Capitalismo, sacrificio, equivalenza
Su Luigino Bruni, Il capitalismo e il sacro
e L’arte della gratuità
Andrea Cavazzini

Il discorso attualmente dominante ruota intorno alla Catastrofe, orizzonte globale delle numerose crisi e destrutturazioni di quanto forma il quadro della vita sociale ordinaria. Dalla diffusione di questo discorso, tuttavia, non sembra emergere una dinamica adeguata per quanto è della modificazione dei comportamenti che riproducono e accelerano le tendenze catastrofiche. Questa situazione ha forse a che vedere con la natura dei rapporti economici capitalistici, che sembrano sempre più costituire una seconda natura capace di permeare le condotte, i pensieri e financo i sogni degli uomini.

Da dove viene questa potenza? Recensendo un libro sulla memoria dell’egittologo Jan Assmann, Michelangelo Notarianni ricordava che il mercato, a differenza di altre grandi istituzioni proprie alla lunga durata della storia umana, non è stato pensato e voluto da alcuna società:

Questa grande creazione artificiale, che non è frutto di progetti e di intenzioni autocoscienti, porta dentro di sé l’aspetto inquietante di una naturalità ancora in qualche modo selvaggia eppure inequivocabilmente umana.1

Il lavoro che viene svolgendo da diversi anni l’economista Luigino Bruni può esser visto come un prolungamento, ed un emendamento, di questa riflessione. Bruni è uno storico del pensiero economico, editorialista di «Avvenire» e impegnato nel movimento dell’economia civile: un quotidiano e un movimento che sviluppano una riflessione profonda, in prospettiva cristiana, sulla vita economica e sul capitalismo. I due libri che prenderemo in esame sono composti da saggi che rielaborano gli interventi di Bruni su «Avvenire». In questa sede, non esamineremo la ricostruzione da parte di Bruni di un’etica mercantile – detta “capitalismo mediterraneo” – originatasi nei comuni e negli ordini mendicanti medievali e in qualche modo alternativa al capitalismo neoliberale attualmente trionfante.2 Prolungamento ed emendamento: a un lato, secondo Bruni, il mercato è stato voluto e difeso in quanto istituzione e pratica etica lungo un percorso che va dall’Antico Testamento al francescanesimo medievale e alla Riforma; dall’altro, ciò che nessuno ha voluto e che si è sviluppato in modo “naturale” in seno a tali pratiche ed istituzioni, è il capitalismo. Quest’ultimo informa la logica sociale oggi dominante, pur sottraendosi alla coscienza chiara del proprio funzionamento: situazione evidentemente di grande pericolo, cui si deve opporre la ricostruzione in certo senso archeologica, non solo della provenienza del capitalismo, ma anche di quelle forme di vita da cui esso è sorto ma che, contrariamente ad esso, hanno potuto essere volute e difese in quanto fattori della dignità umana. Com’è noto, Marx insiste sovente sul Doppelcharakter, la duplicità o lo sdoppiamento, delle categorie fondamentali della critica dell’economia politica. Valor d’uso e valore di scambio, lavoro e forza-lavoro, capitale variabile e lavoro vivente… Ognuna di queste categorie ne contiene un’altra che le resta ad un tempo inseparabile ed eterogenea. Tale la coppia evocata dalla prima pagina del Capitale: «La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci».3 Un dualismo è quindi affermato tra la ricchezza in generale, che è un insieme di valori d’uso, e la forma elementare in cui si presenta la ricchezza capitalistica, che è appunto la merce. In sé, la ricchezza-valor d’uso non esiste solo nelle società capitalistiche, ma è un fenomeno socio-antropologico dalla lunghissima durata, in certo senso immanente alle capacità umane di attività e di godimento. Ma anche nelle epoche che precedono la produzione capitalistica la ricchezza non è un fenomeno semplice. Bruni ce lo ricorda per quanto riguarda la concezione della ricchezza nell’Antico Testamento. Da un lato, la Bibbia ebraica fa della ricchezza una benedizione, la associa alla libertà e al riscatto, alla positività di un’esistenza protetta contro la morte e il dolore.4 Dall’altro, tuttavia, la ricchezza può esercitare una seduzione pericolosa, poiché essa «somiglia davvero alla divinità»:

Nel Vangelo è stato Gesù stesso a metterla in concorrenza con Dio – «Nessuno può servire due padroni: Dio e Mammona», perché la ricchezza promette una sua immortalità. I Vangeli sono pieni di monete, denaro, mercanti e ricchezze perché sono le cose più simili (e più diverse) a quel regno dei cieli annunciato da Gesù.5

Quanto all’Antico Testamento, nei canti sulla città fenicia di Tiro, il profeta Ezechiele condanna la «natura idolatrica» della ricchezza, che fa dire alla città dei mercanti: «Io sono un dio, siedo su un trono divino in mezzo ai mari».6 E, alla fine del Libro cristiano, nell’Apocalisse:

«Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla» (3, 17). Questa frase contiene la chiave di lettura di molta critica profetica ed evangelica alla ricchezza: «Non ho bisogno di nulla». Il grande inganno, l’illusione della ricchezza sta infatti nella sua seducente offerta di autosufficienza, di indipendenza, nell’illusione che grazie ad essa non avremo più bisogno di nessuno.7

L’indipendenza, l’autonomia, la libertà: sono le radici di

un paradosso che ci accompagna da tremila anni, annidato nel cuore della Bibbia [che] da una parte critica la ricchezza perché essa si presenta agli uomini come l’alternativa a Dio, e dall’altra usa parole e simboli della ricchezza per descrivere la benedizione di Dio e la promessa.8

Vi è già quindi uno sdoppiamento nello statuto della ricchezza che riguarda il rapporto con la positività e la gioia dell’esistenza terrestre. Da un lato, gioia e positività, libertà e indipendenza, manifestano nella vita umana la benedizione sovrabbondante di Dio; dall’altro, rischiano di escludere ogni manifestazione della Grazia rinchiudendo l’orizzonte umano entro l’autosufficienza del possesso materiale. Se si volesse sviluppare questo ragionamento oltre le analisi di Bruni, si potrebbe rinviare a quanto Giancarlo Gaeta osserva a proposito di un passaggio della Lettera ai Romani in cui l’amore del prossimo è associato ai seguenti comandamenti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai» (13, 8-10).9 Nota Gaeta che l’elisione degli oggetti concreti del desiderio rinvia a Esodo 20, 17, in cui si proibisce di desiderare i beni (tra cui le donne e gli schiavi) del prossimo, inteso come «colui che ci sta immediatamente di fronte sciolto da ogni vincolo parentale, e perciò non immediatamente oggetto di obbligo».10 Si vede allora una conseguenza immediata del fatto che l’amore delle ricchezze rischia di escludere la benedizione di Dio. Un tale amore infatti può condurre a divenire l’oppressore del prossimo, a sottrargli tutto ciò da cui dipendono libertà e felicità. Desiderare i beni esclude quindi l’amore del prossimo; ma l’amore del prossimo è strettamente legato a quello di Dio. Secondo Gaeta, in Levitico 19, 2-18, i precetti verso il prossimo sono fondati nella «partecipazione alla santità stessa di Dio»;11 i comandamenti e i precetti etici tendono quindi a convergere e a concentrarsi nel principio – non più propriamente etico nel senso delle leggi e delle regole morali e sociali – di un amore incondizionato in cui, per l’uomo, il prossimo diventa segno e condizione dell’assimilazione alla santità di Dio:

Per l’uomo l’amore di Dio è, sperimentalmente, nell’amore del prossimo, altrimenti, come si legge nella Prima lettera di Giovanni, è un amore menzognero, perché è nel fratello «che si vede» Dio [Un solido filo collega il decimo comandamento] al precetto dell’amore del prossimo: dal diniego secco di desiderare i beni del prossimo all’amore del prossimo come imitazione della santità di Dio.12

L’autosufficienza delle ricchezze, e il desiderio di esse, sono quindi una deviazione, un détournement diabolico, dell’amore di Dio e della sua opera, non già perché occorra disprezzare e negare la libertà e il godimento della vita terrena, ma perché quest’ultima non è amabile se non attraverso l’amore del prossimo e non solo di se stessi.

Secondo Bruni, il senso ambiguo della ricchezza, ad un tempo manifestazione e avversario della Grazia, continua a risuonare nelle pratiche economiche nate in seno alle comunità cristiane e poi alla cristianità in quanto matrice della civiltà europea. In un primo tempo, le comunità cristiane non propongono un approccio differente da quello della filosofia morale dell’antichità pagana, fondato su un apprezzamento moderato delle ricchezze materiali e sulla raccomandazione della beneficenza per i ricchi. È nei monasteri nati dalla regola di Benedetto da Norcia, quindi nel quadro di un crollo radicale delle strutture civili e sociali, che viene rivoluzionato il senso dell’attività, se non industriale, quantomeno industriosa nel senso della produzione di valori d’uso:

Il monachesimo è una radice dell’economia di mercato. Abdicando alla logica economica ordinaria, monaci e monache diedero vita a esperimenti evangelici che hanno generato anche l’economia europea.13

Qual è la “logica economica ordinaria”? Per la civiltà greco-latina, essa si fonda sulla svalutazione radicale dell’attività poietica, cioè volta a fabbricare i mezzi e i beni propri all’esistenza materiale:

Il monastero si presentava, fin dall’origine, come un’officina (officina divinae artis). La stessa vita del monaco era vista come apprendimento di un ars, quindi di un mestiere, di una professione […]. Nel mondo antico lavoravano gli schiavi – «Tutti gli artigiani, inoltre, esercitano un mestiere volgare: non c’è ombra di nobiltà in una bottega» (Cicerone, De officiis) […]. Quando un contadino o un artigiano analfabeta vedeva i monaci lavorare, fare cioè le stesse cose che faceva lui, capiva immediatamente che il suo lavoro […] non era faccenda per servi e schiavi. La fede nell’Incarnazione aveva insegnato ai monaci che toccare la materia non è qualcosa di impuro, che quindi si addice solo allo schiavo […]. Solo chi ha usato le mani per produrre pane e vino sa cosa è veramente l’eucarestia, perché intuisce che quei beni che sull’altare cambiano per l’azione efficace della parola del sacerdote sono, da un altro punto di vista vero, sempre le stesse cose buone nate dalla vite e dal lavoro dell’uomo.14

La convertibilità del materiale e dello spirituale, possibile nella logica cristiana e biblica (ma non nel “platonismo” diffuso del mondo pagano) attribuisce quindi un valore essenziale alla produzione e al consumo dei valori d’uso: è l’adozione di una logica della duplicità o del raddoppiamento, che fa delle cose materiali le figure delle realtà spirituali (e, naturalmente, viceversa, il trascendente compiendosi nelle forme lavorate della materia). Questa logica che cerca di stabilire delle simmetrie e delle corrispondenze tra differenti piani della realtà è all’opera anche nell’organizzazione dell’attività quotidiana dei monasteri:

Il vero colpo di genio antropologico e spirituale del monachesimo fu intendere e praticare la preghiera e il lavoro come momenti dell’unica liturgia della regola. Nei monasteri il tempo del lavoro non è tempo sottratto alla preghiera, né il tempo della preghiera è sottratto al lavoro […]. Il lavoro è attività dello stesso valore della preghiera perché è parte della stessa liturgia e quindi della stessa vita, sono dentro la stessa regola. Questo allora significa che il lavoro vale in quanto lavoro, ha un valore intrinseco sebbene sia strumentale alla vita.15

Il valore d’uso e la sua produzione non sono quindi la part maudite della vita sociale come per i Greci e i Romani, l’Altro assoluto dal cui esorcismo perpetuo deve sorgere l’equilibrio precario della Civiltà e del Valore (è questo schema che si ritrova in Nietzsche ma anche nella critica di Hannah Arendt a Marx). Ciò che vale è immanente alla vita materiale e alla sua riproduzione, e queste ultime sono istituite dai valori di cui sono i “supporti” necessari. Vi è in ciò una profonda critica della divisione del lavoro e della separazione dell’umanità in caste e ruoli rigidamente separati, senza però che questo annulli la logica autonoma delle differenti funzioni. Tuttavia, questa potente sintesi cristiano-monastica non è senza presentare dei rischi, proprio in virtù del principio liturgico che la rende possibile:

Grazie alla visione liturgica del tempo e della vita, una parte quantitativa del tempo di un giorno può diventare, qulitativamente, l’eternità. È infatti tipica della liturgia la capacità di creare un altro tempo: bucare il tempo-quantità e toccare l’infinito, farci tornare a passeggiare, tutti i giorni, nel giardino dell’Eden […]. È questa sorta di «vita eterna» terrena che ha sempre affascinato e attratto molti nei monasteri. Un’esperienza così inebriante che divenne la grande tentazione del monachesimo, perché qualche volta ha fatto coltivare il desiderio di essere immortali come Dio.16

Allora, anche l’esperienza della trascendenza del lavoro e della materia si divide tra espressione della benedizione nella/della vita terrestre e campo aperto ad una volontà di potenza diabolica, nel caso specifico al desiderio di una razionalizzazione assoluta delle condotte in funzione dei compiti regolamentari. Infatti, secondo Bruni, l’incorporazione del lavoro alla trascendenza liturgica può essere vista come una delle radici del management “totalitario” del capitalismo avanzato:

Diversamente dalle fabbriche tayloriste del Novecento, cui bastavano le nostre mani, le imprese del XXI secolo sognano sempre di più lavoratori-monaci […] che non conoscano la distinzione tra tempo libero e lavoro, dove il lavoro coincida con la vita. In sostanza vorrebbero monaci, che non lavorano per il salario né per il profitto, ma per una fedeltà intima, che in una visione liturgica della vita non smettano di lavorare neanche quando dormono, perché perfino il sonno è officium.17

Le analisi di Bruni su questo intreccio perverso tra vocazione e sfruttamento, tra prestazione eteronoma e adesione intima e appassionata ad un’attività, forniscono un contributo decisivo a quanto potremmo chiamare, con una formula di Jean-François Lyotard, l’“economia libidinale” del capitalismo contemporaneo, cioè, secondo l’inventore di questa espressione, il regime dei desideri e dei bisogni che il rapporto capitalistico mobilita e di cui si nutre. La potenza di siffatto rapporto si fonda infatti sulla “materia” vivente delle disposizioni soggettive, quindi sulle capacità e sulle pulsioni, delle masse di cui esso organizza le condotte. Secondo Bruni, queste disposizioni sono particolarmente potenti in quanto si radicano in strati psichici e storici molto più antichi del capitalismo in quanto tale, e in genere orientati in un senso incompatibile con quest’ultimo. È il caso, affatto esemplare, dell’uso capitalistico della gratuità, di cui è paradigma lo sfruttamento dell’agire vocazionale da parte del management:

Il grande e pericoloso bluff delle moderne grandi organizzazioni del capitalismo […] si nasconde nell’uso di registri simbolici e motivazionali dello stesso tipo di quelli utilizzati in passato dalle fedi ma – e qui sta il punto – snaturandoli, manipolandoli e ridimensionandoli radicalmente […]. L’ideologia neo-manageriale sta infatti riciclando dentro l’impresa molti dei valori nati al di fuori di essa, e non di rado contro di essa – come ci hanno ricordato Eve Chiapello e Luc Boltanski nel loro trattato Il nuovo spirito del capitalismo (2015).18

Il riferimento è significativo perché il libro di Boltanski e Chiapello riguarda il recupero capitalista dei registri simbolici e motivazionali sviluppati non già dalle fedi religiose, ma dall’opposizione politica ed esistenziale al capitalismo. Se volessimo vedere un lapsus in questo riferimento in certo senso criptato, potremmo trarne ad un tempo l’idea di una continuità tra le fedi tradizionali e le spinte anticapitaliste della modernità avanzata, ma anche quella di un’azione parassitaria che il capitalismo esercita su entrambe queste realtà storiche. E infatti, il punto sviluppato da Bruni è appunto l’uso capitalistico-neoliberale dei desideri che sono alla base sia della vocazione religiosa che del militantismo etico e politico:

Il nuovo capitalismo si è accorto che senza attivare le motivazioni e i simboli più profondi dell’umano […] le persone non attivano la loro parte migliore. Così chiede molto, (quasi) tutto ai suoi neo-assunti. Chiede un impegno di tempo, priorità, passioni, emozioni, che non può essere giustificato ricorrendo al solo registro del contratto e del denaro. Solo il registro religioso del dono di sé e del sacrificio […] può spiegare che cosa viene chiesto e dato in questi nuovi rapporti di lavoro. [Le imprese] non vogliono solo il (molto) tempo lavorativo, vogliono la vita intera; non vogliono soltanto le motivazioni estrinseche, vogliono anche quelle intrinseche; non vogliono solo la lealtà, vogliono la devozione.19

Perché è possibile dire che questa logica resta inautentica (o “idolatrica”)?

Tutti vogliamo il paradiso [ma] per toccare il cielo dovremmo avere un tipo di libertà che il nostro capitalismo […] non può conoscere. Le imprese, per loro natura, devono controllare, arginare, normalizzare le motivazioni più profonde degli esseri umani, soprattutto quelle intrinseche dove affondano le radici la nostra gratuità e libertà. Perché se noi fossimo veramente messi nella condizione di attivare le nostre passioni più profonde, gli ideali più alti, il nostro spirito libero, i nostri comportamenti sfuggirebbero al controllo del management. Le nostre azioni diventerebbero imprevedibili e ingestibili, e quindi metterebbero in crisi i protocolli e le job description. Soprattutto salterebbe il management che […] deve rendere pianificabile, controllabile e prevedibile il comportamento organizzativo. Le motivazioni intrinseche sono, infatti, le forze più potenti e creative ma anche quelle più destabilizzanti per le organizzazioni […]. Perché quando siamo mossi “da dentro” ci sganciamo dal calcolo costi-benefici […]; se volessimo davvero persone creative e libere nei posti di lavoro dovremmo rinunciare al loro controllo; ma questo è proprio uno dei tabù del nostro capitalismo.20

L’unica soluzione di questa contraddizione risiede, per il capitale, nel razionalizzare e tariffare le motivazioni intrinseche, traducendole di forza nelle categorie estrinseche e strumentali degli incentivi. Soluzione che, lungi dal salvare la potenza “anarchica” della vocazione e del dono di sé, finisce per distruggere di fatto le grammatiche quotidiane del valore intrinseco e della libertà personale, producendo quindi un’umanità incapace di esprimere in modo coerente la dimensione gratuita, vocazionale e immanente dell’agire: «Lo spirito moderno […] cerca di trasformare in incentivo tutte le varie motivazioni umane, di ridurre i tanti “perché” a un unico, semplicissimo, “perché”».21 Il capitalismo deve quindi la forza della sua presa sulle anime allo sfruttamento delle ambivalenze intrinseche ai momenti più alti dell’esperienza umana: il godimento e il valore della prosperità e dell’operosità terrestri possono rivolgersi contro l’amore del prossimo (generando l’idea che l’uomo prospero e operoso “non ha bisogno di niente”), la vocazione e la condotta orientata ad una causa possono trasformarsi in alienazione totale della vita dei “chiamati” in favore delle istituzioni in cui essi operano. Quanto Bruni ci dice a proposito del rapporto tra capitalismo e cristianesimo sembra valere anche per il rovesciamento che ha permesso al capitale, alla fine degli anni Settanta, di rovesciare e nutrirsi delle istanze rivoluzionarie nei paesi capitalisti-avanzati: l’istanza del desiderio e della liberazione trasformata in culto del consumo, il militantismo trasformato in identificazione totale al sistema e ai suoi imperativi. Ma queste ambivalenze rinviano a strati antropologici ancora più profondi, che toccano appunto il rapporto con il valore e con la dedizione ad esso. Dietro la captazione manageriale della dedizione totale a profitto dell’impresa agisce la potenza arcaica del sacrificio e della vertigine che gli è associata: la libertà abissale di consumare e distruggere ciò che si possiede di più prezioso, in ultima istanza la vita stessa, in nome di qualcosa di assoluto, di più intenso ed eccellente dell’esistenza stessa. Il capitalismo moderno è infatti un culto sacrificale incessante, che si riproduce attraverso la distruzione illimitata di parti sempre più vaste e profonde dell’esistenza:

Orari insostenibili e inutilmente infiniti, che riducono spesso efficienza e qualità del lavoro […]. Fino ad arrivare al vero e proprio sacrificio dell’intera vita privata e famigliare, dove rivive il potlatch di pura distruzione, una dépense […] essenziale al culto perché segnale di devozione totale e assoluta. Nuovi olocausti.22

Bruni non si sofferma sulla compatibilità di questa distruzione sacra con il valore simil-divino della ricchezza come protezione contro la morte e il dolore. Vi è qui un passaggio arcaico della ricchezza materiale al proprio puro segno, alla dimensione astratta delle insegne del potere assoluto, in cui il valore non è quello qualitativo e incalcolabile di atti e di cose, ma quello puramente virtuale di simboli comparabili. Sarebbe interessante seguire il modo in cui questo passaggio risuona in quello tra valore d’uso e valore di scambio, il quale permette anch’esso di far coesistere la ricerca della ricchezza con la sua distruzione concreta. In entrambi i casi, il valore si separa dalle cose e ne ordina la consumazione. In ogni caso, se la logica del nostro mondo è la logica di un culto sacrificale, allora si vede il legame per nulla contingente tra i comportamenti interni alla sfera economica e professionale, da un lato, e, dall’altro, lo spreco immane di vite cui si riducono le politiche migratorie, la distruzione pervicace delle condizioni naturali della vita, l’indifferenza apparentemente insensata di fronte alla guerra e la giubilazione sinistra con cui si annunciano le degradazioni dell’esistenza quotidiana di milioni di persone. Ma le conseguenze più importanti sono altre. Se tutto quanto esiste è visto come semplice materia da sacrificare agli idoli, allora è radicalmente vano sperare nel buon senso, nella moderazione o nella (tiepida) morale umanitaria – i tre capisaldi ideologici dei “ceti medi riflessivi” – per arginare questi processi distruttivi, precisamente perché questi ultimi si alimentano di un godimento vertiginoso ed eccessivo in cui l’essere umano incontra e sfida i propri limiti, le proprie possibilità esistenziali più alte, ciò che Georges Bataille chiamava la sovranità. Nel Novecento, i fascismi hanno prosperato appunto sull’appeal dei fantasmi di sacrificio cruento suscitati dalla guerra del 14-18, ed è facile prevedere per qualche loro avatar aggiornato un futuro più roseo di quello della socialdemocrazia. Dunque, se la tendenza permanente all’eccesso e alla rottura degli equilibri vitali è la chiave della riproduzione del capitale e della logica del sacrificio, e non della loro destituzione, la rottura con questa logica dovrà radicarsi in qualcosa di altrettanto vertiginoso ed eccessivo. È quanto Bruni ricorda a partire dall’esperienza biblica:

L’umanità ha impiegato millenni per giungere a una idea di Dio che non ha bisogno di mangiare gli uomini e i nostri beni per essere saziato, placato, rabbonito […]. I profeti, alcuni libri sapienziali, i Vangeli, hanno cercato […] un altro Dio e un altro uomo liberati dalla logica commerciale e dalla religione retributiva.23

In altri termini, per spezzare l’ingiunzione infinita al sacrificio della vita in favore di potenze trascendenti, occorre pensare un rapporto tra l’uomo e ciò che ha il massimo valore interamente strutturato dalla gratuità. Si tratta di concepire una condotta vuota di interesse personale, che non sia tuttavia un la corresponsione di debito o un atto di sottomissione, ma un’espressione interamente libera e nondimeno senza contropartita, quindi asimmetrica e “sregolata”, incompatibile con la Legge intesa come sistema distributivo e retributivo:

È arduo a capirsi che cosa Antico e Nuovo Testamento intendano dire con i termini ebraici e greci che sono stati tradotti con iustitia. Certo è che […] la iustitia biblica ed evangelica […] ha dovuto confrontarsi con, e si è sovente trovata a risolversi nello ius e nella iustitia, vale a dire nel diritto che Giustiniano ha codificato nel VI secolo: la iustitia del suum unicuique tribuere secondo la celebre definizione formulata nel IV secolo da Ulpiano e ripresa nel Digesto, t. I, 10 e nel proemio delle Istituzioni […], rispetto alla quale quella della perfetta giustizia, ch’è perfetto amore degli uomini amati da ciascuno come se stesso, è in linea di principio incompatibile e inconciliabile.24

Nella parabola del figliol prodigo, il padre onora il figlio ribelle, non quello che ha ben meritato di lui. Secondo Christophe Türcke, «il Regno di Dio giungerà come l’esuberanza di un padre capace di un amore smisurato».25 Cioè, l’amore non segue la logica dell’economia (dare per avere), né quella del diritto (dare a ciascuno il suo), né quella della morale (ricompensare le condotte virtuose): esso è dell’ordine della guarigione, «non sta a calcolare, senza motivi e incondizionatamente investe anche chi non sa amare e dissolve […] indurimento e irrigidimento […], pienamente soddisfatto del suo effetto didssolvente e liberatorio».26 La rottura di tutte le logiche dell’equivalenza, e quindi anche con il fatto che il senso e il valore di un atto risieda nelle sue conseguenze o premesse positive o negative, distrugge la logica del sacrificio, in cui la dismisura – la distruzione totale dell’offerta – è in realtà una ipermisura, in cui all’assoluto potere e valere di chi riceve il sacrificio corrisponde, dal lato di chi lo fa, l’annullamento altrettanto assoluto:

La fine dell’equivalenza: è questa l’ossessione per cui Gesù non cessava di cercare parole e immagini. Intorno a essa ruotano complessivamente tutte le parabole. Ovunque risalgano direttamente a Gesù, il loro marchio è l’esuberanza, la dismisura, l’incondizionatezza. Può trattarsi dell’eccesso di misericordia, come nel padre del figliol prodigo, ma altrettanto della sproporzione del salario come per i lavoratori della vigna, dell’impudenza con cui condona i debiti l’amministratore disonesto.27

La fine dell’equivalenza significa anche affermazione della positività di ciò che esiste: una positività senza contropartita, che non richiede un prezzo, una perdita o una distruzione equivalenti al durare e al venire in essere, ma solo una forza taumaturgica liberatrice e produttiva. Come Bruni, benché in modo certo più radicale ed esplicito, Türcke contesta l’identificazione della traiettoria di Gesù alla realizzazione suprema del sacrificio: se Gesù è morto per i nostri peccati, la retribuzione e il merito sono reintrodotti, e quindi il potere assoluto da parte del creditore di disporre delle esistenze fino alla loro consunzione irreversibile. Nella sapienza biblica ed evangelica vi è quindi la radice del potere che il capitale esercita sugli spiriti, oltreché una fuga possibile dalla sua gabbia d’acciaio? Sembra che queste ricerche di storia ed antropologia economica lo suggeriscano. Ma, tenuto conto di tutto, pare probabile che l’archeologia del capitalismo e della sua contestazione non possa prescindere da un’archeologia del cristianesimo e della sua lunga durata, o al contrario della sua eclissi, entro le nostre forme di vita.

Note

1 M. Notarianni, La memoria a rischio, Roma, Manifestolibri, 2004, p. 168.

2 Il lavoro di Bruni dedicato alla ricostruzione di questo fenomeno è Capitalismo meridiano, Bologna, il Mulino, 2022, che meriterebbe un’analisi dettagliata. Il progetto è di fornire una genealogia dello spirito del capitalismo alternativa a quella basata sull’etica protestante. La ricostruzione di Bruni è appassionante, ma resta il dubbio su come lo spirito mercantile comunal-francescano potrebbe indicare una pratica della vita economica realmente in rottura con il capitalismo contemporaneo e non solo un modello di capitalismo umanista-cristiano ideale.

3 K. Marx, Il Capitale, Libro I, trad. it. di D. Cantimori, versione online.

4 L. Bruni, L’arte della gratuità, Milano, Vita e Pensiero, 2021, pp. 12-14.

5 Ivi, p. 12.

6 L. Bruni, Il capitalismo e il sacro, Milano, Vita e Pensiero, 2020, p. 110.

7 Ivi, p. 92.

8 Ivi, p. 110.

9 G. Gaeta, In attesa del Regno. Il cristianesimo alla svolta dei tempi, Macerata, Quodlibet, 2022, p. 21.

10 Ivi, p. 22.

11 Ivi, p. 26.

12 Ivi, p. 28.

13 L. Bruni, L’arte della gratuità cit., p. 45.

14 Ivi, p. 47.

15 Ivi, pp. 48-50.

16 Ivi, p. 49.

17 Ivi, p. 51.

18 L. Bruni, Il capitalismo e il sacro cit., pp. 45-46.

19 Ivi, pp. 48-50.

20 Ivi, pp. 51-52.

21 Ivi, p. 54.

22 Ivi, pp. 87-88.

23 Ivi, pp. 88-89.

24 F. Cardini, Giustizia e persecuzione, in F. Cardini, L. Muraro, Beati i perseguitati per la giustizia perché di essi è il regno dei cieli, Torino, Lindau, 2012, p. 58.

25 C. Türcke, Il sogno di Gesù. Psicoanalisi del Nuovo Testamento, trad. it. di T. Cavallo, Torino, Rosenberg&Sellier, 2013, p. 125.

26 Ibidem.

27 Ivi, p. 132.