che genera il sonno della ragione.
Stefano Carrai, La traversata del Gobi
È pienamente consapevole di questo meccanismo Seamus Heaney – che ha a sua volta, come poeta, praticato e rinnovato il genere pastorale –, in un suo saggio intitolato Egloghe «in extremis», la capacità di resistenza della pastorale (2010). Heaney vi difende la plausibilità di un ritorno all’ecloga virgiliana – naturalmente a certe “ragionevoli condizioni”. Studia una serie di poeti di oggi (fra cui, brevemente, anche Miklós Radnóti) e conclude che l’ecloga “sa tenere”. In Virgilio come in questi suoi epigoni «a dispetto della natura letteraria della rappresentazione, il patto con la vita e i tempi reali è stato mantenuto»: sia Virgilio che i poeti addotti a sostegno delle argomentazioni, superano quella che Heaney chiama «la prova, diciamo così, dell’onestà».2
1. Voci dal sottosuolo: Miklós Radnóti e il «Taccuino di Bor»
Alla fine di giugno del 1946 sulla riva del fiume Rábca vicino alla località ungherese di Abda, venne riaperta una fossa comune nella quale erano stati gettati una serie di deportati, ivi trucidati con un colpo alla nuca il 4 novembre del 1944.
Nell’impermeabile di uno di questi deportati fu trovato un taccuino. Una delle sue prime pagine formulava, in cinque lingue (ungherese, serbo, tedesco, francese e inglese), una preghiera: riconsegnare il quadernetto, contenente le liriche del poeta ungherese Miklós Radnóti, al professor Gyula Ortutay dell’Università di Budapest. È il cosiddetto Taccuino di Bor: un notebook serbo che non si sa come Rádnoti si fosse procurato, e sul quale il poeta, detenuto nell’area concentrazionaria di Bor in Serbia, scrisse dieci componimenti, fra il 22 luglio e il 31 ottobre 1944.
Quando il taccuino fu ritrovato, i primi cinque erano già stati quasi del tutto dilavati dalle infiltrazioni d’acqua. Ma per fortuna erano stati messi in salvo per un’altra via, su cui ritorneremo. Gli altri cinque (Radice e le quatto “cartoline postali”) si conservano solo nel taccuino.3 Fra i titoli, scorgiamo una «settima» e una «ottava ecloga». E le precedenti?
Il giorno della sua nascita, a Budapest, il 5 maggio 1909, Miklós Rádnoti (il cui originario cognome, denotante origine ebraica, era Glatter) perse la madre e il gemellino che veniva al mondo con lui.4 Nel 1911, il padre si risposò con Ilona Molnár ed ebbe dalla nuova moglie un’altra figlia, Ágnes. Ma nel luglio 1921, quando Miklós era dodicenne, morì. Soltanto allora Miklós apprese dei passati drammi familiari, e del suo vero grado di parentela con Ilona e Ágnes. Tre anni più tardi fu messo al corrente anche della morte del suo gemello. La serenità familiare era improvvisamente infranta, e Miklós impiegò molti anni per rielaborare quei lutti. La matrigna, in difficoltà economiche, affidò il ragazzo a uno zio materno (Dezső Grósz), che provvide al suo sostentamento fino agli anni Quaranta. Durante l’adolescenza, e soprattutto allorché a 16 anni le sue attività sportive gli causarono una frattura a una gamba, scoprì la lettura, e il fascino della fantasia e dell’invenzione. Nonostante la famiglia volesse orientarlo al commercio, iniziò a coltivare in prima persona la poesia e lo studio delle lingue: divenne padrone del latino, del greco antico e di inglese, francese e tedesco, che praticò anche come traduttore. Tuttavia, in quanto ebreo, non fu ammesso a frequentare lettere a Budapest. Iniziò allora nel 1930 gli studi di filosofia all’Università di Szeged, dove dovette spesso subire angherie e soprusi da parte di bande di studenti antisemiti. Nel 1929 uscirono le sue prime poesie in una antologia di nove giovani autori intitolata Bontà. Già ventunenne pubblicò la sua prima raccolta, Saluto pagano (1930): un titolo che intendeva sottolineare sia una sorta di orientamento indipendente e controcorrente, sia l’apprezzamento per l’antica poesia, in particolare pastorale, e non una distanza dal cristianesimo, che viceversa esercitò su di lui sempre un forte fascino. Da ora, il poeta si firmò sempre Miklós Radnóti. Anche la seconda raccolta, Canti di pastori moderni (1931) era una netta ripresa, fin dal titolo, dell’inclinazione alla pastorale: la silloge fu però presto confiscata, e gli valse una denuncia per oltraggio al pudore e alla religione, e una condanna (dicembre 1931), poi sospesa per l’intervento di autorevoli garanti, a 8 giorni di detenzione.5
Nel 1934 si laureò. In quanto ebreo, non poté esercitare la professione d’insegnante. L’11 agosto del 1935 si sposò con una splendida e delicata ragazza, Fanni Gyarmati (conosciuta nel 1926). Di Fifi e Mik, come fra loro si chiamavano, conserviamo alcune belle fotografie, alcune delle quali, particolarmente tenere, li ritraggono mentre prendono il sole su una spiaggia, in uno dei pochi momenti sereni di questa tormentata avventura biografica – credo durante il breve viaggio di nozze sul lago Balaton.
Nel 1937 (grazie al Premio Baumgarten ottenuto per la raccolta Cammina pure, condannato a morte!) fu a Parigi con Fanni. Vi prese parte a manifestazioni antifasciste, ammirò alla Esposizione Universale il Guernica con cui Picasso commemorava la città di Guernica bombardata da fascisti e nazisti il 26 aprile 1937, nel corso della Guerra Civile Spagnola (luglio 1936-aprile 1939).
Con il progressivo inasprirsi delle restrizioni antiebraiche6 fu perseguitato, e arruolato a più riprese per lavori forzati in appoggio all’esercito. Nel marzo del 1942 un decreto «sull’impiego degli ebrei per esigenze di guerra» istituì anche formalmente questi contingenti con il nome di «battaglioni di lavoro».7 La prima coscrizione coatta intervenne dal 9 settembre al 9 dicembre 1940, e una seconda dal 3 luglio 1942 a fine aprile 1943: questa detenzione terminò con umiliazioni e torture, e le pose fine una raccolta di firme dei suoi amici.8 Liberato, si convertì ufficialmente al cattolicesimo e fu battezzato, ma – come ci teneva a precisare – questo non accadde per opportunismo: sapeva bene che, sul piano delle persecuzioni, non ne avrebbe tratto alcun vantaggio.
Il giorno dopo l’occupazione tedesca di Budapest (avvenuta il 19 marzo 1944), Radnóti mise in salvo in una biblioteca i manoscritti delle poesie e dei suoi diari; ma si rifiutò di imboccare la via di fuga con documenti falsi, che pure gli era stata offerta. Il 19 maggio scrisse per l’ultima volta alla sua scrivania; è il drammatico testo che in seguito Fanni ha intitolato semplicemente Frammento. E infine il 20 maggio 1944, nelle consuete vesti di schiavo, fu definitivamente deportato con un «battaglione di lavoro» nella zona mineraria di Bor, in Serbia, e rinchiuso in uno dei sette campi di concentramento di quell’area (fra Bor e Žagubica): Heidenau. La supervisione era dei tedeschi, ma, dove gli ungheresi erano in prevalenza, la gestione dei prigionieri era assegnata a truppe magiare. Avveniva che a volte gli ungheresi fossero spietati (come il colonnello Ede Maranyi che comandava il Lager principale, di nome Berlin), al punto da costringere i tedeschi a intervenire per mitigarne la ferocia, e non logorare inutilmente la forza-lavoro schiavile.9 Ma il Lager Heidenau era sotto un tenente moderato e relativamente umano, Antal Szál. «Era concesso ai forzati di riunirsi la sera, e si formò attorno al poeta il “Radnóti-kör”, il “Circolo Radnóti”, in cui si leggeva, si faceva un po’ di musica, si dibattevano tematiche culturali e esistenziali, si leggevano poesie».10
Il 29 agosto 1944, in seguito all’incalzare dell’armata sovietica e dei partigiani di Tito, si evacuarono cinque dei sette campi della zona di Bor, per un totale di circa cinquantamila detenuti. Radnóti e i suoi compagni furono costretti a percorrere di corsa (con i famosi zoccoli anti-fuga in uso anche in altri Lager) i 30 chilometri fino a Bor, e chi si attardava o cadeva veniva ucciso sul posto. Due settimane dopo, nel Lager Berlin, Radnóti scrisse su questo episodio la celebre poesia Marcia forzata. Era il 15 settembre del 1944, e quello stesso giorno i prigionieri furono separati in due gruppi, destinati a ulteriore deportazione in Ungheria e Germania. Radnóti era assegnato al secondo, ma un ufficiale compiacente lo fece spostare nel primo. Per una estrema beffa della sorte, il secondo gruppo, che partì il 29 settembre, fu liberato il 30 dai partigiani jugoslavi: di esso faceva parte il sociologo Sándor Szalai, cui Radnóti aveva affidato trascrizioni delle poesie composte durante la detenzione in Lager, perché le portasse, insieme a sue notizie, alla moglie Fanni.
Invece, per il primo di quei due scaglioni, la marcia di trasferimento, iniziata il 17 settembre, assunse i caratteri di una marcia della morte. Strada facendo, contingenti di tedeschi si unirono alle truppe ungheresi, e le stragi di prigionieri si fecero ancora più frequenti. Radnóti riuscì in qualche modo a resistere e a scampare a varie esecuzioni di massa. Nella cittadina di Écs, in un soprassalto di umanità, gli aguzzini decisero di consegnarlo, insieme a 21 compagni come lui malati e ormai inabili alla marcia, alle cure dell’ospedale di Győr, che però li respinse, così come fece un altro ospedale di emergenza. Di conseguenza, gli addetti alla “consegna” – il sergente András Tálas (giustiziato nel ’47 per crimini di guerra) e i due militari nazisti che lo accompagnavano – decisero di andare per le spicce, e si liberarono dei malconci prigionieri trucidandoli nei pressi di Abda, e gettando i loro corpi in una fossa comune.
Alla riesumazione del giugno 1946, il corpo numero 12 fu identificato, grazie ai documenti rimasti nell’impermeabile, per quello di Miklós Radnóti; fu nuovamente sepolto il 25 giugno nel cimitero ebraico di Győr. Il 12 agosto, giunta sulla fossa dell’esecuzione, Fanni vi aveva scorto una pianta di cotone e, cogliendone un fiore, mormorò che riteneva fosse quella la vera tomba di Mik, assai più del monumento che si sarebbe preparato a Budapest, nel cimitero di via Kerepesi, a quello che era ormai divenuto uno fra i più importanti poeti della sua nazione.11 La terza e ultima sepoltura di Radnóti vi ebbe luogo quattro giorni dopo, il 16 agosto 1946, nella fossa 41 della sezione 41.
La matrigna di Miklós, Ilona, e la sorellastra Ágnes (anche lei autrice di poesie e di un romanzo), morirono in quello stesso anno ad Auschwitz. Uno stelo di cotone (riprodotto nei materiali distribuiti) è stato preso a simbolo della mostra commemorativa nel centenario della nascita all’Accademia Ungherese nel 2009. Fanni, personaggio ormai leggendario in Ungheria, si è spenta a 102 anni il 15 febbraio del 2014.
2. Le ecloghe di Miklós Radnóti
In quel prezioso e commovente documento che è il Taccuino abbiamo dunque sentito figurare titoli come Settima e Ottava egloga. Ma già da molti anni Radnóti aveva iniziato a porre mano a queste sue Bucoliche, diluite nel tempo. La Prima egloga apparve nella sua sesta raccolta di versi, Strada ripida, del 1938. Leggendola, ci si rende immediatamente conto di quanto Radnóti si sia allineato a Virgilio (fra l’altro ne inserisce a epigrafe un lamento delle Georgiche sui mali delle guerre civili: I 505 s.). Un «Pastore» apostrofa un «Poeta» che da qualche tempo non incontrava più in questo astratto ambiente “bucolico”. Dopo qualche rapido scambio sul paesaggio e la stagione, il Pastore interroga il Poeta su quanto ha sentito dire a proposito di una guerra e del comune amico Federico. Si tratta della Guerra Civile Spagnola, e Federico è Federico García Lorca: il Poeta ne evoca l’uccisione. Investito dalla dolorosa notizia, il Pastore lamenta che in un mondo governato da un ordine così perverso non vi sia spazio per i poeti, sì che anche Attila József «ne è morto».12
Radnóti ha scelto la forma della bucolica non per caso, ma proprio per riprodurre da vicino l’identica operazione di Virgilio. Un mondo di mitezza e innocenza si trova improvvisamente vulnerato dall’irruzione della violenza. Come, nel saggio ricordato, ha scritto Seamus Heaney sulla IX ecloga di Virgilio, anche qui «c’è un forte senso dell’ordine devastato» (p. 67). Questa violenza, ora come guerra civile, ora come semplice contrasto alla protesta da parte, invece, di un Ordine costituito, ha abbattuto García Lorca e József, due moderne declinazioni di Dafni, meraviglioso poeta-cantore, e principe dei pastori, la cui morte i pastori virgiliani lamentano nell’ecloga V.
Una volta affiorato lo stridente attrito fra storia e utopia, il personaggio del Pastore chiede al Poeta se vi sia ancora, in questo universo, uno spazio per il canto. Torna di nuovo alla mente l’osservazione
di Heaney sulla IX ecloga di Virgilio: «il tema più profondo è rappresentato dal chiedersi come difendere la bellezza in un tale clima di rabbia». Il «Poeta» di Radnóti, rassegnato all’aspro contesto, e pur già segnato dalla croce che indicherà al tagliaboschi il nuovo tronco da abbattere, tuttavia continua a gemmare scritti (come se fosse un albero, un faggio… o forse un pruno, piuttosto, come vedremo). E modula, in nota virgiliana, la sua predicazione di felicità per il «Pastore» che può vivere, relativamente sereno, in un «qui» fuori dal mondo, dove «c’è quiete». È, diversamente proposto, il celebre makarismòs di Melibeo a Titiro: fortunate senex… (ecl. I 46 e 51). La chiusa si allinea anch’essa con fedeltà a un altro tratto canonico dell’ecloga virgiliana: l’andarsi a posare sulla registrazione della sera, del momento in cui tutto torna al suo rifugio, e cala un sipario di stelle sui piccoli riti rimasti sereni – e, ugualmente, sulle piccole grandi tragedie – di una giornata pastorale.
Nel campo di prigionia, assistiamo nuovamente al calare di una sera analoga a tanti crepuscoli bucolici. Ma ciò che ora il Poeta della prima ecloga è costretto a registrare è molto diverso. L’ecloga si fa epistola (virtuale), lettera indirizzata «laggiù», verso i luoghi dell’utopia, i semplici regna in cui una Amarilli attende preoccupata. Di “utopico” resta solo la speranza, che ha preso ormai i contorni di un improbabile miracolo, e viene profilata scrivendo come si può dal cuore stesso della violenza prevaricatrice. È la Settima ecloga, il primo dei testi semicancellati sul Taccuino di Bor per le infiltrazioni, e uno dei testi che si sono pienamente salvati perché consegnati in copia a Szalai, destinato al rimpatrio con un diverso scaglione (la cito dalla traduzione di Edith Bruck):13
Vedi, imbrunisce, e l’atroce barriera di quercia
col fregio di filo spinato sta così sospesa che nel buio si dilegua.
Lo sguardo va lento oltre la cornice del campo,
la mente, la mente soltanto conosce la tensione del filo.
Vedi, cara, qui è così che si libera l’immaginazione, il sogno,
il bel liberatore, scioglie i nostri corpi sfatti,
e allora il campo si avvia alla volta di casa.
A brandelli e calvi, russando, volano i prigionieri
dell’alto della cieca Serbia verso il paesaggio di casa che si cela.
Paesaggio di casa che si cela! Ma c’è ancora una casa? Una bomba
non l’avrà colpita? È come quando ci arruolammo? Lo stremato
compagno di destra, quello a sinistra vedranno mai una casa?
Dimmi, laggiù c’è una casa dove ancora qualcuno intende l’esametro?
Senza strumenti, riga dopo riga, tastando,
scrivo i miei versi nella penombra così come vivo, cieco
come un bruco che striscia le sue dieci dita sulla carta,
il quaderno, la torcia, tutto mi fu tolto dagli scherani del campo,
non arriva più neanche la posta, solo la nebbia scende sulle nostre baracche.
Tra notizie allarmanti e cimici, qui nelle montagne convivono
il francese e il polacco, l’italiano chiassoso, l’ebreo assorto,
il serbo scismatico, febbricitanti e con i corpi piagati –,
nonostante tutto, vivono la stessa vita in attesa di una buona nuova,
una bella parola di donna, un destino libero e umano, una fine irraggiungibile,
aspettando il miracolo.
Sono disteso sul legno, un animale prigioniero, tra i parassiti,
tra un’onda e l’altra di pulci quando l’orda delle mosche s’è placata.
Vedi, è sera, un giorno di prigionia
e un giorno di vita in meno. Il campo dorme.
Sul paesaggio splende la luna e a quella sua luce il filo
spinato è nuovamente teso, dalla finestra seguo sul muro
le ombre delle guardie armate tra le voci della notte.
Vedi, cara, il campo dorme, i sogni frusciano,
chi si sveglia di soprassalto si rigira nel suo stretto lembo,
e di nuovo sprofonda nel sonno con il volto che si illumina. Io solo
sono sveglio, seduto assaporo la cicca in bocca invece di un tuo bacio
e il sonno tarda a portarmi conforto, perché
ormai non posso più morire né vivere senza di te.
Forse, se avesse avuto vita, Radnóti avrebbe fermato il ciclo delle sue ecloghe al numero di dieci, canonizzato da Virgilio.15 I suoi titoli si fermano all’Ottava. Ma in realtà scrisse anche la sua vera e propria ecloga «nona» (messasi in salvo con Szalai, come la Settima e l’Ottava). E questa nona ed ultima ecloga è proprio la già citata poesia scritta il 15 settembre del ’44 sul ricordo di quel primo drammatico trasferimento di campo, e perciò intitolata Marcia forzata. Si tratta di uno dei componimenti più celebri: ad esso e alle circostanze da cui fu originato, si è ispirato il film Forced March di Rick King, mai distribuito in Italia.
Simbolo fondamentale della IX ecloga di Virgilio è il faggio spezzato, emblema di uno spazio e di un mondo ineluttabilmente perduti (v. 9: usque ad aquam et veteres, iam fracta cacumina, fagos).16 Il faggio spezzato è il venir meno di quel frammento di Eden di cui poteva ancora godere il Titiro della prima ecloga: uno spazio recintato da una siepe su cui cade il salice, i cui fiori sono bottinati dalle api in un ronzio di delicata pasta fonica, fonosimbolico invito a un sonno sereno (ecl. I 53-55: hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes / Hyblaeis apibus florem depasta salicti, / saepe levi somnum suadebit inire susurro).
In Marcia forzata di Radnóti tutto è ormai spezzato, per opera della guerra. Il muro di recinzione, innanzitutto, che giace rovesciato al suolo. E poi in particolare, anche qui, un albero: il pruno. L’albero cioè dai cui dolci frutti, nel divino passato, la delicata pastorella-moglie ricavava le marmellate, lasciate a freddare sulla veranda, fra il ronzio delle api. Ma quello era il tempo della pace. Chissà se ancora esistono, nella concreta realtà, quei piccoli tesori la cui speranza ora motiva l’esausto deportato a rialzarsi, a non lasciarsi finire da un proiettile dell’impaziente aguzzino: la «fitta siepe», il silenzio che «prende il sole» nei «giardini sonnolenti», la stessa «casa dove tornare», le fronde, i frutti, Fanni in attesa, il lento disegnarsi dell’ombra col progredire del sole (come alla fine dell’ecloga di Titiro, ma non più alla sera, bensì al mattino):17
È pazzo, chi è crollato si rialza e di nuovo si incammina,
e con dolore errante muove ginocchia e caviglie,
eppure si avvia sulla strada come se avesse le ali,
il fosso lo chiama invano, non ha il coraggio di restare,
e se chiedi perché no? forse ancora ti risponde,
che è atteso da una donna, da una morte più saggia, una morte bella.
Eppure è pazzo, il mansueto, perché laggiù sopra le case
da tempo non gira più che vento bruciacchiato,
il muro è steso sulla schiena e il pruno è spezzato
e la paura è il manto delle notti in patria.
Oh, se potessi credere: non solo portare nel cuore
tutto ciò che ancora vale, e c’è una casa dove tornare?
se ci fosse! e come una volta sulla fresca veranda
ronzerebbe l’ape della pace, mentre si fredda la marmellata di prugne,
e il silenzio di fine estate prenderebbe il sole nei giardini sonnolenti,
e tra le fronde dondolerebbero frutti nudi,
e Fanni mi attenderebbe bionda davanti alla fitta siepe
e lentamente il lento mattino disegnerebbe l’ombra –
forse è possibile ancora? la luna oggi è così tonda!
Non passarmi oltre, amico, sgridami! e mi rialzo!
Bor 15 settembre 1944
La conclusione è nota. La fine degli amici che non si rialzarono è consegnata all’ultima poesia in assoluto scritta da Radnóti, durante l’ultima marcia di trasferimento fra le montagne, al suo taccuino – unica sede in cui è sopravvissuta. È la Cartolina postale numero 4, del 31 ottobre 1944 – scritta non lontano da quel lago Balaton su cui si era svolto il breve viaggio di nozze – che “illustra” l’esecuzione a freddo di un compagno anche lui artista: Miklós Lorsi, violinista, lui pure un «mansueto», cresciuto fra le illusioni e i conforti della bellezza. È una poesia che ferma direttamente in tedesco il sardonico commento dell’assassino sul cadavere («sta ancora saltando!»), e in un filamento di sconsolata consapevolezza intravede (purtroppo a ragione) un analogo, imminente destino per l’autore stesso:
Gli crollai accanto, il corpo era voltato,
già rigido, come una corda che si spezza.
una pallottola nella nuca, – Anche tu finirai così, –
mi sussurravo – resta pure disteso tranquillo.
Ora dalla pazienza fiorisce la morte –
«Der springt noch auf», suonò sopra di me.
E fango misto a sangue si raggrumava nel mio orecchio.
Szentkirályszabadja, 31 ottobre 1944
Note
1 Cfr. A. Traina, L’utopia e la storia. Il libro XII dell’Eneide e antologia delle opere, Torino, Loescher, 1997. In questa rapida sintesi, mi atterrò alla massima economia anche quanto a rimandi bibliografici. Rinvio per una più ampia illustrazione all’introduzione di Publio Virgilio Marone, Eneide, traduzione e cura di A. Fo, note di F. Giannotti, Torino, Einaudi, 2001.
2 S. Heaney, Egloghe «in extremis», la capacità di resistenza della pastorale, traduzione in parte revisionata di G. Morisco del saggio S. Heaney, Eclogues in extremis: on the Staying Power of Pastoral, intervento letto la prima volta il 6 giugno 2002 e poi pubblicato in «Proceedings of the Royal Academy», Section C, 103 n. 1, Dublin, University Press 2003, in R. Andreotti (ed.), Resistenza del Classico, Milano, BUR Rizzoli, 2010, pp. 61-78: p. 65; cfr. pp. 78 e già 61. Cfr. G. Morisco (ed.), Seamus Heaney poeta dotto, numero monografico della rivista «In Forma di Parole» IV serie, 27 n. 2, aprile-giugno 2007; contiene, sempre con testo a fronte, varie poesie, edite e inedite, d’interesse classicistico (e bucolico in ispecie: Virgile: Eclogue IX/Virgilio: Egloga IX, pp. 94-101; Bann Valley Eclogue/Egloga di Bann Valley, pp. 102-105; Glanmore Eclogue/Egloga di Glanmore, pp. 106-11) e alcuni importanti saggi, fra cui i testi del “discorso di Urbino” (Towers, Trees, Terrors, A reverie in Urbino, pp. 145-56/Torri, alberi, terrosi, Una rêverie a Urbino, pp. 157-69); della conferenza tenuta nel 1999 Us as in versus. Poetry and the World, pp. 171-84/Us come in versus. La poesia e il mondo: pp. 195-98; della conferenza Eclogues in extremis: on the Staying Power of Pastoral, pp. 219-39/Egloghe in extremis, la capacità di resistenza della pastorale, pp. 241-62).
3 Queste le date di composizione: Settima ecloga: luglio 1944; Radice: 8 agosto 1944; À la recherche: 17 agosto; Ottava ecloga: 23 agosto; Cartolina postale 1.:30 agosto; Lettera alla sposa: agosto-settembre; Marcia forzata: 15 settembre; Cartolina postale 2.: 6 ottobre; Cartolina postale 3.:24 ottobre; Cartolina postale 4.: 31 ottobre.
4 Uso come fonte principale la biografia in inglese sul sito a cura dell’Accademia delle Scienze Ungherese. Varie ulteriori informazioni si leggono in P. Varvesi, Miklós Radnóti. Un poeta contro il nulla, in due parti, ultimo aggiornamento 13 aprile 2013, che dipende in gran parte (come lui stesso dichiara) dalla biografia dell’Accademia, ma anche da altre fonti, una delle quali (citata al § [6]) è Z. Ozsváth, In the Footsteps of Orpheus. The Life and Times of Miklós Radnóti, Bloomington, Indianapolis, Indiana University Press, 2001. La madre si chiamava Ilona Grosz (1881-1909) il padre Jakab Glatter (1874-1921). Trattando la questione dei vari cognomi che Miklós impiegò, Varvesi (nel paragrafo [3]), segnala che Glatter era cognome denotante origine ebraica, mentre Radnóti era d’impronta magiara. E Miklós voleva essere considerato un poeta pienamente ungherese, non un poeta ebraico in lingua ungherese. Cfr. P. Varvesi, Miklós Radnóti, cit., al paragrafo [4] (per rendere meglio rintracciabili i vari luoghi che ne ho citato, ho introdotto la seguente numerazione per i singoli paragrafi del lavoro: Prima parte. Introduzione. [1] 1909-1925: I primi anni. [2] 1926-1930: I primi amori. [3] 1929-1933: Gli anni dell’università. [4] 1934-1935: La laurea, il matrimonio, la precarietà. Seconda parte. [5] 1936-1939: Funesti presagi. [6] 1940-1943: La crisi esistenziale, il lavoro forzato. [7] Marzo-settembre 1944: nelle mani dei nazisti. [8] Novembre ’44-giugno ’46: oltre la morte, il taccuino di Bor. Da una precedente pagina dello stesso sito si accede agevolmente a varie poesie di Radnóti tradotte dallo stesso Varvesi e da altri autori vari).
5 Le due poesie che causarono l’incriminazione sono Ritratto e Già il sole inrossa le bacche autunnali. Nella prima paragonava le proprie fattezze a quelle di Gesù. Questo il testo di Ritratto nella traduzione di Edith Bruck (M. Radnóti, Mi capirebbero le scimmie, a cura di E. Bruck, testo originale a fronte, Roma, Donzelli, 2009): «Ho ventidue anni. Così doveva/ apparire anche Cristo in autunno/ alla mia stessa età; non aveva ancora/ la barba, era biondo e le ragazze/ lo sognavano di notte!». Della confiscata Canti di pastori moderni riprese alcuni componimenti nella terza silloge Vento convalescente (1933); seguirono Novilunio (1935), Cammina, condannato a morte (1936) e Strada ripida (1938); nel 1940 pubblicò, trentunenne, l’autobiografia Ikrek hava (Il mese dei gemelli) e un’antologia di Poesie scelte (con 9 inediti del 1928-39). Nel 1946 Fanni curò il volume postumo Cielo di schiuma, contenente le poesie di detenzione salvatesi in copia; quelle riscoperte poco dopo nel Taccuino confluirono nella prima edizione integrale, pubblicata nel 1948. In italiano, dal 1958 hanno visto la luce varie antologie, delle quali l’ultima è Mi capirebbero le scimmie.
6 A partire dal 1922 l’Ungheria era sotto il regime fascista di Miklos Horty (cfr. P. Varvesi, Miklós Radnóti, cit., fine § [6]).
7 P. Varvesi, Miklós Radnóti, cit., §§ [5-6].
8 Risale al 16 marzo 1943 l’episodio più umiliante: «era in libera uscita e leggeva un giornale alla fermata del tram; non si accorse che gli si era messo vicino un ufficiale e trascurò di salutarlo. Quello lo trascinò in una vicina caserma, lo malmenò, lo fece rapare a zero e, tra le risate degli astanti, costrinse per un’ora lo “schifoso ebreo” a rotolarsi e strisciare nel fango del cortile. Il poeta ne uscì talmente prostrato che per un po’ smise persino di scrivere nel suo diario, su cui non riportò, né allora né mai, neanche il minimo accenno a questa vicenda» (P. Varvesi, Miklós Radnóti, cit., § [6]).
9 P. Varvesi, Miklós Radnóti, § [7], con fotografia di un’occasione di una delle punizioni praticata da Maranyi: i prigionieri venivano appesi a un albero per le braccia per la durata di quattro ore al giorno (poi venivano rinchiusi in gelidi sotterranei).
10 P. Varvesi, Miklós Radnóti, cit., § [7].
11 Rinvio a P. Varvesi, Miklós Radnóti, cit., fine del § [8].
12 L’Ecloga prima si trova sia in P. Varvesi, Miklós Radnóti, cit., sia in M. Radnóti, Mi capirebbero le scimmie. Federico García Lorca muore il 19 agosto 1936, fucilato certamente dai fascisti del CEDA (Confederazione spagnola delle Destre Autonome), durante la guerra civile spagnola, perché omosessuale e repubblicano. Attila József morì il 3 dicembre 1937 trentaduenne, suicida, sui binari di un treno. Risale al 1939 la poesia Giovedì tradotta da Varvesi online (Miklós Radnóti, cit., al § [5]), che segnala la dura situazione dei poeti, specialmente se di origine ebraica, sotto la persecuzione dei Nazisti.
13 Ne esiste anche online una di Pierluigi Varvesi, che si apre al paragrafo [5] della sua biografia.
14 S. Heaney, Ecloge «in extremis», cit., p. 77.
15 Per la Seconda egloga (1941): M. Radnóti, Mi capirebbero le scimmie, cit., pp. 101-103. Per la Terza (12 giugno 1941): P. Varvesi, Miklós Radnóti, cit., al § [6]. Per la Quarta (1943): M. Radnóti, Mi capirebbero le scimmie, cit., pp. 112-17). La Quinta egloga, scritta nel novembre del 1943, si presenta come un «frammento», dedicata alla memoria di György Bálint; va a gravitare nell’orbita da epicedio che fu della V ecloga di Virgilio (il canto in memoria di Dafni): vd. Miklós Radnóti, Marche force, poèmes; suivis de Le mois des gémeaux, choix, traduction du hongrois et avant-propos de J.-L. Moreau, Paris, Phébus, 2000, p. 113. Della Sesta egloga non si hanno notizie fra le carte del poeta, e qualcuno ha pensato che Radnóti intendesse classificare come tale la poesia cui poi Fanni diede titolo Frammento. La Settima (luglio 1944) e l’Ottava (prima stesura 22 luglio 1944, poi cassata e ricopiata quasi uguale sul Taccuino di Bor in data 23 agosto 1944) furono scritte nella detenzione finale. Nell’aprile del 1942 scrisse anche la poesia Vola la primavera che secondo le sue intenzioni doveva servire da «Preludio alle ecloghe» (lo specifica il sottotitolo: trad. in P. Varvesi, Miklós Radnóti, cit., al § [6]). Cfr. anche K. Paoletti, Il respiro etico della poesia, in «Dialoghi», 6.3, settembre 2006 (Il libro e i libri), pp. 94-98 (reperibile anche online), pp. 96-97 (non sempre adeguatamente precisa).
16 Maggiori dettagli in Publio Virgilio Marone, Eneide, cit., pp. XXVIII ss.
17 Nota giustamente Varvesi (Miklós Radnóti, cit., § [6 o 7]) che un accento pastorale torna a farsi cogliere anche (e perfino) nella seconda delle «cartoline postali», che riporto nella traduzione della Bruck: «A nove chilometri da qui bruciano/ le biche e le case,/ sul bordo dei prati sono seduti muti e allarmati/ i contadini che fumano la pipa./ Qui ancora si increspa il lago/ quando la pastorella immerge i piedi/ e il gregge ricciuto chino sull’acqua/ beve la nuvola».
18 A.M. Ripellino, Praga magica, Torino, Einaudi, 1973, p. 66 (più volte ristampato).