Ricordo di Piero Manni
Antonio Prete

Quando un amico scompare, i tanti momenti di vita in comune e di incontri riappaiono con una loro luce più forte, quasi compendiati in una sorta di florilegio essenziale, consegnati a un tempo altro, che è un tempo immobile. Così si raccolgono nella forma del ricordo: per essere custoditi. La prima immagine che di Piero Manni, scomparso da poco, mi si presenta, è quella che designa un suo carattere dominante: Piero sapeva unire affabilità sorridente e rigore di scelte culturali e politiche, discrezione e passione, amicizia e solerzia di impegno civile. Ho conosciuto Piero molti anni fa, insieme con un gruppo di giovani amici leccesi con i quali ci si incontrava per leggere e discutere le Tesi del «Manifesto» rivista, quando “scendevo” da Milano nel Salento per le vacanze natalizie (tra questi amici Cosimo Perrotta e Chino Salento, tra gli altri): tutti loro avevano appena vissuto il ’68 nell’Università di Lecce, e io lo avevo vissuto a Milano, in mesi di grande esaltazione immaginativa e teorica e organizzativa. Echi e confronti tra quelle comuni esperienze, soprattutto tra quelle vissute dopo il ’68, e nel corso di tutti gli anni Settanta, hanno alimentato via via i tanti successivi incontri con il gruppo di amici salentini. Consuetudine, questa dei nostri estivi incontri, alla quale proprio Piero dava la forma conviviale, ogni volta convogliando gli amici in una di quelle trattorie di paesi che danno su piazzette con palazzi e chiese barocche, rose dal vento e dalla luce. Hanno radice in quell’esperienza di movimento le successive forti attenzioni di Piero al “terzo mondo”, ma anche alla questione palestinese. Oltre che l’impegno di insegnamento ventennale nel carcere minorile. Scelta che fu anche di Anna Grazia D’Oria, che con Piero ha condiviso e progettato tutto, vita familiare, attività culturali, impegno editoriale. Quest’ultimo ha dato origine a un’attività, difficile per il contesto in cui avveniva, e strenua per l’ostinazione dolce con cui ha retto agli ostacoli e ha edificato via via una fisionomia – di catalogo, di presenza, di relazioni umane – che ha molto significato per la cultura del Sud. Soprattutto perché si trattava non solo di dare voce di stampa a esperienze di ricerca e di scrittura meridionali, scelte per la loro qualità, ma di rappresentare una cultura poetica e saggistica italiana e europea, pur muovendosi al di fuori degli apparati da industria culturale. L’esperienza di una casa editrice – intestata a Piero Manni e di fatto guidata, oltre che dall’intestatario, da Anna Grazia D’Oria, con l’apporto dei figli Grazia, Agnese, Daniele (Agnese avrebbe poi preso, dopo un’ottima formazione bolognese, responsabilità redazionali e anche direzionali, e un apporto ai progetti lo avrebbe poi dato Giancarlo Greco) – era una sfida culturale di grande rilievo, in particolare perché l’ambizione era quella di avere un respiro non localistico e una privilegiata attenzione alla ricerca letteraria in atto. La rivista «l’immaginazione» – che, diretta da Anna Grazia D’Oria, segnò, nel 1984, l’avvio delle edizioni – si delineò presto come un luogo d’incontro che dava, e continua fervidamente a dare, un’immagine della scrittura letteraria e della riflessione critica sempre puntuale, aperta, inventiva. Il primo libro della casa editrice, nel 1985, fu Segni di poesia/lingua di pace, antologia di interventi poetici di Caproni, Luzi, Zanzotto, Volponi ed altri. La prima collana, per cura di Romano Luperini, fu «La scrittura e la storia», che ospitò subito scrittori italiani di rilievo come, tra gli altri, Sanguineti, Volponi, Leonetti, Malerba. Nel corso del tempo molti altri scrittori furono accolti nelle edizioni Manni. Tra questi, voglio in questa sede ricordare Franco Fortini, con Diario tedesco 1949 (1991), Franchi dialoghi (Franco Fortini e Franco Loi, 1998), ma anche con Maggiani incontra Fortini, del 2000, e Breve secondo Novecento, del 1998, con prefazione di Romano Luperini e note di Luca Lenzini (un progetto che, raccogliendo le presentazioni critiche che Fortini aveva tenuto alla Radio svizzera, era nato per la collana «Chirografie» delle edizioni di Barbablù). E poesia, narrativa, saggistica continuano ad essere, con solerte e vivace presenza, i campi prevalenti di intervento della casa editrice Manni.

Di Piero Manni vorrei ricordare un tratto che mi sembra fosse a fondamento delle sue scelte culturali e politiche, della sua forte attenzione alle condizioni di povertà e di diseguaglianze proprie del Sud – e del Sud del mondo –, insomma del suo meridionalismo interrogativo, di ricerca, di confronto: il senso, tenuto sempre vivo, delle proprie radici in una terra contadina. Il che era accompagnato dal fervore di una memoria che custodiva con nitore e vivacità figure di un costume e di una lingua. Spesso ci accadeva di mettere a confronto le nostre conoscenze dialettali e i nostri ricordi di particolari della vita contadina, essendo i nostri due paesi d’origine molto vicini; sebbene il suo, Soleto, appartenente alla koiné linguistica grika, il mio, Copertino, appena fuori da quell’area e tuttavia ancora toccato, nel tessuto romanzo, da quel lessico, ma soprattutto segnato dalle stesse tradizioni e condizioni di vita. Questo interesse per la cultura popolare, propria di un Salento contadino, Piero lo portava non solo nelle conversazioni, nella rievocazione di condivisi ricordi, ma anche nella scrittura dei suoi racconti, come quelli che confluirono in Salento, Salento e I fichi in tasca. Fu lui che via via mi procurò quasi tutte le edizioni di libri riguardanti la Grecìa salentina, oltre che il Dizionario dei dialetti salentini, del filologo tedesco Gerhard Rohlfs, tre volumi preziosi che mi accade, spesso, di consultare. E su richiesta di Piero scrissi anni fa un’introduzione a una raccolta di canti d’amore e di morte della Grecìa salentina, e alcuni anni fa una descrizione delle luminarie, proprie delle feste dei nostri paesi, per un volume che accompagnava la XV edizione della Notte della Taranta, con le scenografie di Mimmo Paladino, ispirate appunto alle luminarie. Collaborazioni che appartenevano al nostro dialogo, e nascevano dal cuore delle nostre comuni radici.

A questo sguardo sulle radici corrispondeva in Piero Manni una grande curiosità per il mondo della cultura letteraria in generale e per le forme letterarie. Anche per quelle diverse dalle sue predilezioni. Voglio qui ricordare con quale premuroso e largo senso dell’ospitalità accolse a Lecce nel maggio del 1987 Edmond Jabès con la moglie Arlette: ci furono seminari, incontri all’Accademia di belle arti, serate bellissime. Non solo, ma alcuni importanti scritti di Jabès figurarono via via nella collana «quaderni del gallo silvestre», (anche gli ultimi fascicoli della rivista «il gallo silvestre», dal numero 14 al 18, furono stampati dalle edizioni Manni).

L’amore per il libro, il senso dell’amicizia, la critica della diseguaglianza sociale: in queste poche parole il sigillo di un ricordo.