
Fineschi torna sul luogo del delitto, ripubblicando il suo noto Marx e Hegel, stavolta per La scuola di Pitagora. Le modifiche e le aggiunte alla prima edizione (del 2006) sono diverse, e ne dà conto l’autore nella Nota iniziale. Soprattutto viene ampliata la terza (e conclusiva) parte, con l’aggiunta di due capitoli, l’uno su Lenin e Hegel, l’altro e su Dal Pra e la dialettica, tratti da suoi lavori precedenti. È dunque questa un’edizione aggiornata, e non una mera riproposizione del suo vecchio libro. Una versione più chiara e compiuta, pur nella tecnicità del linguaggio e degli argomenti, che ne fanno un lavoro poco accessibile ai non esperti. Nonostante ciò, siamo in presenza di un contributo rilevante, con inevitabili selezioni e anche lacune, ma che discute il tema classico della filosofia marxiana – il suo rapporto con Hegel – con una capacità di sintesi che non cede alle lusinghe dell’intervento polemico o d’immediato uso politico.
Molte cose apprezzabili emergono dallo scavo filologico degli scritti marxiani. In primo luogo, si direbbe “ovviamente” dato l’autore e il senso del presente lavoro, il rapporto di continuità tra Marx e Hegel. Una continuità su cui incidono alcune discontinuità, precisazioni, incomprensioni del rivoluzionario di Treviri rispetto al filosofo di Stoccarda. Il rapporto di Marx con Hegel è segnato soprattutto dalla lettura che di questo ne danno Bruno Bauer e Ludwig Feuerbach. Di qui i fraintendimenti sull’idealismo di Hegel, e quindi sul rovesciamento della dialettica hegeliana operata dal materialismo marxiano. Secondo Fineschi una più compiuta comprensione del metodo hegeliano consente al Marx maturo del Capitale di superare la stringente dicotomia tra idealismo e materialismo, almeno nel rapporto tra i due autori. Proprio Il capitale è il luogo in cui si dispiega la filosofia di Marx, e il metodo di questa filosofia è la dialettica. Una verità conclamata, che si può verificare nella esplicita dichiarazione di Marx nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale del gennaio 1873, di cui Fineschi utilizza soprattutto il terz’ultimo paragrafo, a discapito del penultimo, altrettanto importante. Come aveva dovuto riconoscere, arrendendosi, Colletti (e con lui anche Dal Pra), la dialettica marxiana non è confinata al rispecchiamento della realtà nella testa del filosofo, ma informa la realtà concreta nella sua contraddittoria processualità.
Ma Marx non è Hegel. Per Hegel, dice giustamente Fineschi, un uso politico della piena comprensione della realtà, quindi della teoria che la spiega (il sapere assoluto), è impossibile – giungendo questa comprensione solo alla fine di uno stadio storico. Per Marx, invece, la maturità dello sviluppo storico consente di coglierne le tendenze determinanti, e in base alla comprensione di queste agire nella storia con la razionalità derivante proprio da questo sapere. Ma mentre Fineschi sembra ammettere che la prassi apre soltanto uno spazio di possibilità per l’azione razionale, per Marx il superamento del capitalismo – la “negazione della negazione” – avviene «con l’ineluttabilità di un processo naturale» (si veda il cap. 24, par. 7 proprio del Capitale). La “necessità non teleologica” che informa Il capitale è allora un’aporia del Marx maturo?
Tutto questo non fa di Marx un “filosofo della prassi”, come rileva Fineschi attribuendo – anche qui giustamente – alla filosofia della prassi una derivazione gentiliana. Marx, va da sé, non è un “attualista”, anche se di questo attualismo è influenzato parte del pensiero marxista del primo Novecento, ad esempio Gramsci. Ma la verità – relativa e assoluta al tempo stesso – esiste a prescindere dalla coscienza dell’uomo. La prassi può, però, verificarla.
[da «Le Monde Diplomatique»/«il manifesto», 22 ottobre 2024]