«Come ci siamo allontanati»
Veramente di qui non mi sono mai mosso
Luca Daino

Il vecchio ritornello l’abbiamo imparato: mala tempora currunt. E ci crediamo, come se avessero iniziato proprio ora a precipitarsi quei maledetti tempi, quasi che aspettassero noi per diventare ripugnanti: noi giovani, noi post-giovani, noi che quando eravamo giovani noi le cose non andavano così. Noi che la gioventù ce l’hanno scippata. E per fortuna che siamo quasi tutti degli storici, di riffa o di raffa, e che un telescopio sull’asse del tempo dovremmo pur saperlo indirizzare. Ma doveroso è anzitutto indignarsi: ogni giorno, nei messaggi inviati con lo smartphone e su facebook, a margine dei convegni, negli aperitivi e nelle cene con gli amici, durante i viaggi sui frecciarossa e anche in aeroporto in partenza per le vacanze – più o meno fuori stagione, più o meno esotiche. Certo sarebbe doveroso, quando è il caso, emettere qualche udibile gemito di dissenso, di critica assunzione di responsabilità: non troppo spesso, però, ché costa fatica e si rischia di rimetterci le già esili fonti di guadagno – o peggio, molto peggio, spicchi di carriera e capitale simbolico. E del resto dire di no proprio non si può: il mondo si è fatto le sue leggi e chi sono io per contraddirle (e magari pagarne il prezzo)? Ecco il volto garbato del conformismo, dell’indifferenza, dell’autoassoluzione.

Ma soprattutto è doveroso – visto che siamo vittime dei mala tempora che currunt – godersela come si può (ah questo sì), che una discreta trattoria la si trova ancora: e allora il consenso sfiora l’ecumenismo anche a sinistra. Che bello, noi sì che lavoriamo bene, noi sì che la pensiamo giusta, e come ce li meritiamo la stima e l’affetto che circolano tra noi. Noi, cioè io, i miei amici, i colleghi, i compañeros della rivista, la cricca militante avanguardista (ancora?). E sull’essere umano che al bar ci implora di comprare accendini e portachiavi ci interrogheremo un’altra volta. Ovvio: senza mai abbandonare il tenue stato di astratta indignazione in cui versiamo. E per fortuna che stiamo dalla parte dei buoni. Ingenuo io a pensare che si stesse male da quella parte, che fosse ardua la “ricerca”, la “verità”: macché, ci si sta caldi, dolcemente lamentosi e caldi. Verrebbe da citare (Fortini dixit) il «fintotontismo» di Raboni, con autocommento: «Amici, diciamo la verità: / di sentirci oppressi ci sentiamo felici; / ci importa adesso esser vittime, non esser liberi poi».

O forse no. Non è vero niente. E lo Strega 2014 serve appena per l’aperitivo: poi non si riesce proprio a mandarlo giù, a cavarci nient’altro. Perché se uno volesse dare finalmente un limite all’accondiscendenza verso di sé, prendersi la briga di emanciparsi dall’ombelico e tentare uno sguardo più vasto (per lo meno ultra-letterario, ultra-culturale, e oltre se stesso e il magico cerchio dei compari), forse la parabola dell’esistente gli ritornerebbe quella che è: cocciuta nel tallonare il suo disgustoso corso, e i tempora all’incirca – all’incirca – mala come fin qui son sempre stati. Anzi, fatta eccezione, ma è quasi tutto, me ne rendo conto, per le condizioni dell’ecosistema (del quale però ce ne sbattiamo, perché del caldino in casa e della bottiglia di plastica in borsa e di tutto il resto non se ne può proprio fare a meno), i tempora rischiano perfino di stare meglio del solito. Pur essendo meno danarosi dei decenni da bere e della grande abbuffata finita l’altro ieri: e quanta gente, serissima e irresponsabile, c’è in giro, nata fra i Trenta e i Sessanta, che del banchetto porta visibili i segni in faccia, nel corpo, nella mente?

A meno che sia falso o valga solo per il design, ma è da dimostrare, il fulmineo elogio della sobrietà: “less is more”. A meno che sia falso, e non lo è, che il capitalismo ci alleva da decenni a carota e bastone secondo le sue logiche, fin troppo semplici e fin troppo irrazionali, incurante degli sforzi e delle logiche, belle e integralmente umane, di chi vi si oppone. Il capitalismo – che non è il monolite di 2001, ma è fatto di uomini, siamo noi – finora ha elargito, bontà sua, qualche marginale risarcimento, non ha perso quasi nessuna battaglia, non ha fatto nemmeno un dietrofront.

E Fortini? Di Fortini bisognerebbe parlare con la pancia vuota, letteralmente – vuota per un occidentale, intendo: vuota di porcherie inutili. E vuota anche di astrattezze. Perché non ci serve contare gli «inverni senza Fortini», gli anni-luce che «ci siamo allontanati», congedarci dalla sua «memoria» che si è persa e magari la recuperiamo «dopodomani», sempre se non «morirà» prima… e le «generazioni» che non dialogano e ne disperdono l’«eredità» (ho estrapolato variamente dai titoli delle tante, importanti, meritorie iniziative fortiniane degli ultimi anni). Non ci serve il Fortini-barometro con cui fare le previsioni socio-antropologiche del tempo. Tanto più il verbo del monumento-Fortini suona incongruo all’attualità, tanto più tira una brutta aria. E di nuovo mala tempora incombono. Ma tanto incombono comunque.

Non è questa la fedeltà che dobbiamo a Fortini. Lui, al contrario di quel che vuole il refrain prevalente, è giovane, vigoroso, in perfetta forma. Perché tali sono le sue parole, ancora in grado di fare da bussola a chi voglia accogliere lo scopo e lo spirito con cui sono state scritte: decifrare la storia e la geografia del reale e muovercisi con il maggior grado di consapevolezza possibile. Avendo come perimetro lo stato di cose presente (e i suoi legami col passato), non la cronaca politica cafona dei giornali. E muoversi, costi quel che costi, con legittima, solenne, ben argomentata incazzatura, in primis contro se stessi. Le parole di Fortini sono, volendolo, la porta stretta da cui far passare i frammenti dell’etica, marxista e non, che ci resta e ogni genere di scelta quotidiana, in ogni ambito. Perché la favola secondo cui i nostri tempi renderebbero inattuali quelle parole è proprio soltanto una favola rassicurante e consolatoria. Vale precisamente il contrario: tanto più lo spirito del tempo le rende inattuali, tanto più quelle parole sono di profitto per chi mal sopporti questo tempo, indipendentemente dagli accidenti dell’autobiografia. Perché l’inquietudine, l’insofferenza verso il mondo, il peso sulle spalle dell’esistere, non arretrano di fronte al succedersi tragico e superfluo dell’attualità.

Uno come lui, con la sua verve e il suo estro raziocinante, uno per cui l’opzione intellettuale e letteraria sconfina sempre in opzione esistenziale (e non solo ideologica)… Uno che non sguscia tra le cose, il radar della strategia bene acceso, a ritagliarsi un posticino caldo, comodo, eminente… Uno così, che sopporta la responsabilità delle parole dette, che consuma il corpo a corpo col reale non come posa libresca, ma come urgenza quotidiana a discernere… Uno così ci serve ancora, ci serve sempre di più, anche solo come monito, specchio di quel che non siamo capaci e non abbiamo, a quanto pare, nessuna intenzione di essere. Fortini non è l’uomo che è stato, in carne e ossa, e ora è morto, arcigno e inumano, come piace ripetere a qualche suo ex amico, ai suoi «non sempre chiari compagni». Ma è vivo e, nei suoi libri, è modello di umanità, voce umanissima che si sporge da ogni rigo. Fortini è maestro, perché porta uno sguardo violento, inquieto e interrogante sul mondo, ancor prima che una certa visione del mondo e una certa maniera di appartenere al mondo della sinistra.

Certo, la sua idea politica è al punto più basso della parabola (ma la traiettoria del declino può sempre ridisegnarsi più giù), e a nessuno piace perdere, neanche a lui e neanche a noi. Senza nostalgie però, perché vince – per quel che riguarda noi e la sorte di Fortini – la gioia di avere a portata di mano la testimonianza di un ingegno eccezionale, tutto teso a rivendicare e a discutere la propria distonia rispetto a una realtà ingiusta e a opporre un no radicale a chi vi risiede con egoistico appagamento. Anche per questo, volendolo, la sua «memoria», che è il nostro presente, serve già oggi, non solo «dopodomani». Per questo, volendolo, da Fortini non «ci siamo allontanati» nemmeno di un passo.