Poeta e scrittore, traduttore dall’italiano, dall’ungherese e dal tedesco, il serbo Oto Horvat, con il suo primo romanzo, Sabo si è fermato, si inoltra in un percorso esperienziale inedito e complesso: dare forma e senso a un vasto insieme di frammenti – riflessioni, immagini di luoghi e di volti, frasi raccolte ma fra loro sconnesse, scene di vita vissuta in momenti diversi del passato – accostati fra loro e uniti dal desiderio di affidare alla pagina scritta il ritratto della moglie A. prematuramente scomparsa. Nella scrittura letteraria si materializza l’alter ego di Oto Horvat, la sua coscienza vicaria, chiamata ad affrontare, appunto nelle sembianze di Sabo, l’elaborazione del lutto e il persecutorio senso di colpa che offusca la reminiscenza di ogni evocazione di A. e di ogni ricordo del padre: la loro morte lo ha indotto a persuadersi di aver mancato, di non aver capito, soprattutto di aver tradito. Ed ecco che questo breve, ma intenso, romanzo idealmente diviene una sorta di terapia psicoanalitica condotta attraverso trentadue incontri con un interlocutore che potrebbe essere tanto un ignoto e distaccato analista, quanto un ulteriore e recondito Io, spietato antagonista interiorizzato dallo stesso Sabo. E il dialogo, in apparenza asimmetrico, e strutturato in un’alternanza di domande e risposte che sembrano incoerenti, si rifrange nei molteplici io narranti – prima, seconda e terza persona singolare – che determinano un continuo cambiamento della prospettiva e della distanza attraverso le quali l’Autore, il personaggio e il lettore concorrono a esplorare «i recessi più profondi della […] dimensione privata dell’Autore», come osserva Ljiljana Banjanin nel contributo introduttivo Un dialogo ininterrotto con il passato.
La prima esortazione «Inizi signor Sabo» e l’ultima, fondamentale, domanda «Ha paura di dimenticarla, se continua a vivere?» segnano, rispettivamente, l’inizio e l’interruzione (o forse il termine) del viaggio che Sabo compie nel vasto spazio della sua interiorità. Un viaggio che, attraverso le sollecitazioni del ricordo, rinvia a un’esperienza esteriore e concreta, annunciata, proprio all’inizio del romanzo, dall’immagine della valigia, ottenuta in prestito dal padre, che a sua volta l’aveva usata nei suoi rari e brevi trasferimenti e nelle consuete vacanze estive con la famiglia. Logorata dal tempo e dall’uso, e divenuta una sorta di sostituto simbolico del padre, la valigia che Sabo non riesce a trasformare in vera immagine letteraria – perché ignaro dei termini specifici che ne designano le componenti – diviene elemento rivelatore di una realtà drammatica: l’arte non gli procura alcuna libertà e lo fa sentire come «un calabrone che si lancia contro il vetro della finestra dietro la quale si scorge il cielo azzurro l’istante prima di un lento tramonto». Molte le città, molti i Paesi che Sabo richiama alla memoria: Novi Sad, Firenze, Budapest, piccoli borghi della campagna ungherese o del corso del Meno; ricorrente il riferimento al treno, come luogo di riflessione, di esperienza conoscitiva del sé più profondo, anche di incontro: nella tratta Norimberga – Budapest la suora cattolica Ulrike, con la quale Sabo intrattiene, riluttante, una breve conversazione, si congeda da lui con una frase che, nel ricordo, gli appare profetica: «la capisco: lei viaggerà ancora a lungo». Ma il viaggio più impegnativo è il percorso attraverso il quale Sabo penetra la fisicità della sofferenza, dinanzi alla quale «la metafora fallisce». Il lutto rende Sabo incapace di percepire il proprio stesso vivere, mentre il dolore si identifica e si narrativizza nella finzione: il protagonista avverte un’incolmabile distanza fra sé e le proprie azioni; tutto gli appare finzione e soltanto il lutto è cosa vera e tangibile; «soltanto l’orrore è stabilmente appiccicato al tuo corpo e ai tuoi pensieri». E tuttavia anche l’attenuazione dell’intensità del dolore è motivo di angoscia: se il dolore allenta la sua morsa, contestualmente il ricordo di A. sbiadisce, generando in Sabo un altrettanto angoscioso sentimento di colpa. Ma alla perdita di ogni aspirazione, alla dispersione dei ricordi, non più riconducibili al tutto, alla scissione dell’io e della memoria si contrappone, indizio inatteso e prezioso della riaffermazione della vita, la fuggevole evocazione di una immagine ammirata insieme ad A. al Museo della Fotografia. Per fermare il ricordo di A., per attenuare la sofferenza generata dalla scomparsa, per ristabilire l’essenziale identificazione fra il proprio sé e le proprie azioni, Sabo compie l’estremo sforzo di ricostruire meticolosamente la biografia di A. Una sorta di deposizione, nella quale ogni informazione, introdotta dal verbo «so» – che richiama alla mente il laconico e ripetuto «mi ricordo» dell’omonima autobiografia di Georges Perec – costituisce una prima ma indispensabile tessera per dare forma, a poco a poco, al mosaico della storia di A., preannunciata dalla vicenda terrena dei nonni e dei genitori.
A. è, innanzi tutto, nei suoi soprannomi di bambina Švabica (la tedesca), Pcelica (Vespina), Maslačak (Sofficina); è nei ricordi che il protagonista tenta di mantenere vivi e di collegarli l’uno all’altro: sogni narrati da A., episodi della sua infanzia, nomi di amiche e di parenti, idee, pensieri, consuetudini; è nei frammenti di conversazioni, di segreti confidati, di reticenze; è, infine, nei fotogrammi di vita vissuta insieme. E ancora una volta Sabo si dice «traditore» per non averle detto, neanche nell’ultimo suo istante di vita, che l’amava.
Proprio il consapevole e saldo recupero della memoria di A., l’interiorizzazione della sua biografia con la ferma accettazione di quanto egli ignora di lei, di ciò che teme o non comprende, permette a Sabo di tornare a una quotidianità consapevole e vissuta appieno. L’attraversamento della soglia che separa lo stato di inerzia spirituale dalla condizione di ritrovata forza vitale avviene in un momento epifanico, che pare concludere il percorso di Sabo. Svegliatosi, in treno, da un breve sonno nuovamente Sabo è colto da una sensazione di straniamento: gli pare di aver smarrito ogni riferimento di tempo e di luogo e A. potrebbe non essere morta. Coglie un insieme indistinto di voci e di lingue e avverte, potente, il sentimento di nostalgia, forse per «il tempo di A. che lo sta aspettando».
Un «topos poeticamente inflazionato», quello «della donna un tempo amata e ora non più in vita» precisa la curatrice Ljiljana Banjanin – che tuttavia si sottrae nella scrittura non salvifica di Oto Horvat, in quanto la poesia e la letteratura smarriscono il proprio senso dinnanzi alla morte – a ogni espressione di patetismo. Un tema che questo romanzo, marcatamente mitteleuropeo, già pubblicato in tedesco, polacco e sloveno, condivide con Il pappagallo di Flaubert (Flaubert’s Parrot) di Julian Barnes, edito nel 1984. Anche qui l’alter ego dell’autore, il dottor Geoffrey Braithwaite, compie un viaggio – nei luoghi flaubertiani della Normandia – rivelando, al termine, la profondità del dolore per la scomparsa della moglie Ellen. Anche Braithwaite-Barnes, proprio come Horvat-Sabo, scopre l’inadeguatezza delle parole per raccontare il dolore «le parole non sono quelle giuste, o meglio, le parole giuste non esistono […]. La scelta di preghiere è limitata: un farfugliare di sillabe».1 Il tentativo di raccontare il lutto si realizza, anche per lo scrittore inglese, mediante una triplice rifrazione dell’io narrante, che dà voce al racconto autobiografico, alla vicenda umana di Flaubert e al ritratto di Ellen. È forse soltanto il poeta o lo scrittore che, pur consapevole dell’impotenza e dell’inadeguatezza della parola, sa rivivere la tragica esperienza della perdita per offrire alla comunità umana il conforto del dolore condiviso, della sofferenza incarnata nella parola.
1 J. Barnes, Il pappagallo di Flaubert, trad. it. di S. Basso, Torino, Einaudi, 2015, p. 183.