Ospiti con i figli Elisa e Antonio, di Pietro Pancrazi, Renata Orengo e Giacomo Debenedetti vissero immersi in un paesaggio come incantato durante l’occupazione nazista. Un paesaggio, però, “con figure”, come ebbe a dire proprio Piero Pancrazi e altri che in quello scenario di campagna trascorsero lunghi mesi.
Il diario di Renata Orengo rivede adesso la luce per lodevole iniziativa del Comune e dell’Anpi di Cortona, ma il fatto notevole è che il diario copra i giorni che preludono alla stesura di 16 ottobre 1943, il più doloroso parto letterario di Giacomo Debenedetti. “Il grembo” della Shoah, lo definiranno la Morante e Saba nelle Scorciatoie. Un altro poeta, sensibile alla questione ebraica, Giacomo Noventa, era frequentatore di quelle conversazioni. Anni dopo, progettando di scrivere una introduzione alla Silerchia di Mondadori che avrebbe accolto il racconto della razzia nel ghetto di Roma, scrisse, ai limiti quasi dell’ingenuità, che secondo lui bisognava affrontare e non rimuovere «il problema di come gli ebrei, dopo le persecuzioni avessero la capacità di ricominciare a vivere».
Se lo stavano ponendo in molti quel problema, subito dopo la liberazione di Roma, quando non tutta l’Italia era libera, e sarà così ancora per anni, quando affiorano le prime testimonianze, in un clima di ritorno alla vita che non è ancora stato ricostruito come si dovrebbe e fu segnato da indifferenza, rimozioni. Se lo era posto il problema, a modo suo e con grande dottrina, un filologo come Giorgio Pasquali, che si era trovato ad affrontare la stessa situazione di Primo Levi quando si vide negata la pubblicazione di Se questo è un uomo. Aveva infatti ricevuto dinieghi la pubblicazione dei Ricordi di giovinezza di un professore tedesco di Marc Lidzbarski. Prima di arrendersi e pubblicare su rivista il suo magnifico saggio introduttivo (una pionieristica ricognizione nel mondo degli ebrei orientali), Giorgio Pasquali aveva bussato invano all’uscio di quattro o cinque grandi editori. Non aveva chiuso gli occhi davanti a quella dura realtà nemmeno Leo Valiani, che sempre nel fatidico 1947, in una bella pagina del suo Tutte le strade conducono a Roma, scrive:
Si parla spesso del paesaggio durante l’occupazione tedesca, se ne parla anche quando si riflette al futuro che progettiamo per i Musei, i memoriali: come collocarli nel continuum della storia e come far sì che i giovani si avvicino ad essi in un contesto generale che spesso li vede ostaggi di luoghi comuni e di politiche aggressive. Se ne parla di continuo, ma scarseggiano idee nuove, sui musei da costruire, su memoriali e su allestimenti scenici da collocare in “paesaggi contaminati” come Fossoli, il Portico d’Ottavia, ma anche la campagna intorno a Cortona nei giorni burrascosi della ritirata tedesca, di cui Renata Orengo ci restituisce i contorni, senza perdere mai di vista il conforto della letteratura (Manzoni) e ancora di più delle arti figurative: «Piero della Francesca vive in questa terra dopo tanti secoli».
Quando si parla di paesaggio si parla di tante cose diverse. Un grande architetto francese Gilles Clément ha parlato di tre paesaggi da salvaguardare: quello dell’idillio paesaggistico, quello della sua rappresentazione artistica (nel nostro caso la migliore letteratura) e quello della natura incolta e abbandonata. Leggendo il Diario del Cegliolo mi è venuto in mente che esiste forse un Quarto Paesaggio, quello della Memoria, che raduna in sé tutti gli altri: lo trascuriamo o lo tuteliamo in modo inadeguato.