e collocazione di «Nuove stanze» (1974), che individua con insuperata lucidità gli snodi dell’opera in versi di Montale, dal simbolismo degli Ossi alla letteralità epifanica delle predilette Occasioni, al manierismo della Bufera. All’analisi del testo (la “lettura”), Blasucci accompagna sempre, infatti, un’attenzione al contesto (la “collocazione”): senza determinismi storicistici, ma con puntuale attenzione alla storia (della lingua e dei generi letterari, innanzitutto) e all’evoluzione della poetica e del pensiero degli autori. Per questo, nel suo pantheon critico, accanto ai maestri della stilistica, riservava un posto d’onore a Sebastiano Timpanaro: uno studioso molto diverso da lui, ma con cui aveva una profonda, ancorché quasi paradossale, sintonia umana e perfino ideologica.

Insieme a alcuni altri fra i saggi montaliani (si leggono ne Gli oggetti di Montale, per il Mulino nel 2002, e ora per Ledizioni: bellissima per esempio la lettura di Casa sul mare), insieme al classico studio su Leopardi e i segnali dell’infinito (nel volume omonimo, sempre per il Mulino), ai lavori sull’ottava di Ariosto e sul tempo nel Purgatorio di Dante (Studi su Dante e Ariosto è il primo libro di Blasucci, per Ricciardi nel 1969: amava il Purgatorio più dell’Inferno e del Paradiso, perché amava la vita, nella fragilità mutevole del suo trascorrere), il saggio su Nuove stanze fa parte di quel ristretto numero di pagine critiche che ogni studente di lettere, ogni insegnante di letteratura, dovrebbe leggere e rileggere; e poi, se ci riesce, emulare.

Luigi Blasucci è stato infatti il più grande critico stilistico del Novecento italiano: poco incline alla polemica militante, per carattere schivo e soprattutto per disdegno delle mode culturali, non ha avuto in vita né il potere accademico, né l’effimera presenza mediatica che alcuni suoi colleghi hanno spasmodicamente cercato. Ma ogni volta che ha preso posizione, anche marcando, con garbata fermezza, una distanza dalle tesi di studiosi che pure ammirava, ha avuto ragione: per esempio sul ruolo decisivo dell’oggetto povero crepuscolare nella genesi dell’universo poetico di Montale – contro l’enfasi di Mengaldo sui debiti dannunziani; o sull’opportunità di studiare ogni fase, ogni testo e perfino ogni verso della poesia di Leopardi iuxta propria principia, nel rispetto della diacronia e in dialogo costante con il pensiero filosofico dell’autore – contro l’astratto “sistema” della variantistica di Contini, e contro il pregiudizio, di deteriore ascendenza crociana, che isola e privilegia una presunta lirica pura.

Non era solo un tecnico delle forme e dello stile: l’ironia sorniona del suo sguardo azzurro disarmava chi lo spingeva sui terreni poco amati della teoria e delle scienze umane; e alla fine l’interlocutore era costretto a riconoscere che il giudizio storiografico e culturale più esatto, più complesso e esaustivo, ancorché formulato in economia di riferimenti à la page, era sempre il suo.

II.

Quello fra Luigi Blasucci e Franco Fortini è un carteggio di estensione limitata, ma bellissimo. Bisognerà pubblicarlo tutto.

Presso la Biblioteca di Area Umanistica dell’Università di Siena sono depositate undici missive di Fortini, donate al nostro archivio dal destinatario (la prima è datata 11 maggio 1974, l’ultima è del 17 settembre 1986); e cinque lettere di Luigi Blasucci (la prima del 15 gennaio 1976, l’ultima del 29 dicembre 1986). La dissimmetria non si spiega necessariamente con la perdita di una parte del materiale: in media più brevi (ci sono anche una cartolina e un biglietto di poche righe), i testi di Fortini possono reagire all’invio di un estratto, o ritornare su conversazioni orali, o rispondere a più riprese a una stessa lettera; e sono quasi tutti manoscritti (tranne due, oltre al citato biglietto). Quelli di Blasucci, invece, sono tutti dattiloscritti; hanno misura più ampia; e sono evidentemente frutto di un’elaborazione non estemporanea: a tratti hanno andamento quasi saggistico, sempre sono sorvegliatissimi nella scrittura.

Fra due studiosi, e due uomini, tanto diversi, c’era stima reciproca, cordialità, e una notevole franchezza. Probabilmente c’era anche una reciproca «mal celata simpatia», se posso citare la più bella dedica di un libro che mi sia mai stata fatta – avevo ventisei anni, nel ’96, ero perfezionando in Normale: “Ginone” mi regalò I tempi dei «Canti»; sul foglio di guardia, ormaiingiallito, sta scritto: «A Pierluigi Pellini, / con mal celata simpatia / Luigi Bl.». Non c’era però, fra Blasucci e Fortini, intima consuetudine. Le intestazioni mantengono una distanza («Caro Blasucci»; «Caro Fortini», firmato Luigi – non Gino). Gli argomenti sono di lavoro, non privati: in prevalenza, esegesi leopardiana e questioni di metrica – con qualche gustoso affondo su vicende accademiche, come questo: «Colpa dell’attuale sistema concorsuale, che ha sostituito la mafia con la cabala (o se preferisci, con una mafia spicciola, da quattro soldi: alla quale preferirò sempre la grande mafia, non priva di una sua razionalità)». Così Blasucci nella sua prima lettera, gennaio 1976: ma sembrano righe scritte, e da sottoscrivere, oggi.

Nella sua ultima lettera, Blasucci commenta analiticamente il dattiloscritto inedito dell’ampio saggio di Fortini sulla seconda Sepolcrale («Sopra il ritratto di una bella donna», poi in F. Fortini, Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano 1987, pp. 56-85): con plauso e «ammirazione» per la puntualissima analisi del testo, e per svariate osservazioni, di dettaglio e anche strutturali (quella sul “congedo” deve averlo persuaso particolarmente: la citerà a più riprese nei suoi successivi studi leopardiani); ma lo commenta anche sottolineando con garbo lo scetticismo nei confronti di una tesi di fondo percepita come un azzardo ermeneutico: «il mio passo è molto più lento del tuo»; «io, ripeto, mi fermerei qui», alla descrizione del metro e del lessico; «il resto è la tua alea, e forse la tua gloria». Formula fulminante (in doppio settenario?), che davvero illumina la personalità intellettuale di Blasucci, il suo rigore prudente, la sua indefettibile aderenza al testo, la sua umiltà superba – non arrogante, però, non positivisticamente limitata e compiaciuta: qui, insieme a molto scetticismo, c’è anche un fondo di rammarico, nel negare a se stesso l’ipotetica gloria del Fortini leopardista. Il quale, forse piccato – o forse soddisfatto del placet tecnico di Blasucci, e convinto che con lui il dialogo non potesse spostarsi su piani diversi – non pare abbia risposto. Come che sia, il carteggio conservato s’interrompe a quest’altezza.

Per darne un’idea, trascrivo – con la massima fedeltà all’originale: mi limito a rendere col corsivo le sottolineature; e non do conto dei più minuti interventi a penna che correggono refusi o uniformano i segni d’interpunzione – la lettera di Blasucci del 19 febbraio 1986. È la risposta a tre missive di Fortini: la prima scritta a Siena «martedì 10 dicembre 85», ma inavvertitamente «rimasta non spedita», come spiega la seconda, datata «Milano / 16 febbraio 1986»; la terza è un biglietto d’una decina di brevi righe dattiloscritte, scritto, ancora a Milano, il 20 febbraio; la prima, dattiloscritta con alcune aggiunte manoscritte, è la più ampia fra le lettere di Fortini a Blasucci.

Pisa, 19.II.86

Caro Fortini, non ho dimenticato ciò che mi raccontasti un giorno di Contini che, incontrandoti per la prima volta, ti chiese se tu eri l’autore di quel tale articolo di metrica, fingendo d’ignorare tutto il resto.1 Considerati gl’interessi (e i disinteressi) di Contini, trovo che la sua perfidia non fu poi così grande; leggendo ora le tue osservazioni sugli endecasillabi “in filigrana”,2 sono quasi disposto ad assolvere in tutto Contini: dico cioè che aveva a ragione reso omaggio all’intenditore di metrica. Ciò che dici sul fenomeno dell’overlapping (così lo chiama Di Girolamo nel suo Teoria e prassi della versificazione, dove ne fa un’estesa analisi a proposito degli endecasillabi dell’Infinito)3 mi trova in sostanza d’accordo: e per dimostrarti che la mia non è pura condiscendenza, mi permetto di accludere a questa lettera la fotocopia di alcune pagine di un mio scritto del ’634 intitolato Metrica e poesia, nato come recensione all’omonimo libro di Fubini e pubblicato poi in appendice ai miei Studi su Dante e Ariosto.5 In quell’articolo, come vedrai, non parlo propriamente degli endecasillabi “accavallati” (altra dizione del Di Girolamo, che era ancora di là da venire), ma più generalmente di tutti i tentativi di valorizzare una metrica interlineare, chiamata da Giuseppe De Robertis “metrica interna” (alla faccia della metrica vera o “esterna”).6 Di là da venire era anche il discorso di Avalle su A Liuba che parte, che ho sempre trovato francamente sballato (Montale negò fermamente, a quanto mi risulta, di aver mai conosciuto gli schemi dell’antica ballata).7 Non negherei invece fenomeni più evidenti ed elementari, non di accavallamento, ma di semplice successione di versetti che, sommati, fanno endecasillabo. In questo momento non ho sott’occhio che un esempio, o meglio una serie di esempi, ma tutti omologhi, da una lirica di Albino Pierro, Amore (Metaponto, 1982, pp. 115-6), i cui incipit di strofe suonano così: “Amore, / amore duce e anniputente”; “Amore, / amore belle com’u sóue”; “Amore, / amore funne cchiù d’u céhe”; “Amore, / amore forte cchiù d’u vente”; “Amore, / amore granne cchiù d’u mère; / amore, / amore forte cchiù d’u vente”; “Amore, / amore duce e anniputente”.8 Ma quanti altri esempi si potrebbero addurre! Se in quel passo della mia introduzione al Mai parlo di endecasillabi semanticamente compiuti ottenibili da due emistichi di versi successivi,9 è comunque per sottolineare le sfasature quasi sistematiche di metro e senso in quei finali di strofe (tanto che il senso ricomposto dà luogo appunto alla formazione di altri endecasillabi: fenomeno curioso e notabile, ma per me tutt’altro che mentalmente sostitutivo del metro vero, ed espressivo proprio grazie a quella fitta successione di coupes: sulle quali, sia detto tra parentesi, si regge la bellezza suprema di A se stesso).

Pienamente d’accordo mi trova anche quello che dici sugli endecasillabi nella prosa dei giornali. Per me un verso, per esser tale, deve voler essere un verso (affermazione lapalissiana fino a un certo punto): altrimenti è una delle infinite specificazioni della prosa. Di qui il ruolo decisivo del contesto: è il contesto che fa il verso. E perciò se un Boine incomincia a infilarmi degli endecasillabi in serie nella prosa di alcuni Frantumi, e per di più a rilevarmeli con delle rime, io dopo un po’ mangio la foglia e li leggo come endecasillabi: è il contesto che me l’ha imposto anche in questo caso (che è un caso limite); viceversa, un solo endecasillabo non fa primavera, cioè non è un endecasillabo (ad es. poco fa ho scritto: “la bellezza suprema di A se stesso”).

Tornando a Leopardi, non butterei via nemmeno le dieci righe finali della tua lettera, che tu consideri, rileggendole, “poco pertinenti e non dimostrate”:10 è giustissima l’esigenza di non considerare le canzoni, nel loro sviluppo metrico, come una via agli sciolti (pregiudizio favorito dal fatto che, nella stampa dei Canti, esse precedono gli “idilli”: ma Leop. gestiva i due generi metrici contemporaneamente!). Le catene del metro, in quanto lo obbligavano a quelle “contorsioni alfieriane” e a quegli “ardiri” di cui parli, avevano pure una funzione attiva, maieutica, cioè espressiva (C’è11 solo da osservare che nelle prime due canzoni gli obblighi metrici facevano largamente aggio sulla loro funzionalità anche nel senso sopra precisato: mi dici a che serviva la variazione di schema tra strofe pari e dispari? un vero e proprio spreco di “energia metrica”).12 Il processo di rarefazione delle rime, evidente soprattutto nelle ultime canzoni, non è da identificarsi tout court con la ricerca di una forma aperta: e la strofe dell’Ultimo canto, rimata solo nella successione settenario-endecasillabo di clausola, è pur sempre una forma chiusa a schema fisso (i Patriarchi sono metricamente tutt’altra cosa: equivalenti degli esametri degli inni callimachei).13 Insomma fai bene a rivendicare la specificità (e l’espressività) metrica delle canzoni, pur sempre “canzoni chiuse”; il che va di pari passo con la rivendicazione della loro specificità tematica e stilistica.

Il riscontro di Ginestra 192-3 per Sopra il ritratto 27 è pertinente, purché tu ci tolga l’ironia sferzante di quel passo della Ginestra. Il pare di Sopra il ritratto (“beltà grandeggia e pare…”) veicola una ammirazione piena di stupore.14 L’interpretazione comune di “natura immortal” sembra confermata, all’interno di Sopra il r., dall’opposto e simmetrico “Natura umana” del v. 50; all’esterno, da riscontri altrettanto oppositivi come “la natura mortal” di Pepoli 25, “la mortal natura” di Tramonto 26 e soprattutto “natura terrena” di Consalvo 113 (dove la mancanza dell’articolo, come in Sopra il r., equivale a un articolo indeterminativo: ‘a una natura terrena’).15

Prendo nota della segnalazione tarsiana dell’ultimo tuo biglietto: andrò a verificarla appena potrò; che mi risulti, non era stata fatta finora.16 Vuol dire che ti citerò tra i miei consiglieri.17 In paragone, “ermo colle” è assai meno significativo nella sua genericità petrarchesca (anche se in Petr. non si trova materialmente; v. però Rime CCCIV, 4: “poggi solitari ed ermi”).18 Galeazzo di T. non è incluso nella Crestomazia poetica; anzi, se ho ben visto, non è mai ricordato da Leopardi (anche se le sue rime sono presenti nella biblioteca Leopardi a Recanati). Bigi nel suo L. e il petrarchismo (in AA. VV., L. e la letter. ital. dal Duecento al Seicento, Firenze 1978, p. 250) asserisce che “una esplorazione attenta” di Tarsia e di Michelangelo come eventuali fonti leopardiane “è giunta a risultati negativi”.19

Hai ricevuto il mio Leopardi e i segnali dell’infinito (Bologna, Il Mulino, 1985)? Segnalai il tuo nome tra i primi alla casa editrice: rassicurami su questo punto. Rassicurami ancora su quest’altro: che hai ritrovato le pagine dattiloscritte su Nelle nozze e su A un vincitore, che lamentavi assenti dal mio malloppo e che io mi ricordo di aver consegnato al Magrini.20 Se non le hai trovate, te le spedirò.

Non ti peritare di mandarmi bigliettini con segnalazioni o domande; faccio tesoro delle prime, cerco di rispondere alle altre. Non so se siano “la meilleur témoignage / que nous puissions donner de notre dignité”; ma certamente non sono la peggiore.21

Tanti auguri di buona salute e di buon lavoro dal tuo22

Luigi Blasucci

III.

Un commento più dettagliato dovrà dar ragione di altri riferimenti, di altri rimandi bibliografici e culturali, di altre implicazioni degli argomenti affrontati nel carteggio. Per ora, mi sono limitato all’essenziale: ringrazio Luca Lenzini e Marco Villa, che mi hanno dato alcuni preziosi suggerimenti. Qui, a mo’ di provvisorio congedo, aggiungo un paio di noterelle personali.

Dopo la sua morte, alcuni allievi e amici hanno scritto di Blasucci: i tre pezzi più significativi sono certamente quello di Gianluigi Simonetti sul domenicale de «Il Sole – 24 ore» del 31 ottobre; e quelli di Ida Campeggiani e di Raffaele Donnarumma, entrambi affidati al blog «La letteratura e noi».

Del ricordo intensissimo di Ida Campeggiani, l’allieva ultima e prediletta di Gino, la più vicina negli anni estremi (insieme a Giuliana Petrucci, amica fedele di lunga data), riporto quattro righe splendide, illuminanti:

per me è indimenticabile il suo intercalare “va-bbéne?”, col quale si compiaceva di creare un contrasto tra l’acutezza delle sue osservazioni e le movenze più spicce dell’oralità. Era lì che abitava e che voleva essere raggiunto dagli interlocutori: tra il sublime e il semplice (ma rivendicando implicitamente la necessità del sublime).

Di quello di Raffaele Donnarumma cito un brano un poco più ampio, e non meno bello; lo cito però per segnare una distanza – su un dettaglio importante, e naturalmente molto soggettivo. Scrive Donnarumma (e lo scrive, ripeto, splendidamente) che se Blasucci

era agli occhi di molti di noi il Padre, lo era in un modo spiazzante, difficile: chi rivendica di occuparsi del concreto e del particolare anziché della grande teoria, chi fa sentire tutto il peso della propria autorevolezza ma non esercita il potere, chi chiede fedeltà ai propri studenti e sa anche lasciarli andare per la loro strada recalcitra in qualcosa a quel ruolo, non vuole identificarsi sino in fondo con la Legge. Eppure, quella Legge, senza i cui interdetti non si possono costituire le identità, Blasucci la era. Poneva i veti inaggirabili, a volte con severità esplicita, a volte con un’ironia più insidiosa e lenta ad agire. Faceva le cose che più indispettiscono i ventenni di belle speranze (figuriamoci, poi, se sono normalisti): ne sminuiva le ambizioni totalitarie, imponeva la fatica dell’analisi, gelava gli azzardi interpretativi con la cautela della perplessità o (ed è peggio) del buon senso; a volte, con un tono bonario di sufficienza, li prendeva un po’ in giro.

Anche se Blasucci aveva quasi esattamente la stessa età di mio padre (anche lui Gino: era del ’23), anche se dal giorno in cui è morto sto cercando inutilmente, con rabbiosa frustrazione, una foto che li ritraeva seduti uno accanto all’altro, all’Osteria di Meati, fra Pisa e Lucca, la sera del mio perfezionamento, il 7 ottobre del 1997 (due settantenni bellissimi, uno con la terza media, l’altro professore in Normale; parlavano di calcio, ognuno a suo agio; uno sarebbe scomparso due anni dopo),23 nonostante tutto questo, Gino Blasucci, Ginone, per me è sempre stato nonno, mai Padre. Nella sua aureolata autorevolezza, aveva da sempre qualcosa di disarmato e fragile, di tenero e spaesato, di totalmente estraneo alla Legge. Perfino il giorno del mio esame di ammissione in Normale (settembre 1989), quando fumava annoiato (sigaretta con il bocchino), nell’angusta aula Pasquali, guardando dall’altra parte, mentre io cercavo di rispondere alle sue domande, e ripetevo formule che a lui saranno sembrate vacue banalità sociologiche; e si voltava verso di me (chissà se lo faceva apposta) solo per soffiarmi il fumo in faccia.

Di padri e figli parla uno dei più folgoranti fra gli epigrammi di Blasucci, che bisognerebbe raccogliere e pubblicare. Ne fa le spese Domenico De Robertis, che ha aggiornato, con aggiunte parentetiche (integrazioni e precisazioni; spesso correzioni e smentite) il commento leopardiano del padre Giuseppe: «Uccise il padre / tra parentesi quadre».

Seconda noterella. Credo che Gino non fosse davvero convinto che un verso, per essere un verso, debba voler essere tale, come dice nella lettera a Fortini. Gli capitava, nella conversazione orale, di produrre o di notare lacerti metrici più o meno involontari. A volte ne gustava l’eleganza, non senza un certo compiacimento (se erano suoi). Altre volte ne sottolineava la goffa incongruità.

Nell’autunno del 2018, un comune amico mi raccontò che Gino – allora novantaquattrenne – aveva partecipato al funerale di un ex collega, di quasi vent’anni più giovane di lui. Ci era andato in bicicletta. Sapevo che gli scherzi sulla sua longevità gli erano (moderatamente) graditi, o quantomeno li accettava con ironia apotropaica. La prima volta che mi capitò di incontrarlo, qualche mese dopo, evocai quel funerale e commentai: «Ci seppellirai tutti in bicicletta». La risposta arrivò immediata, con il lampo ancora azzurro dei suoi occhi, e un dito puntato verso di me (non so bene se in segno di riprovazione, o di compiacimento): «Endecasillabo».

Note

1 La citazione perfidamente elogiativa di Contini evoca uno dei tre articoli sulla metrica novecentesca, scritti da Fortini fra il 1957 e l’anno successivo, e raccolti nel primo volume dei Saggi italiani (Milano, Garzanti, 1987, pp. 325-358).

2 Nella lettera del 10 dicembre 1985, Fortini sostiene – contro Marco Santagata, citato da Blasucci – che «il reperimento di “versi in filigrana” è altrettanto arbitrario e criticamente inutilizzabile quanto il reperimento di endecasillabi nella prosa dei giornali» («e criticamente inutilizzabile» è aggiunta manoscritta, a margine). Gli esempi addotti da Fortini sono tratti prevalentemente dalla canzone Ad Angelo Mai, ma «le tue bellissime note leopardiane», da cui il ragionamento prende le mosse, non sono quelle di Livelli e correzioni dell’«Angelo Mai» (in L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 81-95), bensì, verosimilmente (cfr. qui sotto, note 9 e 21), un primo abbozzo dattiloscritto di quello che più di trent’anni dopo sarebbe diventato il commento ai Canti: dove infatti si leggono, nel cappello della canzone Ad Angelo Mai, le righe, ispirate da un saggio di Santagata, che Fortini cita fra virgolette nella sua lettera: «endecasillabi semanticamente compiuti ottenibili da due emistichi di versi successivi» (G. Leopardi, Canti, a cura di L. Blasucci, Milano, Fondazione Pietro Bembo – Guanda, 2019, p. 73). Un abbozzo che nel frattempo avrebbe nutrito numerosi saggi di Blasucci: nella fattispecie, quello sulla Morfologia delle «Canzoni», che uscirà per la prima volta nel 1993 e sarà raccolto nel 1996 ne I tempi dei «Canti» (Einaudi, Torino), dove a p. 22 si leggono le stesse righe citate da Fortini. L’interesse del carteggio Fortini-Blasucci è anche questo: più di una volta i due studiosi commentano dattiloscritti inediti dell’interlocutore, suggerendo integrazioni o correzioni.

3 Il riferimento è a C. Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione, Bologna, il Mulino, 1976, pp. 169-181 (in particolare pp. 177-181).

4 «del ’63» è aggiunta manoscritta nell’interlinea.

5 Cfr. L. Blasucci, Metrica e poesia, in Id., Studi su Dante e Ariosto, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, pp. 177-200 (in particolare pp. 188-192: sono le pagine cui Blasucci fa riferimento, e che verosimilmente avrà accluso in fotocopia alla sua lettera).

6 L’ironica stroncatura (quelle di De Robertis, applicate a testi di Salvatore Di Giacomo, sarebbero «fantasie versoliberistiche») si legge ivi, p. 189; il riferimento è a G. De Robertis, Saggi, Firenze, Le Monnier, 1953, pp. 77-78.

7 Nel giudizio sul (troppo) celebre saggio di Avalle («A Liuba che parte», in Id., Tre saggi su Montale, Torino, Einaudi, 1970, pp. 91-99), Blasucci e Fortini (che nella lettera del 10 dicembre 1985 allude allo stesso esercizio di lettura, dicendolo «per me malfamato») sono concordi: e hanno ragione. Blasucci ci mette un di più di malizia, nel trovare «sballato» un saggio che evoca a sproposito la «ballata» medievale.

8 Le citazioni sono tratte da A. Pierro, Metaponto, Milano, Garzanti, 1882, pp. 115-116, dove si legge anche la traduzione: «Amore, / amore dolce e onnipotente»; «Amore, / amore bello più del [sic] sole»; «Amore, / amore profondo più del cielo»; «Amore, / amore forte più del vento»; «Amore, / amore grande più del mare; / amore, / amore forte più del vento»; «Amore, / amore dolce e onnipotente».

9 Cfr. sopra, nota 2. Parlando di «introduzione al Mai», Blasucci conferma che si tratta del cappello introduttivo alla canzone, cioè di una prima versione del commento leopardiano (cfr. anche qui sotto, nota 21).

10 Un’aggiunta manoscritta sul margine alto della lettera del 10 dicembre avverte: «Le dieci righe finali mi paiono, rileggendo, poco pertinenti e non dimostrate». Le dieci righe in questione, evidenziate dall’autore con un riquadro a penna, recitano così: «E finalmente oso aggiungere che il tanto studiato trascendimento, nel L. delle “Canzoni”, della gabbia metrica tradizionale mi pare così ferocemente contraddetto e recuperato dalle contorsioni alfieriane e dagli “ardiri” che mi domando quale bisogno avesse di combattere tanto con lo schema metrico della canzone tradizionale chi, fin dalle versioni da Mosco del ’17, aveva dimostrato di aver appreso, dal Tasso del “Rogo amoroso”, l’arte della fluenza ininterrotta. È che “le catene danno le ali” e che (ossequioso al ‘genere’ «canzone funebre») L. rompe con una mano quel che rinsalda con l’altra; ossia non spezza le catene (metriche) che per meglio mostrarle». Di «catene che danno le ali», a proposito di «limitazioni di ordine retorico e linguistico», e con riferimento a un’idea di Paul Valéry, Fortini parla in un’intervista del 1979 (ma pubblicata nel 1981) a Mauro Mauruzj e Donatello Santarone: F. Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 pp. 298-310: p. 307).

11 Sic, maiuscolo.

12 L’idea di uno «spreco di energia metrica», non ripresa nelle schede metriche che chiudono i cappelli introduttivi alle due canzoni nel commento del 2019 (Leopardi, Canti cit.: per All’Italia cfr. p. 8, per Sopra il monumento di Dante cfr. p. 35), sarà, salvo errore, una di quelle intuizioni acutissime e un poco irriverenti che Blasucci riservava alla conversazione privata.

13 Analoghe osservazioni sulla persistenza della forma-canzone nell’Ultimo canto di Saffo e sul modello degli «inni pseudo-omerici e soprattutto callimachei» nell’Inno ai Patriarchi ritornano nelle schede metriche dedicate da Blasucci ai due testi nel commento del 2019: cfr. ivi, rispettivamente p. 248 e p. 211.

14 Il confronto è fra i vv. 25-27 di Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima («beltà grandeggia, e pare, / quale splendor vibrato / da natura immortal su queste arene») e i vv. 189-193 de La ginestra o il fiore del deserto («e quante volte / favoleggiar ti piacque, in questo oscuro / granel di sabbia, il qual di terra ha nome, / per tua cagion, dell’universe cose / scender gli autori»). Blasucci passa qui a rispondere alla lettera di Fortini del 16 febbraio, in buona parte dedicata a problemi esegetici della seconda Sepolcrale.

15 Discostandosi dalla lettura dei principali commentatori, nella lettera del 16 febbraio 1986, Fortini suggerisce che «da natura immortal», al v. 27 di Sopra il ritratto, possa significare non “da un essere divino”, bensì “dalla natura immortale”. I riscontri addotti da Blasucci non lasciano margini di plausibilità a questa supposizione. E tuttavia Fortini, curiosamente, pare dimenticarsi della risposta e torna sull’argomento, con più agguerrita insistenza, nella lettera del 17 settembre 1986. Blasucci replica il 28 dello stesso mese, non senza accennare garbatamente alla dimenticanza dell’interlocutore («ho il vago ricordo di aver già risposto al quesito che mi poni»), e ribadendo con ulteriori argomentazioni la solidità della lettura tradizionale.

16 La lettera di Blasucci, datata 19 febbraio 1986, passa qui a rispondere al biglietto scritto da Fortini il 20 febbraio e arrivato verosimilmente a Pisa qualche giorno più tardi: evidentemente, se le date sono corrette (e non credo ci sia motivo di dubitarne), la scrittura dell’ampia lettera di Blasucci – che del resto ha a tratti l’andamento del saggio, è insomma molto “scritta” e tutt’altro che improvvisata – si è protratta per vari giorni. Il biglietto di Fortini dà conto di un’agnizione: «Che il “e di fortuna il volto” di Saffo 39 venga dritto dal Tarsia “e di fortuna un volto” v. 11 del sonetto Già corsi l’Alpi non se n’è accorto nessuno?».

17 Nel commento del 2019, la fonte tarsiana dell’Ultimo canto di Saffo è registrata, al pari di due occorrenze dello stesso sintagma in Tasso e Marino, e senza segnalazione del lontano debito nei confronti di Fortini: Leopardi, Canti cit., p. 257. Il fatto è che fra il carteggio Blasucci-Fortini e la pubblicazione del commento per Guanda, intercorrono anni in cui, fra le altre cose, si sono sviluppate le cosiddette digital humanities. Sicché il riscontro acutamente colto dalla memoria di Fortini è finito a stampa – insieme a innumerevoli altri riscontri, più o meno pertinenti – nel commento Gavazzeni-Lombardi (che meglio si dovrebbe dire “commento LIZ”; e che Blasucci si è sentito in dovere di citare per il verso 39 dell’Ultimo canto di Saffo): cfr. G. Leopardi, Canti, a cura di F. Gavazzeni e M.M. Lombardi, Milano, Rizzoli, 1998, p. 233.

18 Nel commento del 2019, al celeberrimo v. 1 de L’infinito, la nota di Blasucci offre, a riscontro, sia il luogo petrarchesco, sia le due occorrenze del sintagma – già segnalate da Francesco Flora – in Galeazzo di Tarsia, cui fa allusione qui; e ne aggiunge una dall’Eneide di Annibal Caro (VIII, 533): cfr. Leopardi, Canti cit., p. 315.

19 Il riferimento, con implicita ironia nei confronti dell’esplorazione, in realtà non molto «attenta», di Emilio Bigi, è agli Atti del IV convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1976): E. Bigi, Leopardi e il petrarchismo, in Leopardi e la letteratura italiana al Duecento al Seicento, a cura del Centro nazionale di studi leopardiani, Firenze, Olschki, 1978, p. 250.

20 Giacomo Magrini, allievo e stretto collaboratore di Fortini, insegnava all’Università di Siena, vivendo a Pisa: poteva perciò agevolmente fare ufficio di postino. Pare evidente che il «malloppo» inviato a Fortini per il tramite di Magrini comprendeva le fotocopie di una prima versione dattiloscritta del commento alle Canzoni, o a alcune Canzoni. Come il tempo verbale lascia intendere («lamentavi»), la segnalazione dell’assenza delle «pagine dattiloscritte» su Nelle nozze della sorella Paolina e su A un vincitore nel pallone deve essere stata fatta (oralmente?) in un momento che precede le ultime tre lettere, in cui in ogni caso non si trova.

21 La citazione – «la migliore testimonianza / che possiamo dare della nostra dignità» – comportava originariamente due errori: il primo rimane («La» per «Le»: per analogia con l’italiano ‘testimonianza’, il francese «témoignage» è reso femminile); invece il congiuntivo «puissions» è aggiunto a macchina nell’interlinea, sopra una parola barrata: facile congetturare che la prima stesura avesse l’indicativo «pouvons» (il numero di caratteri barrati è compatibile; e dal punto di vista linguistico sarebbe alternativa del tutto accettabile). Verosimilmente, Blasucci deve aver citato Baudelaire a memoria; e poi dev’essere andato a controllare Les Fleurs du mal. La citazione preleva, dall’ultima strofa de Les Phares, I fari, parte del primo e l’intero secondo alessandrino: certamente è presentata come leggermente iperbolica e perciò autoironica; ma è anche rivendicazione seria di una «dignità», innanzitutto etica, dello studio minuto, “micrologico”, del testo letterario.

22 L’ultima frase (come anche, va da sé, la firma) è manoscritta.

23 Di foto di Gino Blasucci, mi consolo, ne ho scattate non poche il 23 maggio del 2019, il giorno del suo novantacinquesimo compleanno, in un altro ristorante, L’Orto de’ Pecci, a Siena. Lo abbiamo festeggiato, con altre amiche e un altro amico a lui carissimi – Tiziana de Rogatis, Marina Polacco e Niccolò Scaffai, oltre a Ida Campeggiani –, dopo una sua travolgente lezione montaliana (una lettura de Gli uomini che si voltano), di cui una studentessa senese mi ha scritto in questi giorni che resterà ricordo indelebile e fondamentale della sua formazione universitaria.