Alberto Prunetti,
Troncamacchioni
Roberto Barzanti

Alberto Prunetti, Troncamacchioni, Milano, Feltrinelli, 2024.

Sarà il caso di spiegare il titolo di questo Troncamacchioni, ibro che racconta con un piglio epico e un ritmo da poema popolaresco vicende di una Maremma scomparsa. È un lemma che non si trova neppure nel più ampio dei vocabolari di italiano parlato. Pietro Fanfani nella sua compilazione sulla lingua toscana uscita nel 1882 non lo include. Si tratta di una locuzione dialettale maremmana, comprensibile senza problemi soltanto nel triangolo Piombino-Follonica-Massa Marittima. «Anda’ a troncamacchioni» o «anda’ a troncamacchia», significa più o meno «tirar dritto per la propria strada», «andare di prepotenza per la via prescelta, infischiandosene del giudizio altrui». L’autore di questo volume, che sa di inchiesta e inchiesta non è, è Alberto Prunetti da Piombino, noto per una trilogia working class che lo precede (Amianto, 108 metri, Nel girone dei bestemmiatori). Certi suoi testi hanno un’avvincente pastosità quando son declamati ironicamente in pubblico. Alberto è paragonabile ad un Benigni meno saputo e meno ammiccante. Con Troncamacchioni accentua il distacco dall’immagine oleografica di una Toscana assennata e parca, idilliaca e bozzettistica. Sulla scia di Luciano Bianciardi, cui Prunetti si ispira, fa capire come il ribellismo e le violenze che scoppiarono fin dai primi del Novecento e poi seguirono il primo conflitto mondiale, furono l’avvelenata e tragica premessa di quanto avvenne dopo, sotto la dittatura. Ed il libro inizia proprio con un prologo, ricavato dall’attento esame di schede del Casellario politico di polizia. In ciò rammenta la strutturazione del capolavoro di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I minatori della Maremma uscito nel 1956. Qui il gioco tra linguaggio inquisitorio e suo trasferimento in narrazione si tinge di arguta malizia. Protagonisti degli avvenimenti non sono più generiche masse né illustri notabili o capi di partito, ma persone ritratte nella loro scontrosa umanità. Il mese d’inizio è addirittura il giugno 1906. Allorché gradualmente si forma un gruppo di giovani renitenti alla leva, pacifisti non a parole. Sono riprodotte via via le loro foto, tratte dal Casellario politico di polizia, materiale tutt’altro che superfluo per una scarna narrazione nuda e cruda, senza divaganti fronzoli o lacrimosi sentimentalismi. La scrittura di Prunetti è una scrittura «soda», se è consentito riprendere l’attributo che Bianciardi aveva trascritto dal Dell’arte della guerra di Machiavelli per il suo La battaglia soda. Soda, cioè compatta, serrata, incalzante. Il sovversivo per eccellenza che apre le pagine di Prunetti è Domenico Marchettini detto il Ricciolo. La polizia informa: «lavora con assiduità, in pubblico non godeva stima, ma era temuto» ed è «accanitamente contrario al regime». Qualche frase – dichiara l’autore – è minimamente corretta, ma i documenti sono rispettati alla lettera. Il leader della banda, Curzio Jacometti, è di Monterotondo Marittimo allora frazione di Massa Marittima, patria di Renato Fucini. Il suo soprannome è Prete o Pretaccio in memoria dell’educazione acquisita nel seminario di Volterra: un «chierico progressista». Divenuto caporal maggiore si renderà colpevole di un gesto gravissimo: appicca il fuoco alla tenuta dei Guicciardini scatenando un’apocalisse. Quindi incontriamo Chiaro Mori, un minatore anarchico detto Chiarone, capace di comporre una poesia di sapore dantesco. I ribelli non esitano a farsi grassatori, briganti che si dànno a razzie in famiglie altolocate. La banda armata di una trentina di disertori finirà al tribunale militare di Firenze nel 1919 sulla soglia del biennio rosso. Jacometti era stato già fatto fuori non si sa da chi. La narrazione inanella episodi. Taluni personaggi scompaiono e riemergono proprio come in un movimentato poema. Questo tipo di montaggio può esser definito romanzo? Lo domando a Riccardo Castellana, ordinario di Letteratura italiana contemporanea all’ateneo senese. «Troncamacchioni – risponde – non è un romanzo, perché il romanzo, secondo Prunetti, non è il genere più adatto a raccontare la realtà della condizione operaia, di oggi come di ieri. Per raccontare la realtà dal punto di vista delle vittime, occorre sperimentare forme narrative diverse dal genere borghese per eccellenza, occorre sottrarsi alle sirene della fiction romanzesca». Qualcuno ha detto che echeggia moduli da western: «Non direi – obietta il docente –, quando entrano in scena questi eroi sfaccettati e controversi, si capisce che non siamo più in una specie di spaghetti western maremmano, con fughe rocambolesche, grandi bevute e bande di pistoleros che sparano all’impazzata, ma in un genere molto diverso: in un’«epica stracciona dei diseredati», dove novella criminale e trovate eroicomiche s’intrecciano dando luogo a una forma molto peculiare di non-fiction. E notevolissima è la lingua, non avara di vernacolarismi come crognolo, passionista, chiorba». Le motivazioni che sfoceranno nel totalitarismo fascista, osservo, sono messe in scena in tre atti e sono incarnate da uomini e donne comuni secondo un’ottica neoverista. «Dopo l’autunno del 1920, questi eroi – sottolinea il mio interlocutore – con le pezze al culo diventano sempre più simpatici perché sono tra i pochi ad opporsi alle azioni degli squadristi in camicia nera, diventati i cani da guardia dei proprietari terrieri». Nel vivo del biennio di fuoco salgono in scena anche i socialisti, come Gualtiero Bucci, il calzolaio di Tatti, che scampa per il rotto della cuffia al linciaggio dei fascisti; e i comunisti, come Giuseppe Maggiori e lo stesso Marchettini o come Robusto Biancani, la cui vicenda famigliare inizia la sua avventura con l’assedio squadrista dell’enclave rossa di Tatti nel maggio 1922 e si conclude tragicamente, negli anni Trenta, nell’Unione sovietica di Stalin, dove Robusto si era autoesiliato sperando di trovare il paradiso e invece trovò l’inferno». Venne giustiziato con l’accusa di collaborazionismo coi fascisti. Nelle guerre civili equivoci e sospetti sono all’ordine del giorno. Si fa storia anche così. Condendola appena con qualche sorprendete invenzione e tessendo una trama pazientemente documentata sulle carte d’archivio.

[uscito su «Corriere Fiorentino», 8 gennaio 2024]