Semën Chanin,
Sessione di ipnosi
Martina Napolitano

Semën Chanin, Sessione di ipnosi, a cura di E. Baglioni, Ancona, Pequod, 2020.

Sessione di ipnosi è davvero il titolo adatto per la raccolta poetica, tradotta da Elisa Baglioni, di Semën Chanin, inscindibile Giano bifronte della letteratura russofona di Lettonia: sì, perché il poeta e attore culturale, classe 1970, membro fondatore del gruppo artistico-letterario-multimediale Orbìta (1999), Semën Chanin è anche, al secolo, Aleksandr Zapol’, traduttore bilingue, ponte culturale e biografico tra due mondi, lingue e culture, quella russa da un lato, nella sua ipostasi policentrica lettone, e quella baltica dall’altro.

Ipnotica è la galleria di ventisei testi, molti dei quali tratti dalla raccolta bilingue No ne tem / Bet ne ar to (2017), che raccolgono un caleidoscopio di situazioni, voci, ma soprattutto oggetti, oggetti su oggetti che a difficoltà entrano in una sola «valigia di cartone» (o di carta, diremmo, di pagine), quella valigia che chiude di fatto il libro, chiudendosi suo malgrado a stento: «seduto sul petto di una valigia di cartone stracolma / spingendo convulsamente la chiusura / premendo con tutto il peso perché si chiuda una buona volta / […] eccola che scatta, non scatta?» (p. 73).

Instancabile sperimentatore – sia in qualità di membro del gruppo Orbìta, sia come singolo artista –, Chanin si presenta al pubblico con un profilo sfuggente, difficile da classificare, se non descrivendone, per l’appunto, la tendenza al costante collaudo di forme nuove. La sua ricerca si muove attraverso processi non meramente formalistici di recupero, ricontestualizzazione, montaggio, accumulo, sfida della normatività. Per quanto riguarda la grafica, ad esempio, ciò passa anche attraverso l’abolizione delle maiuscole e dei punti fermi; per quanto concerne invece la prospettiva, Chanin ci propone un io lirico disciolto e diffuso, quasi spersonalizzato, lontanissimo tanto dal mito romantico, quanto dall’io scisso e disorientato modernista. Inserendosi nel solco tracciato in prima battuta dalle avanguardie storiche del primo Novecento e poi soprattutto approfondito da quelle correnti devote alla sperimentazione risorte in seno all’underground dell’epoca tardo-sovietica, l’opera di Semën Chanin e del gruppo Orbìta costituisce un indubbio esempio delle diverse forme assunte dalla nuova arte verbale oggi in lingua russa. Anche il fatto che questi autori si muovano fluidamente tra russo e lettone ne è un originale marchio.

Le parole e i versi di Chanin raccolti in Sessione di ipnosi, così come nella sua precedente raccolta uscita in Italia, tradotta da Massimo Maurizio (Omissis, Miraggi, 2017), sono pietre scagliate in maniera apparentemente caotica che vanno a disegnare piccoli quadri fugaci, nature morte vivide ed emozionali, mai prive di un afflato più riflessivo e quasi metafisico. Proprio la frammentarietà, l’asciuttezza, la precisione dei dettagli quasi cechoviana rendono ardua la traduzione.

L’io dunque si riflette in questi oggetti, non di rado ci dialoga — nella vasca disteso, «discorrevo con l’acqua così assorto», il rubinetto a mo’ di cornetta (p. 61) — e se ne fa eco, finendo spesso per non riconoscersi più, fattosi altro da sé, prendendo paura nell’incontrare nuovamente la propria immagine «arcinota» (p. 67) riflessa sullo «specchio assonnato / eccolo che ti guarda all’improvviso» (p. 69).

La comunicazione interpersonale è rotta, frammentata, paradossale («hai detto tu // […] o è stata l’altra a parlare? // avete voci così simili / che sono indistinguibili», p. 49). O, talvolta, è del tutto fastidiosa, aborrita, in quanto spesso più simile a un «brusio insettoide di meccanismi / che muovono miriadi di zampette» (p. 15). Persino gli «ombelichi discinti» incontrati in spiaggia, oggetto di sguardi aperti a «nuove amicizie», «lanciano in risposta occhiate idrorepellenti», impermeabili, impenetrabili all’altro (p. 11). Meglio allora parlare con l’acqua nella vasca, la cui «tosse risuona sensatamente» perlomeno (p. 61), o chiedere alla tenda, con apprensione, «che succede, che ti prende?», giacché «tra me e la realtà c’è sempre una barriera» (p. 63), un verso forse reminiscente dell’achmatoviano C’è nell’intimità degli uomini un confine.

In alternativa, si può anche chiedere aiuto ai fondi del caffè sorseggiato nella notte, che «impudente mette a nudo / ancora un altro fondo» da interrogare (p. 27). Proprio come i fondi, che emergono solo alla fine, allo stesso modo la soluzione, la chiave di volta arriva solo in fondo ai componimenti a dare un senso a quanto descritto sopra in maniera più disordinata ed ermetica.

Si tratta di chiavi che possono offrire un supporto nello squarciare il velo che ricopre il quadro di elementi e situazioni descritti, ma che non risponde a domande più ontologicamente ricorrenti nella raccolta, in primo luogo la natura dell’umano, che si presenta nei componimenti poetici di Chanin come a vari stadi evolutivi. O, piuttosto, involutivi: c’è chi, letteralmente spiaggiato, rischia di ritrovarsi «mollusco» a causa di un colpo di sole (p. 11), e chi ha già raggiunto — e non son pochi — «una condizione di ormai totale / abbrutimento» (p. 19); c’è infine a chi, dopotutto, «la tomba […] andrà a pennello» dopo una vita di solo «tedio», «zanudstvo» nell’originale, la qualità precipua del rompiscatole pedante (p. 55).

Al contrario, in Sessione di ipnosi ci sono scheletri che, ora ricoperti di carne, escono dall’armadio e, intervistati alla tv, raccontano la loro sensazione di respiro artificiale, da sommozzatore, e parlando di «atmosfere» e «bar», si interessano piuttosto se questi siano «aperti» (p. 37).

L’imbar-barimento è tanto diffuso da richiedere un attento studio, una «ricerca etnografica» (p. 19); sarebbero addirittura necessari dei nuovi semafori, dato che qui il prescrittivo rosso pare essersi «spento per sempre e irrimediabilmente», lasciando tutt’attorno «vuoto» e «apatia» (p. 23): «i tempi son cambiati» e le vecchie teorie — come quelle sul «passato, il presente e il futuro» messe a punto da un certo professore — non valgono più e noi, dunque, ora «entriamo in confusione» (p. 21).

Davanti al decadimento umano, un appello al bipedismo è rivolto alle piante e agli animali: «portatevi in posizione eretta!» (p. 31). Sapranno loro esser più umani di coloro che trovano «imbarazzante, vedi / quando li tratti da esseri umani»? (p. 51). Nel frattempo, dal mondo d’un tempo, emergono a tratti degli oggetti consunti, quale «una scarpa corrosa dal sale» (p. 11) restituita da un’«onda gonfiabile» dal sapore ormai posticcio e artificiale (p. 9). Tutto è infatti sgonfiabile, finto, compresi i «piccioni che ce la mettono tutta per sembrare gabbiani», ed è inutile provare «ad assomigliarti il più possibile» «a una foto sfocata dell’anno passato»: già al primo incontro lei ti smaschererà, rivelandoti che comunque «ti immaginav[a] completamente diverso» (p. 9).

Un’edizione testo a fronte si presenta sempre come uno specchio deformante: l’originale si specchia nel suo riflesso adattato, nella sua apparente aderenza, nelle aspettative tanto appagate quanto deluse. Ci muoviamo così tra i caratteri cirillici di Semën Chanin e quelli latini di Elisa Baglioni, attenta traghettatrice tra le due sponde testuali, divise inevitabilmente da quello «specchio assonnato» che sgrana l’originale riproponendolo sotto altre spoglie, non per forza meno valide, vere.

Ci sono scelte che il traduttore italiano è tenuto a fare nel tradurre dal russo: riguardano, tra le altre cose, l’uso degli articoli, l’ordine della sintassi, il traducente sinonimico più adatto, per arrivare ai suoni onomatopeici («i puffete e gli splash», p. 11), alla musicalità intrinseca al verso, ai giochi di parole. Elisa Baglioni soppesa ciascuna scelta, in qualche modo dandone conto nella resa complessiva: «mesmerizziamo gli oggetti inanimati», traduce nel primo componimento, quello che offre il titolo alla raccolta (p. 7); l’assenza dell’articolo avrebbe dato adito a generalizzazioni, a inviti di carattere più generale, che invece attraverso questo determinativo gli tornano in qualche modo con i piedi per terra, legandosi più precipuamente al contesto della sessione di ipnosi. Mentre più naturali, all’orecchio italiano, sono le rese di sintassi inconsuete (soggetto-verbo, piuttosto che viceversa), ha un sapore più performativo, pragmatico, l’uso del presente in quelli che si immaginano come discorsi diretti o indiretti liberi (Erlebte Rede): «provo un enorme disagio / penso ora ti chiamo / eppure mi trattengo», in luogo di versi russi rigorosamente al passato (p. 51).

La traduzione spesso è costretta a sciogliere, a esplicitare l’originale. Perciò troviamo una risposta talvolta nella versione di Elisa Baglioni a quelle lacune lasciate appositamente vacanti nel testo originale di Semën Chanin: le spirali arrotate e vuote («zavitki») in cui risuona la «dolcezza della fermata» si fanno più chiari «labirinti» – un’immagine azzeccata se ricollegata anche all’idea dell’orecchio e le sue parti, quali il labirinto osseo, preposte, per l’appunto, all’ascolto (p. 15); l’ellissi del complemento oggetto nella richiesta «razogrejte požaluijsta» («riscaldi per piacere») si esplicita in «un tè caldo, per favore» (pp. 24-25).

Talvolta la traduzione si permette però di fare l’opposto e dunque nasconde tra le sue pieghe ciò che nell’originale appare più manifesto. Lo fa per ragioni intrinseche alla lingua italiana o ai suoi riferimenti culturali: le «vysokie golosa» («voci acute») sono così semplicemente degli «acuti» che stridono con il «rombo grave» che li segue poco dopo (pp. 14-15); il caffè doppio solubile («rastvorimyj») perde questa sua consistenza («il caffè doppio della notte», pp. 26-27), forse per la connotazione di eccessiva mediocrità che porterebbe con sé nel contesto tipicamente italiano.

La sonorità ricercata talora dell’originale si perde: «sorbendoci uno smoothie / entriamo in confusione» non rende il gioco tra «smuzi» e «smuščën» (letteralmente «smoothie»/«confuso», pp. 20-21), così come tra «miscela» e «ridendo» non c’è la correlazione fonica dei loro corrispettivi russi «smes’» e «smejas’» (pp. 38-39).

Lo stesso vale per i giochi di parole, in parte svelati nelle note ai testi, spesso originati dall’ambiguità semantica di alcuni vocaboli russi, tra cui, ad esempio, «probki», sia «traffico» che «tappi di bottiglia» (p. 22), giochi tuttavia talora anche arditamente ricreati in italiano dalla traduttrice come in mi hanno sorpreso nella più totale oscurità (p. 45). Alcuni quesiti traduttivi restano, infine, come insoluti: la «verëvka» che compare in due componimenti è sia «fune» che «spago» (pp. 7, 39); la resa dell’aggettivo sostantivizzato «syroe» come «crudo», in un contesto gastronomico come quello di il professore aveva alcune stravaganti, può facilmente suggerire altre suggestioni culinarie rispetto a quelle “crudiste” sottintese (p. 21); lo «strano posto con divieto d’ingresso» dischiude uno scenario diverso, in parte più normativo rispetto a quello dell’originale «nepoložennoe» («dove non si dovrebbe») (pp. 66-67); o, infine, i «bagnini […] / in topless» avrebbero forse potuto indossare, mutatis mutandis, non tanto «guanti neri da pugile» (p. 11), ma da «boxeur» («bokserskie», nell’originale).

In generale, la traduzione di Elisa Baglioni sa rendere quella frammentarietà e tendenza all’accumulo dell’originale, la vividezza e la precisione dei dettagli, l’ipnotico flusso del discorso rotto e riassemblato, i suoi pezzi riuniti in un puzzle eterogeneo secondo un principio più liberamente associativo che d’incastro logico.

Con la precedente raccolta poetica di Chanin uscita in Italia, la presente condivide un unico componimento, Lucrare sull’amore e sulla morte (Speculare nella versione di M. Maurizio, Omissis, 2017, pp. 92-95). Un rapido raffronto permette di apprezzare le scelte operate dai due traduttori. Elisa Baglioni si distacca in più punti dall’originale, puntando sia sulla resa ritmica, quasi metrica («sull’amore a grandi lotti (poco importa se si bagna)» E.B. / «sull’amore – in grande quantità (se si è bagnato non importa)» M.M.), che sull’adattamento anche idiomatico («ma la tomba ti andrà a pennello» E.B. / «ma nella tomba ti sentirai perfettamente a tuo agio» M.M.). Il «clown» di M. Maurizio è qui un «pagliaccio», mentre la «connaturata tediosità» è il «tedio che ti contraddistingue», o ancora l’espressione, calcata sull’originale, «senza entusiasmo apparente» («bez vidimogo vooduševlenija») è più libera nella versione di E. Baglioni, «visibilmente indifferenti». Chiudono due versi che sono resi da Maurizio in un’atmosfera eccessivamente arcaica rispetto all’originale («žit’, milye druz’ja, / ne chočetsja poka mne»): «cari miei amici, di nessun desio / di vita davvero non ardo». Tutt’altro tono, quasi eseniano, connota invece la versione di Elisa Baglioni: «di vivere, miei amici cari, / al momento non ne ho voglia».