Effetto Domino,
dal libro al film
Intervista al regista Alessandro Rossetto
Claudio Panella

La crisi sanitaria che dal febbraio 2020 si è abbattuta con durezza su molte provincie della Lombardia e del Veneto ha ridato centralità nel dibattito pubblico, per una manciata di settimane, alle figure di quei lavoratori costretti a mandare avanti le attività produttive considerate essenziali persino nei focolai più colpiti dall’epidemia di Covid-19. Si è poi levata forte la voce delle associazioni confindustriali, terrorizzate dalla recessione ormai inevitabile. A suo modo, l’“effetto domino” del virus sull’economia mondiale ha fatto deflagrare le contraddizioni di interi comparti che lavorano a debito e si reggono su meccanismi finanziari fragilissimi. E se tra le rappresentazioni del mondo economico del cosiddetto Nord-Est d’Italia che hanno ritratto meglio l’anima dei piccoli imprenditori veneti vi sono senz’altro i romanzi del padovano Romolo Bugaro, tra questi ce n’è in particolare uno, per l’appunto Effetto domino,1 che merita di essere riletto insieme alla sua recente versione cinematografica, l’omonimo film del conterraneo Alessandro Rossetto presentato nel 2019 alla Mostra del Cinema di Venezia (sezione Sconfini).

Il romanzo di Bugaro si svolge nell’arco di alcuni anni successivi alla crisi del 2008 e racconta di un ambizioso progetto immobiliare che i giochi di potere interni a una grande banca fanno naufragare causando a cascata fallimenti e suicidi. Rossetto, affermatosi per due decenni come documentarista, ha ripreso fedelmente il testo ma aggiungendovi alcuni elementi interessanti: da un lato, ha esteso l’orizzonte della vicenda a uno scenario globale grazie al personaggio di un affarista transnazionale con sede a Hong Kong; dall’altro, ha innestato sul business edilizio la sottotrama sempre meno futuribile di un’imprenditoria che punta ad allungare a dismisura la vita di chi può permetterselo, un settore di mercato in espansione nel mondo post-pandemia.

Inoltre, il film Effetto Domino appare per molti versi legato al primo lungo a soggetto del suo regista, Piccola patria (2013), a partire da una simile ambientazione nel Nordest contemporaneo (filmato con veri e propri “quadri di realtà” e reiterate riprese aeree) e dai protagonisti interpretati dal medesimo cast. Parte del quale si è poi ritrovato nello spettacolo Una banca popolare, una produzione del Teatro Stabile del Veneto diretta da Rossetto e scritta da Bugaro, ispirata al naufragio di quegli istituti veneti andati in default nel 2017 che hanno lasciato decine di migliaia di risparmiatori ancora in cerca di giustizia. Se lo spettacolo si è dovuto fermare a causa della pandemia dopo il debutto al Goldoni di Venezia nel dicembre 2019 e una breve ripresa a Padova, il film ha invece proseguito il suo viaggio in giro per il mondo, essendo per esempio l’unico titolo italiano della selezione internazionale lungometraggi del XXIII Brooklyn Film Festival 2020, svoltosi quest’anno interamente on line, e dunque gratuitamente visibile e votabile per il premio del pubblico fino a domenica 7 giugno.

Claudio Panella: A quanto mi risulta, non avete lavorato a quattro mani con Bugaro alla trasposizione di Effetto Domino, co-sceneggiato con Caterina Serra, ma insieme a lui avete dato vita a un nuovo progetto comune, Una banca popolare, subito dopo la realizzazione del film. Come è avvenuto l’incontro con il romanzo e come si è consolidata la vostra collaborazione?

Alessandro Rossetto: Un amico mi consigliò il romanzo e di Bugaro avevo già letto qualcosa in passato. Se non avessi avuto alle spalle l’esperienza di ricerca per la realizzazione di un documentario su una serie di famiglie coinvolte in un reale effetto domino, una decina di anni fa, forse non avrei pensato di trarre un film dal libro. Nel romanzo ho trovato – reso in maniera plastica, anche se traslato nel mondo dell’edilizia – molto di ciò che avevo visto e vissuto nella ricerca per il documentario, dove incontrai tradimento (anche all’interno dei nuclei famigliari), inadeguatezza imprenditoriale, vampirismo e, appunto, l’attivarsi spietato del fenomeno dell’effetto domino. Per scrivere, Bugaro partì dalla sua esperienza di avvocato, aveva incontrato queste dinamiche nel quotidiano del suo lavoro, quindi anche lui prese le mosse dal reale.

Bugaro non ha partecipato alla scrittura della sceneggiatura. Ho seguito una serie di intuizioni che da subito allontanavano il film dal romanzo, Bugaro ne era al corrente e ci ha appoggiato leggendo quello che con Caterina Serra andavamo scrivendo, fornendoci il suo parere e consiglio su alcuni passaggi e aspetti. Invece, il testo teatrale Una banca popolare è stato scritto da Bugaro e io sono stato chiamato a dirigerlo. Lì è nata una collaborazione a due, sia nella revisione in vista della messa in scena sia – seguendo una mia idea un po’ corsara – nella scrittura della sceneggiatura tratta dal testo, per farne un film. L’operazione è piuttosto particolare: per lo spettacolo progettavo una sorta di scenografia audiovisiva e quindi delle riprese cinematografiche; la società di produzione Jolefilm, che collabora alla produzione dello spettacolo, ha accettato di ampliare il progetto nell’ambito audiovisivo. Così si è passati alla sceneggiatura, che tradisce in parte il testo teatrale di partenza, e il film è stato girato ancor prima di iniziare le prove per lo spettacolo. Il montaggio del film sarebbe dovuto cominciare dopo la prima serie di repliche dello spettacolo, purtroppo l’emergenza sanitaria ci ha bloccati.

CP.: C’è una ragione specifica per cui il documentario che aveva pensato di realizzare su un caso di “effetto domino” non si è poi concretizzato?

AR.: Non riuscii a realizzare il documentario perché non si crearono in tempo utile le condizioni produttive. I film documentari spesso risentono di questo paradosso: la vita scorre e il film si va svolgendo davanti ai tuoi occhi, nulla lo può frenare e non si ha il tempo di trovare le risorse per realizzare.

CP.: Con sintesi forse un po’ forzata, si potrebbe dire che in Effetto Domino ritroviamo alcuni tipi dei protagonisti di Piccola patria che sono ascesi di classe. Inoltre, se quello era un film sul vendersi e lo svendersi dei corpi (e delle aspettative) dei giovani, il secondo è un film sul business dei corpi (e delle aspettative) dei vecchi. C’è in Effetto Domino anche la continuazione di un discorso avviato con il film precedente?

AR.: C’è, su due livelli. Molti degli interpreti di Piccola patria sono anche in Effetto Domino, così continua un discorso di tipo strettamente cinematografico, creando un gruppo che possa lavorare su meccanismi rodati, su relazioni attoriali in crescita. Come potrebbe essere per una compagnia di commedia dell’arte, ci si scambiano i ruoli e cambia il canovaccio, resta la base di un lavoro comune. Poi, è vero che i tipi del primo film sembrano ascendere di classe e condizione nel secondo e dal punto di vista della regia, questo prende consistenza nel corpo stesso degli attori, un nascosto passaggio di testimone. In entrambi i film, i temi del denaro e del suo rapporto con il corpo sono centrali, in superfice e nei dettagli. Non è difficile passare dal rapporto fra corpo e denaro alle aspettative, che potremmo definire “di vendita”. Una domanda comune che i due film pongono potrebbe dunque essere: che cosa è permesso/possibile vendere e a che prezzo? Non il prezzo in denaro o beni, ma il prezzo umano.

CP.: La sostituzione del progetto di new town descritto nel libro con quello di residenze esclusive per anziani è nata da constatazioni di tipo demografico sulla realtà odierna del Nord-Est, e non solo del Nord-Est? In quanta parte la presenza nella provincia veneta di hotel abbandonati e in procinto di essere demoliti ha influito sulla direzione della sceneggiatura, o l’ha soltanto confermata?

AR.: Ambientare il film nella zona termale euganea a sud di Padova è stata un’idea felice, raccoglie in sé opportunità e senso profondo, rende più complessa ma meglio maneggiabile la storia rispetto al romanzo facendola diventare filmicamente concreta e molto contemporanea. La new town descritta nel libro già raccontava il progetto di malaugurato uso del suolo di quelle province, nel film il rifacimento degli hotel in disuso coglie un doppio segnale e le cose già sono “in corsa”: enormi manufatti edili hanno perso in (troppo) pochi anni funzione e valore e il loro recupero non è per niente un progetto sano. Si persevera vampirizzando, in maniera molto scomposta, peraltro. Il real estate è sempre stato interconnesso con la demografia e con l’invecchiamento della popolazione. Oggi ciò accade ancor di più rispetto al passato. Scrivendo la sceneggiatura sui luoghi di ripresa, vivendo fianco a fianco ai grandi alberghi – in disuso e non – in una cittadina che s’interroga sulla sua nuova natura turistica, o di luogo di “cura” per una popolazione che invecchia, è nata e cresciuta l’idea di fantasia della new old, cioè delle residenze esclusive per anziani. Ci siamo nutriti di quanto ci accadeva intorno e abbiamo stressato questa realtà nel dispositivo drammaturgico.

CP.: Così, dunque, è emersa l’idea di innestare nella trama del romanzo la riflessione su ciò che viene definito l’infinity life. La new old che mette sul mercato le nuove residenze per anziani danarosi è infatti lanciata con il simbolo di quella medusa ormai popolare che si autorigenera ed è in pratica immortale e forse non si tratta meramente di una trovata pubblicitaria.

AR.: A partire dalle ispirazioni del reale e dal rapporto fra settore immobiliare e demografia, abbiamo ampliato lo sguardo. Da almeno una decina d’anni si investe enormemente in ricerca con prospettive (commerciali) sull’infinity life. La guerra contro la morte è molto accesa, e non parlo di quella contro la malnutrizione, le malattie legate alla povertà o contro l’insalubrità pericolosa che caratterizza lo spazio vitale di molti sul pianeta, tutte cose che favoriscono la morte. Certo, la questione è ambivalente: anche pratiche di segno considerato positivo, come ad esempio quella millenaria dello yoga, o la sana frugalità della dieta mediterranea, la meditazione o il vegetarianismo, in fondo puntano a mantenerci in vita più a lungo e sani. Offrire prospettive di vita addirittura infinite a una fetta di popolazione abbiente e anziana è però una novità. Semplificando, la ricerca e l’azione sul DNA sono rivoluzionarie e le “scoperte” hanno e avranno valore sempre crescente, perché attaccano il senso del limite, della caducità, offrendo prospettive abbacinanti, molto adatte al substrato di un film come questo.

CP.: Nel film si riscontrano due altre integrazioni significative rispetto al libro. Da un lato, con il personaggio di Marco Paolini, che ci porta a Hong Kong e mostra come funzionano concretamente le dinamiche di potere per cui nel mondo globalizzato chi tira le fila degli affari opera nell’ombra e in altri continenti. Dall’altro il fatto che, fin dalla primissima scena, nel film sono presenti molti simboli religiosi che accompagnano l’intera parabola dei due piccoli imprenditori veneti, Colombo (Mirko Artuso) e Rampazzo (Diego Ribon). Inoltre, nel ruolo del prete appare come attore Vitaliano Trevisan: è stato scelto anche in rapporto al suo essere scrittore e a ciò che ha scritto?

AR.: Il ruolo interpretato da Marco Paolini è quello di Vockler, un banchiere senza scrupoli che sfila il progetto a Rampazzo, difendendo con ogni mezzo la sua leadership nella banca. Abbiamo allargato il suo raggio d’azione alla globalizzazione perché, appunto, i grandi investimenti nel real estate e i nuovi business dell’infinity life sono spesso nelle mani di soggetti che operano sul piano della finanza planetaria, che muovono pedine nelle periferie del mondo da stanze dei bottoni a migliaia di chilometri di distanza.

Rampazzo è un Cristo, lascia la scena allargando le braccia e invocando il “padre” lavoro (in fondo è stato crocifisso), viene tradito da chi gli è più vicino, è attorniato da tre Marie, guida e sogna in maniera ingenua. Tutto ciò necessitava di appigli anche molto visibili e, durante un’improvvisazione preparatoria in un albergo abbandonato, Mirko Artuso, che interpreta Colombo, ha iniziato a raccogliere i crocifissi alle pareti, così il simbolo si è imposto ed era, con un buon effetto di vertigine, nelle mani giuste e maneggiato ossessivamente. Da lì si è cominciato a costruire il mondo religioso di Colombo, peraltro pensavamo che la curia in qualche modo potesse aver interessi in un affare immobiliare di provincia e che riguardasse gli anziani. Di Colombo non conosciamo famiglia o vita privata, quindi che avesse un amico prete ben calzava. Conosco il lavoro di scrittore di Vitaliano Trevisan, ma l’ho scelto per il ruolo in quanto attore e perché ha uno scanzonato rapporto amical/cameratesco con Artuso, anche su questo ho basato la mia decisione.

CP.: Nel film emergono poi almeno altri due riferimenti letterari: la voce fuori campo sembra citare alcuni passi ispirati a opere di Jonathan Franzen; il titolo del capitolo 4, Resistere non serve, rinvia a quello di un romanzo di Siti.

AR.: Alcuni passaggi di Jonathan Franzen mi sono stati suggeriti da Bugaro, così ho pescato piccole ispirazioni qua e là. Conosco e amo il romanzo di Siti, ma il riferimento nel titolo del capitolo del film è puramente casuale.

CP.: Se Bugaro adopera la lingua italiana anche per i dialoghi, nel film (come in Piccola patria) i personaggi parlano in dialetto: è un dialetto ben determinato che evoca la dignità dell’appartenenza a una comunità e a una tradizione, oppure una sorta di mescolanza di parlate del Triveneto? In un romanzo di Francesco Maino (Cartongesso) si definisce “grezzo” un dialetto imbastardito diffuso, scrive Maino, in tutto “il Mesovenetorientale”, che serve a sfogare fissazioni ricorsive per gli “schei” (ossessione che ritorna in entrambi i suoi lungometraggi), ma quest’ultimo riferimento non è forse pertinente al film…

AR.: Il tema del dialetto nel film apre a considerazioni extra-letterarie. Che gli attori, e ogni attore a suo modo, utilizzino il dialetto ha un portato importante. Se, come nel caso degli interpreti di Effetto Domino, usano il dialetto che conoscono e magari parlano nella vita di tutti i giorni, o non hanno mai dimenticato, usano una lingua pre-materna, extra-scolastica, profondamente orale ma anche fisica, che si accompagna a gestualità, intenzioni e posture che creano figure. Il dialetto è la lingua dell’infanzia remota, della terra (anche d’origine), di alcuni modi di “stare al mondo” diretti, frugali, spicci, contenitori di declinazioni di sentimenti che in lingua nazionale non sono neppure pensabili, così credo sia stato per gli attori che hanno creato i personaggi di Effetto Domino e Piccola patria. Vero, in qualche modo è lingua dell’intero Triveneto, nel film l’abbiamo adattato, se vogliamo esser precisi: la famiglia Rampazzo parla un padovano dell’est, ai confini con il veneziano dell’entroterra, Colombo il trevigiano, altri personaggi avevano come riferimento il veronese, il veneziano, il padovano del sud della provincia. Sappiamo che il dialetto veneto – certo contemporaneo, grezzo e imbastardito, ma il dialetto è mobile e cangiante per definizione, fai un chilometro e già si trasforma – è molto usato, anche nel lavoro, in conversazioni tecniche, intime, in famiglia, in chiesa, addirittura nelle istituzioni. Un po’ a partire dal gruppo di lavoro che nei due film è rimasto lo stesso, un po’ ispirandomi a ciò che facendo ricerca per Effetto Domino incontravo o vedevo intorno a me, ho deciso che il dialetto dovesse essere portante. Capisco bene la definizione da Cartongesso, ma non è adatta al film, qui tutte le parole suonano dentro ai corpi, alla cui precisa umanità si deve poter credere emotivamente a tutto tondo, sfoghi e fissazioni ricorsive comprese.

CP.: Nella sinossi ufficiale del film si legge: «Entro il 2030, nei paesi ricchi gli abitanti di più di 65 anni saranno il 30% del totale. Nel 2050, per la prima volta nella storia del genere umano, la popolazione di anziani supererà numericamente quella giovane». Non sappiamo quanto inciderà in queste previsioni la pandemia di Covid-19, ma forse in molti ne usciranno un po’ più consapevoli della portata della mondializzazione e dei suoi risvolti?

AR.: È presto per sapere se la pandemia cambierà le percentuali. La Covid-19 di certo pone la questione dell’allocazione delle risorse e focalizza l’attenzione sulla terza età, sul suo valore vitale “non commerciale”, qualcosa di molto lontano dalla filosofia new old.

Sono d’accordo con Arundhati Roy che nei giorni scorsi ha scritto che la rottura indubbiamente c’è stata e in questa disperazione si può forse ripensare la macchina da giorno del giudizio che ci siamo costruiti intorno.

CP.: Tornando al progetto di Una banca popolare, la messa in scena del testo di Bugaro che rappresenta il primo lavoro per il teatro di entrambi, in quale relazione è con Effetto Domino?

AR.: Ho spiegato all’inizio che, con una strana virata, il testo è diventato anche una sceneggiatura e poi un film, ancor prima di andare in scena a teatro. Il testo originale è cambiato molto durante le prove, prima dello spettacolo. Non lo abbiamo rispettato, nella migliore accezione del termine, e nella sceneggiatura lo abbiamo torto, cambiato, poi ha respirato l’aria del set e anche lì è cambiato, adattandosi ai luoghi e agli attori. Considero che il film Una banca popolare sia molto lontano da Effetto Domino, è in bianco e nero, racconta di una lunga notte in una villa, niente dialetto, è nettamente diviso in due parti e la seconda è un monologo. Ma ci sono collegamenti innegabili: ancora una volta alcuni attori di Piccola patria ed Effetto Domino, un nord est italiano ideale come teatro d’azione, denaro e tradimento, una pistola nelle mani sbagliate.

Note

1 R. Bugaro, Effetto domino, Torino, Einaudi, 2015.