La rilevanza della ricerca di Giorgino sta nel fatto che l’attenzione ai testi poetici difende dal rifugio nell’astrazione, nelle categorie onnicomprensive, nelle abbreviazioni ideologiche. Questa distanza dal dire apodittico e definitorio permette una libertà dello sguardo che unisce con discrezione e rigore quella che potremmo chiamare “antropologia poetica” (alla maniera della declinazione vichiana della sapienza antica, nella seconda parte della Scienza nuova) con l’interpretazione di una singola poetica e delle sue relazioni con poetiche contigue e contemporanee. L’attenzione al movimento di un pensiero proprio del Sud – rappresentazione di natura e di cultura, radice e voce, rapporto con la luce mediterranea, con le sopravvivenze di una dispersa cultura contadina, libertà espressiva sottratta all’omologazione con modelli dominanti – si confronta, nel vivo delle singole esperienze poetiche convocate, con una raggiera di immagini e di presenze che stanno in un “altrove”, altrove che è linea di lontananza non estranea ma interiorizzata. Da qui il riconoscimento di quanto labili e spesso infondate siano, sul piano della cultura e dei saperi, le opposizioni tra provincia e metropoli, tra periferia e centro. Del resto, proprio nella nostra storia letteraria si è potuto vedere come nella marca anconitana del primo Ottocento il giovane Leopardi abbia potuto esplorare e reinventare meravigliosamente le forme del sapere in sotterraneo o talvolta esplicito dialogo con la moderna cultura europea. E, d’altra parte, allo stesso tempo, si è potuto constatare come nell’ europea e già imprenditoriale Milano un Manzoni abbia egualmente potuto partecipare dello stesso respiro. Da qui il semplicismo di chi provò a opporre, storiograficamente, un Manzoni europeo a un Leopardi tutto italiano se non provinciale.
Giorgino è consapevole che quel che conta nel divenire di una scrittura non è l’inscrizione territoriale, geografica – periferica o centrale che sia – ma il modo di sentire il rapporto tra radice e alterità, tra memoria d’appartenenza e immagini che vengono da altre terre, da altre culture. «C’è una linea – scrive in Eretico barocco – che collega le langhe brumose di Cesare Pavese agli acri fumi industriali di Torino, e quelli alle banchine di Long Island e agli sterminati spazi americani cantati da Walt Whitman…». Seguire il formarsi, l’annodarsi e il dissiparsi di queste relazioni – di sapere e di poetica – nell’esperienza di alcuni poeti del Sud significa rivisitare alcuni testi ed alcune posizioni ponendo delle domande: la disposizione ermeneutica si appoggia in questo caso alla biografia intellettuale. Se in Carta poetica del Sud l’interrogazione intorno allo “spazio meridiano” (definizione che muovendo dagli scritti di Valéry e di Camus si confronta con il noto saggio di Franco Cassano) coinvolge un arco di poeti che comprende Quasimodo e Cattafi, Gatto e Sinisgalli, Scotellaro e Bodini, per dire solo di alcuni, nel saggio Eretico barocco l’area è circoscritta al Salento, ma il movimento ermeneutico, cioè l’orizzonte del domandare che anima la ricerca, è lo stesso. I poeti salentini oggetto, ciascuno, di un’indagine serrata, sono cinque: Girolamo Comi, Raffaele Carrieri, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Carmelo Bene. In questo caso quel che unisce le singole esperienze, tra loro diverse per forme stilistiche e per esiti artistici, è non solo quel fondo comune di un’“antropologia poetica” propria di una terra come il Salento, ma il modo con cui nei differenti stili e nelle differenti avventure di pensiero e di scrittura fiorisce e agisce quel barocco propriamente salentino, un barocco le cui petrose invenzioni di forme leggere e sapientemente e fantasiosamente lavorate sono esposte alla luce e al vento, cioè a un’azione metamorfica che le esalta e corrode. Quasi in sintonia con questo barocco, sul piano delle poetiche, il gusto dell’eccesso, il piacere dell’estremo, il teatro di maschere che copre l’aspra malinconia del vivente, l’efflorescenza di figurazioni fantastiche che vorrebbe attenuare il dolore di un immenso vanire delle cose. In Eretico barocco Giorgino riserva a Carmelo Bene, in particolare all’ultimo Bene, quello de ‘l mal de’ fiori (2000), pagine di prelievi testuali, tessendo un commento dell’opera estrema, del suo funambolico plurilinguismo, della sua tessitura affabulatoria e insieme frantumata che persegue l’ultima avventura di un pensiero in dialogo con l’impensato e teso ad accogliere, nel vanificarsi del tutto, «le cose che non sono» (posso immaginare che in questa formulazione Carmelo Bene abbia avuto presente il Leopardi del passo zibaldonico «Tutto è male», dove compare l’espressione «le cose che non sono cose»).
Vorrei qui, rinviando il lettore ai luoghi di Eretico barocco in cui si definiscono i tratti delle singole esperienze di poesia, dire, al margine e in conclusione, qualcosa su ciascuno dei cinque poeti analizzati. Si tratta di piccole notazioni, un po’ compendiose e decisamente soggettive.
Nella poesia di Girolamo Comi ho sempre sentito un sincero, e però faticoso, tentativo di fare della meditazione religiosa e talvolta creaturale una forma del dire poetico, affidando al verso, con indugi di volute simboliste, il compito di disegnare quelli che potremmo dire “interni d’anima”. La distanza che sento da quell’esperienza è data dal fatto che su quel terreno o la vocazione, e la ricerca poetica, sono altissime, e in qualche modo non costruite, o si dissolvono nell’artificio, anche se vera è la temperie interiore e la passione intellettuale che le anima.
Nell’esperienza di Raffaele Carrieri c’è al centro il viaggio, la vita stessa come viaggio, e le sue mirabolanti rifrazioni di immagini, di memorie. Un nomadismo che diventa interiore libertà di sogno, riserva di figure che cercano la via della ballata, musica che nel ritmo conosce la consolazione. Certo, non c’è in lui quella tensione di stile, e quel rigore di ricerca espressiva, che si può vedere, per fare un esempio un poco analogo e contemporaneo, in un grande viaggiatore come Blaise Cendrars (al quale Carrieri dedica una ballata in cui pare specchiare sé stesso). E tuttavia nei suoi versi la facile cantabilità a tratti gitana è sempre venata di malinconia. Una poesia, la sua, vissuta anche come dialogo con i poeti e gli artisti (una poesia che rileggo e che amo è Il compianto per Garçia Lorca).
Vittorio Bodini è il poeta e il traduttore che, nelle sue diverse scritture, sento più vicino, più contemporaneo (spesso mi sorprendo, leggendolo, quanto sia prossimo il mio domandare al cuore del suo cercare). La poesia è per lui uno spazio di ricerca in cui si riverbera ogni altra ricerca, perché da sola, senza il tessuto di sapere e di dialoghi con la tradizione e con altre affini culture, rischierebbe vacui formalismi. La poesia non è mai data; quando accade è un dono che va rimeritato attraverso il lavoro sul linguaggio, attraverso la tensione verso un’unità tra il sentire e la forma, tra lo sguardo e il ritmo, tra la visione – interiore e della storia – e la parola. Limpida e strenua è in Bodini questa tensione.
In Vittorio Pagano la poesia è uno slancio generoso, assiduo, dolente nella sua avventurosa e dolce ostinazione. Slancio verso un dire che cerca di prendere le volute anche segrete del proprio pensare e i movimenti anche più inquieti della propria psiche. Ma questo movimento, che ha l’impronta di una vera “vocazione”, è come aggravato e intorbidato dalle forme predefinite di una tradizione che è lì pronta a prestare i suoi modi, le sue cadenze. Questa vocazione di poeta si svolge, proprio per questo, con limpidezza e con ottimi esiti nella traduzione dei poeti frequentati e amati, da Baudelaire ai simbolisti e “maledetti”.
Di Carmelo Bene, al di là dell’impetuoso e benefico vento che egli ha portato nel teatro, nella cultura e nella pratica teatrale, sia attraverso memorabili messe in scena sia attraverso il singolare, meraviglioso, lavoro sulla phoné, mi ha sempre colpito la fiducia nella parola, ma in una parola sottratta al consumo, ritrovata nella sua rigenerazione, sospinta fino al confine con il dicibile, sull’orlo dove il senso fa naufragio. Nella sua azione teatrale e nelle sue scritture ha mostrato le ipocrisie della rappresentazione, dell’illusione scenica e narrativa, e anche della comunicazione, di un mondo fatto comunicazione. Davvero, per Bene l’avanguardia – un’avanguardia consapevole del vuoto che la abita – coincide con il sapere e con l’azione che diciamo letteratura. E tuttavia proprio questa identificazione, che si fa gestuale e mentale insieme, persegue dei modi, nella scrittura anche poetica, che confidano senza riserve nella parola che deflagra e si dissemina, e per questo fa dell’artificio e della maschera e della finzione una scommessa di verità. Pensando a questo modo di vivere l’arte, certo fatto di passione e di azzardo, mi viene in mente, su una sponda diversa, e forse opposta, che è anche un modo altro di pensare l’essere avanguardia, la frase di Rimbaud: «la Poésie ne rythmera plus l’action; elle sera en avant». Da questo essere avanti nei confronti dell’azione, da questo “en avant” – del quale a un certo punto Martin Heidegger chiese a René Char una chiarificazione interpretativa – discende un’idea di poesia che sta prima e oltre l’agire. Perché la poesia stessa è vita: vita che accoglie il respiro delle cose e dei viventi.