Ragionando intorno a
(e dialogando attraverso)
Per Gramsci.
Crisi e potenza del moderno

di Alberto Burgio
Giuseppe Morrone

Alberto Burgio, Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, Roma, DeriveApprodi, 2007.

Crisi organica. È questo il nesso concettuale tramite il quale Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, collega, a livello europeo (seppur differenziando la situazione francese dalle altre), la fine delle speranze progressiste, e sempre più inclusive, originate dalla «frattura» del 1789 e culminate, secondo la periodizzazione gramsciana, nell’enorme tentativo egualitario, represso nel più amaro sangue, della Comune di Parigi, 1870, alla fase di restaurazione instaurata, appunto dall’ultimo trentennio del XIX secolo in poi, mediante diverse forme più o meno repressive ma tutte regressive in senso sociale, dalla classe borghese dominante, sino all’avvento dei regimi strutturalmente autoritari, quali il fascismo o, più avanti, il nazismo. Ritorneremo sul senso più propriamente da intendere a proposito del concetto di «crisi organica». Nel mentre, compiamo un balzo di qualche decennio e giungiamo al modello del Welfare State, affermatosi, su vasta scala, nel blocco occidentale, e cosiddetto democratico, a partire dall’immediato secondo dopoguerra e consolidatosi quale forma di una, seppur minima, rete di diritti fondamentali (istruzione, sanità, previdenza, servizi) garantiti alla collettività di una determinata nazione, oltre che sottratti alla babele del Mercato, fino alla metà degli anni ’70 del XX secolo. A partire da questo determinato periodo storico, ma con un lavorìo teorico già avviato sin dagli anni ’60 (basti pensare alla Scuola di Chicago o ai testi di Nozick e Von Hayek), coincidente con l’emergere, prepotente quanto inizialmente mellifluo, mediante diverse forme, eventi e figure (la Commissione Trilaterale, la crisi petrolifera del ’73, il Fondo Monetario Internazionale, le altre istituzioni sovranazionali ed i loro suggerimenti/dettami di tagliare le spese sociali ed eliminare gli ostacoli all’iniziativa privata, il “post-fordismo” esprimentesi attraverso la ri-strutturazione aziendale su larga scala e la marginalizzazione, o la scomposizione, della classe operaia, Ronald Reagan, Margaret Thatcher, il crollo sovietico, il sindacalismo a-conflittuale, la “terza via”, ecc…), della “contro-rivoluzione” neo-liberale, si è giunti, nei tempi attuali, all’apice dei guasti sistemici prodotti dalla globalizzazione,1 complesso fenomeno guidato dall’assunto imperativo della sfera economica (e finanziaria), in senso liberista (privatizzazioni, deregolamentazioni e concorrenza i dogmi), come cardine, e grimaldello, del Tutto (non soltanto della sfera politica); comprese le espressioni che ad essa erano state sottratte o rese neutre da parametri di socialità diffusa.

Questa sorta di scorrimento, per somme e rozze linee, dell’ultimo secolo e mezzo di storia europea è necessario per contestualizzare l’architettura del testo di Alberto Burgio che abbiamo preso in esame, Per Gramsci – Crisi e potenza del moderno (DeriveApprodi 2007), ed il nucleo centrale che lo orienta: un’attenta, e pregevole, ri-cognizione dell’opera gramsciana, attraverso taluni snodi fondamentali quali l’analisi sul fascismo e sul, per Gramsci secondo Burgio, dialettico concetto di cesarismo, o, ancora, sull’americanismo ed il fordismo, oppure, per terminare questa carrellata, a proposito della basilare questione dell’egemonia, e delle relazioni egemoniche, sicuramente uno dei cardini dell’intero pensiero gramsciano. Tale ri-cognizione, d’altronde, ed è questa la cifra irriducibile, non resta ancorata al passato, o ad una pur necessaria ri-sistemazione di determinati argomenti entro i confini delle interpretazioni tradizionali, bensì pretende di connettere, entro la cornice unitaria della modernità, una parte delle riflessioni gramsciane, appena elencate, con la situazione attuale. Non a caso, il primo capitolo dell’opera, il quale funge da introduzione argomentata, s’intitola, significativamente: «1937-2007. Gramsci per noi».

In esso, Alberto Burgio, per il tramite di un’esposizione pregna di forma e di sostanza oltre che di un tessuto di senso innervato dal lessico o dalle concettualizzazioni dei Quaderni o, direttamente, tramite un uso arguto, ed innestato sapientemente entro le trame del suo discorso, delle citazioni di alcune note gramsciane, e partendo dall’affermazione dello stato di crisi quale condizione normale della democrazia, enuclea, a compimento di quaranta esaustive ed avvolgenti pagine, quella che è la tesi principale del suo lavoro, la quale permette di comprendere al meglio il fuoco stesso dell’intero testo.

Oggi, e da trenta anni a questa parte, il capitalismo è egemone su gran parte del pianeta. Esercita il proprio potere ideologico, produttore di soggettività e di universi simbolici, su sterminate masse di individui che, pure, ne subiscono la crescente distruttività. La crisi democratica è di per se stessa anche questa potenza egemonica. Permane e si approfondisce in forza della «concentrazione inaudita dell’egemonia» [802]2 di cui il capitalismo è tuttora capace. Ma anche questo dato di fatto, al pari di tutti gli aspetti della crisi che abbiamo via via indagato, presenta una essenziale ambivalenza. Anche per ciò che attiene al terreno ideologico la crisi comporta «un continuo formarsi e superarsi di equilibri instabili» [1584]. Non si limita a sorreggere e a legittimare la difesa aggressiva del vecchio mondo contro il pericolo del suo tramonto. Custodisce anche, e alleva nascostamente nel suo seno, un incoercibile bisogno di alterità. Semina e diffonde, con l’ideologia dei dominanti, anche un’istanza di cambiamento. Di giustizia, di libertà e dignità per tutti: «il sogno di una cosa». La crisi è luogo di ambivalenze. Di instabilità, di conflitti e di più o meno potenti dinamiche progressive. La dialettica della crisi moderna (la tensione fra vettori espansivi e risposte regressive) è il grande tema dei Quaderni del carcere. Anche quando si interroga sull’avvento del fascismo, Gramsci riflette in base a questo presupposto. Per tale ragione – prigioniero mentre parte dell’Europa soggiace alla tirannide – dichiara quella vittoria «transitoria» [1744], al pari della sconfitta subìta dal movimento rivoluzionario nel tentativo di generalizzare l’Ottobre. È questa la sua fondamentale lezione, grazie alle quale ancora oggi – a settant’anni dalla sua morte – leggiamo nei Quaderni la partitura teorica della nostra epoca e della sua crisi.3

Nel secondo capitolo, «Una storia critica della modernità», Burgio, pur sottolineando il dato oggettivo dei Quaderni come opera molecolare, diffusa, frammentaria, sostanzialmente interpretabile, non cede alla semplificazione del considerarla come un lavoro privo di un filo comune, magari ascrivibile ad altre correnti di pensiero, e di pratica, che non siano quelle rivoluzionarie, e specialmente comuniste, oppure, ancora, dal punto di vista dello stile, come spesso si è affermato, rientrante entro una forma letteraria meramente aforistica.4 Consapevole delle difficoltà, anzitutto materiali, affrontate da Gramsci nella creazione e nella stesura, e di conseguenza del carattere forzosamente non strutturato metodicamente a livello teorico, quel che, secondo Burgio, emerge chiaramente è una linea fedele e coerente, pur tra le variazioni imposte dal trascorrere degli eventi, con il Gramsci fondatore di «Ordine Nuovo» e del Pcd’I. Le «quistioni di metodo» non si limitano a questo, bensì investono la pura essenza del testo preso in considerazione; come abbiamo già avuto modo di accennare, in una maniera perfino motivata dall’autore, a partire dalla natura certamente incompiuta dei Quaderni, Burgio s’incarica di completare Gramsci, sollecitando i testi, selezionando ermeneuticamente gli argomenti da trattare ed applicando alla contemporaneità le posizioni che se ne traggono, lavorandole di senso storico, e politico, presente, come mostrato nell’estratto su riportato. Un Gramsci integralmente marxista, in contrapposizione ad ogni altra lettura (vedi la postilla: «La dialettica, Croce e le pretese di Bobbio»), per una rinnovata, possibile ed attuale prospettiva di trasformazione sociale.

Ma quale è la convinzione che muove e guida, razionalmente, Alberto Burgio, per tramite di Antonio Gramsci, in questa prospettiva, apparentemente azzardata, appena accennata? È necessario (nella nostra comprensione), per potere parzialmente rispondere, ri-andare al concetto di «crisi organica» in Gramsci (e sua succedanea funzione in Burgio), non a caso posto come incipit di questa recensione, tramite un ulteriore confronto diretto con il testo.

È dal caso francese che emerge con la massima evidenza la logica della crisi moderna, conseguenza del dispiegarsi della contraddizione immanente nella riproduzione capitalistica. Sino a un certo punto (finché il modificarsi della composizione sociale e degli assetti di potere si mantiene coerente con la «funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell’attività economica» [1591] il processo di accumulazione si accompagna a una dinamica inclusiva (alla «espansività» del dominante). Superata questa soglia, però, la conservazione delle condizioni della valorizzazione impone (per effetto della concorrenza, della lotta di classe, delle stesse dinamiche che quest’ultima induce nei rapporti di forza politici) il rovesciamento della tendenza espansiva in una dinamica opposta: sia sul terreno del processo di produzione (tramite l’aumento della «composizione organica» del capitale e la conseguente riduzione della base produttiva: processo che Marx definisce «distruzione di forze produttive sociali») sia sul piano sociale (attraverso il restringimento della sfera della cittadinanza). Questa essenziale ambivalenza del sistema è responsabile del passaggio alla terza fase (post-1870) della modernizzazione europea. Dopo ottant’anni di fioritura, più o meno contrastata, l’Europa borghese entra – nella periodizzazione adottata dai Quaderni – in una fase di crisi strutturale, sistemica. Gramsci la chiama «crisi organica», intendendo sottolinearne la non-risolvibilità nel contesto della stessa formazione sociale in cui si è determinata: il fatto che – essendo «strutturale e non di congiuntura» – la crisi «non può essere superata che costruendo una nuova struttura» [1716]. Si tratta insomma di una crisi che richiede un passaggio rivoluzionario: nella prospettiva di Marx (che Gramsci fa propria), un mutamento del modo di produzione (PG, pp. 68 e 69).

È altresì basilare assumere, specie in riferimento agli intenti di Burgio, la previsione gramsciana sulla lunga durata della «crisi organica». Ancora dal testo in oggetto.

È rilevante (se teniamo conto della marcata preponderanza delle diagnosi catastrofiste o «crolliste» nel dibattito interno al movimento comunista a partire dalla seconda metà degli anni Venti e in particolare dal VI Congresso del Comintern, nel luglio del ’28) che Gramsci senta il bisogno di mettere l’accento sulla lunga durata della «crisi organica». Fermo restando il carattere per definizione «transitorio» delle contromisure opposte dal sistema a una crisi non superabile all’interno del suo quadro strutturale, esso non dice tuttavia nulla riguardo alla «durata temporale» del processo critico e dunque del sistema stesso, che può ben «durare a lungo, relativamente» (differendo il momento della transizione a un’altra formazione sociale) in virtù delle proprie «forze di vischiosità… spesso insospettate» [1744]. A tal punto Gramsci è consapevole che i tempi della transizione sono verosimilmente molto lenti, da arrivare a sostenere che «durerà probabilmente dei secoli» [882] il processo di rivoluzionamento della società capitalistica, nel corso della quale gli elementi di dominio (funzionali alla conservazione delle dinamiche di sfruttamento del lavoro vivo) cederanno il passo a una relazione sociale costruita nel segno dell’autonomia dei «produttori immediati» e del self-government del corpo sociale. Gramsci insomma non condivide nulla del catastrofismo terzinternazionalista, frutto di analisi precipitose (e ideologiche) delle società capitalistiche avanzate. E la sua acuta percezione delle elevate capacità di resistenza del capitalismo al di là della sua crisi (al di là dell’esaurirsi della sua potenzialità espansiva) esercita ovviamente un’influenza decisiva sull’analisi della «crisi organica» condotta nei Quaderni. Più precisamente, essa permette a Gramsci di studiare il fascismo con straordinaria lucidità, anticipando per molti aspetti le più avvertite analisi storiografiche del regime elaborate nel corso del dopoguerra. Quando, per citare l’esempio forse più illustre, nei primi anni Settanta Renzo De Felice tematizza – destando scalpore e imbarazzo – la questione del «consenso», egli non fa che riprendere (se ne rendano o meno conto lui e quanti se ne scandalizzano) una intuizione fondamentale di Gramsci: la consapevolezza che il fascismo non si regge sul puro dominio, sull’esercizio della pura forza coercitiva, ma dispone anche di una straordinaria capacità di direzione e di controllo sociale. E questo non soltanto sul terreno dell’egemonia ideologica, ma anche su quello – capitale – dell’egemonia economica (grazie a quelle «modificazioni» della struttura produttiva del Paese in virtù delle quali il regime ha introdotto elementi di pianificazione, «socializzazione» e «cooperazione» [1228] e ha risposto, in qualche misura, a «necessità storiche attuali» [1743]: appunto quelle che, sullo sfondo della «crisi organica» del capitalismo, imponevano lo sviluppo di «economie programmatiche»). Sia che si propenda per ipotesi «crolliste», sia che invece si inclini (con Gramsci) per la lunga durata della «crisi organica» del capitalismo, resta dunque fermo che quest’ultima è, per definizione, insuperabile. Ciò significa che (una volta assunta la diagnosi di «crisi organica») la borghesia è in condizione di mettere in campo contro-misure di puro contenimento (PG, pp. 70 e 71).

Esauriti, con una necessaria ottica approfondita, i cruciali temi, per l’impostazione contenutistica integrale del testo di Burgio, posti dal concetto di «crisi organica», restano da percorrere gli ultimi tre capitoli, concentrati, rispettivamente, sulla ri-lettura e l’interpretazione (mediante gli strumenti ermeneutici passati in rassegna, indirettamente presentati tramite i tre precedenti frammenti) delle diagnosi gramsciane a proposito del fascismo, del bonapartismo, del cesarismo e dell’egemonia. Nel terzo capitolo («Complessità e regressione. L’analisi del fascismo»), attraverso le categorie di rivoluzione passiva, rivoluzione-restaurazione e cesarismo, e loro distinzione analitica, si snoda una parte rilevante della riflessione gramsciana sulle forme della trasformazione politica nel mondo contemporaneo, così come, per quanto riguarda lo sviluppo della «tecnica politica moderna», per Gramsci, si tratta del passaggio, compiutosi in Occidente dopo la prima guerra mondiale, della lotta politica dalla «guerra manovrata» alla «guerra di posizione». Senza stare a sviscerare ogni processo, definito in tale modo il quadro generale, l’analisi specifica sul fascismo diviene di assoluta pregnanza, lì dove a campeggiare come centrale permane la categoria di complessità sociale. Al termine del capitolo, dopo avere evidenziato due caratteri sostanziali del modello fascista italiano, già sedimentatisi negli anni precedenti l’avvento di Mussolini, quali il corporativismo e la burocrazia, Burgio, non prima di avere sottolineato come, per Gramsci, lo «Stato integrale fascista rappresenti lo strumento politico essenziale per l’esercizio di una dittatura borghese fondata sull’oppressione della classe operaia e delle masse popolari» (PG, p. 105), espone il consuntivo.

Una «razionalizzazione regressiva», questo è il fascismo quale emerge dalle pagine dei Quaderni. Mescolanza di elementi di razionalità (nella misura in cui le trasformazioni impresse agli assetti istituzionali e alle forme della produzione e del controllo sociale rispondono ai mutamenti effettivi della società contemporanea di massa) e di irrazionalità (dove l’innovazione tende, secondo la logica propria dei processi restaurativi, alla conservazione degli equilibri di potere precedenti): complessità e contraddizione che Gramsci insegna a riconoscere come caratteri essenziali della «crisi organica» del vecchio ordine e della lunga transizione verso la «nuova società» (PG, p. 105).

Nel quarto capitolo, per quanto concerne la coppia concettuale contrassegnata dal bonapartismoe dal cesarismo, fatta salva la necessaria separazione teorica, Burgio sottolinea come lo stesso Gramsci adoperi prevalentemente il secondo lemma pur non omettendo, completamente, riferimenti al primo, anche se spesso in forma di derivati di esso. È, tuttavia, necessario chiarire come la categoria di bonapartismo venga, sostanzialmente, utilizzata da Burgio, tramite Marx (autore in cui è fortemente presente, anche perché coevo del periodo da cui il concetto nasce e si solidifica) e Weber, per indicare due casi storici analizzati da Gramsci, i quali, nella loro disanima attuata attraverso i Quaderni, presentano connotati attinenti e contesti di riferimento alla categoria in oggetto: la cosiddetta «dittatura» crispina e «il ruolo politico svolto nella crisi italiana dalla burocrazia quale ceto segnato da marcate connotazioni castali» (PG, p. 111). Secondo Burgio, ciò che si deve trarre, senza alcun dubbio, è il giudizio assolutamente negativo che Gramsci, così com’era in Marx, attribuisce a queste esperienze e, tramite queste, al bonapartismo tout court. Questa potrebbe parere una ovvietà nemmeno da accennare, ma, spostandoci al giudizio intorno al concetto di cesarismo in Gramsci, Burgio ci fa notare, sin dal titolo del capitolo («L’ambivalenza del cesarismo»), come esso debba considerarsi, appunto, non solo ponderato, ma, persino, positivo, se inteso in una certa accezione. Vediamo in che modo, pescando a piene mani dal testo, attraverso un frammento nel quale Burgio si pone nell’epoca storica di Gramsci.

Abbiamo ripetutamente detto che la crisi novecentesca gli appare nei termini di un fondamentale equilibrio tra le forze in lotta. Se così non fosse, se lo scenario non presentasse un «equilibrio catastrofico» tra le classi fondamentali, non vi sarebbe bisogno di rotture cesaristiche che invece si moltiplicano in tutto il continente. Ma un equilibrio implica l’esistenza – al cospetto del dominante – di un’altra forza, altrettanto significativa. La domanda che si pone è allora: chi è, come si configura l’altro possibile Cesare, quello che, qualora vincesse, imprimerebbe alla crisi organica della società borghese uno sviluppo progressivo? L’impressione è che anche a questo riguardo Gramsci introduca una significativa novità nel quadro teorico della tradizionale analisi del cesarismo. Una costante in questa analisi è costituita dal riferimento a una leadership cesaristica (o bonapartistica) individuale. Nei Quaderni prende forma invece una riflessione che lascia intravedere un’ipotesi diversa, nella quale il nuovo Cesare è un soggetto collettivo. Tutta la ricerca gramsciana sui caratteri della modernità avanzata ruota – lo abbiamo notato a più riprese – intorno al tema della complessità e dell’ambivalenza dello sviluppo storico “moderno”. In Occidente la società civile è stratificata, articolata, densa di soggettività. Tali caratteristiche si sono via via accentuate sino a dar forma, nel dopoguerra, a un quadro estremamente compatto («massiccio» è un termine ricorrente a questo riguardo nella pagina gramsciana), nel quale il conflitto politico si dispiega necessariamente attraverso una contesa graduale, faticosa, tesa alla conquista di zone circoscritte di società. È il tema, classico, della «guerra di posizione»… In questo scenario Gramsci insiste sul fatto che protagonisti della scena politica non sono più i soggetti individuali, ma i corpi collettivi… Come i giacobini furono, in quanto suscitatori della volontà collettiva della moderna nazione francese, una «incarnazione categorica» del Machiavelli, così il partito operaio è a sua volta il nuovo Principe che – assunta l’eredità del giacobinismo – diviene portatore e realizzatore della volontà collettiva, cioè della «volontà politica in senso moderno» [1559]. Senza con ciò dimenticare le critiche di Gramsci al concetto «michelsiano» di «partito carismatico» [234], si può sostenere che è precisamente questo «moderno Principe» il protagonista potenziale di un nuovo cesarismo progressivo: di un cesarismo collettivo e quindi, per dir così, di un cesarismo senza Cesare, dove «autorità» e «decisione» sono funzioni di esercizio della volontà collettiva e del self-governmentCesarismo può significare – ed è stato sicuramente così con il fascismo – decisionismo e accentramento repressivo Ma ora questo classico termine del lessico politico può evocare anche il dispiegarsi di un’autorità di massa, diffusa e plurale («molecolare»), capace di assumere decisioni coerenti con un rinnovamento generale della società e con il progressivo instaurarsi di «una nuova egemonia più sicura e più stabile» [84] (PG, pp. 117, 118, 119).

Nel corso del quinto, ed ultimo, capitolo, intitolato «Ubiquità e potenza dell’egemonia», Burgio scandaglia quello che considera, a ragione, uno dei concetti più importanti, popolari e, a suo giudizio, in parte travisato, del multiforme impianto teorico gramsciano. Si parte con il fissare delle constatazioni.

Dai numerosi luoghi dei Quaderni in cui Gramsci fornisce elementi utili a una definizione del concetto di egemonia parrebbero a prima vista emergere due impostazioni distinte e tra loro in apparenza incompatibili del problema. Il che parrebbe deporre a favore delle critiche mosse da Perry Anderson, secondo il quale la riflessione gramsciana sull’egemonia è contraddittoria e caratterizzata da indeterminatezza e ambiguità. La prima accezione di egemonia attiene al terreno della relazione politica e designa una forma di relazione («la direzione intellettuale e morale») definita per differenza rispetto al rapporto di comando (di «dominio diretto» o di «coercizione»). Sembra che questo intenda Gramsci quando, inaugurando la riflessione sugli intellettuali nel quaderno 12, fa riferimento «ai due grandi “piani” superstrutturali» della «società civile» e dello «Stato-governo», dove l’un piano (lo Stato in senso stretto) è deputato a svolgere la funzione «di “dominio diretto” o di comando che si esprime nello Stato e nel governo “giuridico”»; l’altro – specificamente «corrispondente alla funzione di “egemonia”» – è costituito dall’«insieme di organismi volgarmente detti “privati”» della «società civile» [1518-9; 476],22 cioè, coerentemente con la peculiare accezione di questa idea in diverse note dei Quaderni da quel complesso di istituzioni, funzioni e organizzazioni attive sul terreno “superstrutturale” dell’iniziativa culturale (scuola e università, stampa e organi di comunicazione in generale, case editrici, biblioteche, letteratura popolare, urbanistica, arti figurative, toponomastica, ecc…) che Gramsci colloca sotto l’efficace definizione di «struttura materiale dell’ideologia» [333] (PG, pp. 122 e 123).

Una prima, e fondamentale, complicazione a questo schema (la distinzione fra due forme di potere: il comando in quanto sinonimo di «coercizione» e «dominio diretto», e l’egemonia in quanto sinonimo di «direzione intellettuale e morale»), secondo Burgio, sovviene nell’assumere la diversificata connotazione di ambiti lungo la quale Gramsci declina il concetto di egemonia («politica», «economica», «commerciale e finanziaria», «sociale», «civile», «intellettuale», «politica e culturale», «politico-culturale» e «politico-intellettuale», «intellettuale, morale e politica», «etico-politica»). Infatti, ad esempio, ci si chiede: «come potrebbe la “società civile” essere, in quanto tale, la sede dell’egemonia politica e soprattutto economica»? (PG, p. 124).

Distinguendo, indiscutibilmente, a partire da ciò che scrive lo stesso Gramsci, fra «egemonia» e «coercizione» (comando), in quanto nella prima è presente un elemento di consenso (figlio del prestigio e della fiducia espressi dal gruppo fondamentale dominante) assente nella seconda, Burgio, bocciando come riduttiva, seppure a più riprese presente fra le stesse righe dei Quaderni, l’equazione assiomatica fra egemonia e società civile, tenta di individuare «un quadro unitario e potente» (PG, p. 125), considerato interno al volere gramsciano che egli s’incarica, come detto, d’inquadrare e di finalizzare, il quale tenga conto, come base imprescindibile, di quello che definisce il carattere di ubiquità dell’egemonia.

Contro tale semplificazione si può infatti sostenere che Gramsci pensa e intende affermare che nella società borghese tutte le funzioni sociali (compresa la relazione politica; compresi i rapporti di produzione e lo stesso processo di produzione immediato – si consideri il caso paradigmatico del fordismo) sono di per sé capaci – e hanno al tempo stesso il compito stringente – di generare direzione intellettuale e morale nell’interesse del dominante. A tutte le funzioni sociali – questo è in sostanza il tema – ineriscono, nella società moderna, relazioni intellettuali; tutte le articolazioni della relazione sociale costituiscono nessi in cui la capacità di dirigere (cioè di generare consenso, di esercitare egemonia) svolge un ruolo rilevante (e spesso decisivo). In altri termini Gramsci coglie la centralità del fattore discorsivo: il fatto che – senza che ciò nulla tolga alla materialità delle funzioni, che ne viene tuttavia connotata, e, per dir così, sovradeterminata – nella società moderna («di massa») la comunicazione (il flusso simbolico affidato alla suggestione delle immagini e degli strumenti retorici nella relazione cognitiva, nello scambio linguistico, nella creazione artistica, ecc…) svolge funzioni strategiche in tutti gli snodi della relazione sociale (cioè tanto nella sfera della produzione, quanto in quella della riproduzione)… Agli occhi di Gramsci, la relazione egemonica (la costruzione di relazione consensuali) è di necessità letteralmente ovunque e quindi ovunque vi è spazio per (e si richiede) la produzione di ragioni, di costruzioni ideologico-simboliche a sostegno del rapporto di potere. Per questo gli intellettuali (quali funzionari dell’egemonia) sono anch’essi ovunque (come nessuna funzione sociale possa ormai svolgersi in mancanza di una componente intellettuale). Lungi dall’essere confinata nella «società civile», l’egemonia è in realtà ubiqua e innerva l’intero ventaglio delle relazioni di potere… La teoria dell’egemonia riposa su una netta distinzione tra l’idea di direzione e quella di dominio. Ma, se da un lato tale distinzione va tenuta ferma (contro ipotesi di commistione che vanificherebbero qualsiasi sforzo analitico e – a maggior ragione – contro le critiche che attribuiscono a Gramsci tale confusione), essa va tuttavia annoverata tra le distinzioni concettuali (Gramsci direbbe «metodiche») e non tra le distinzioni reali («organiche»). Questa distinzione va presa insomma cum grano salis, nella misura in cui, ben diversi dalla loro logica (in astratto), direzione e dominio si presentano in realtà sempre mescolati tra loro: nella concreta realtà storico-politica l’esercizio del potere – fatta eccezione per il caso-limite della violenza fisica in atto – implica (si realizza in virtù di) un mix di direzione e coercizione in tutte le articolazioni della totalità sociale. Appare utile al riguardo riflettere sulla classica espressione «idee dominanti». Non si tratta di una contraddizione in termini né di un’espressione imprecisa, ma della consapevolezza che esiste anche una dimensione di dominio attinente al terreno dell’ideologia (la quale, nel prevalere, è a sua volta una funzione cruciale dell’intero sistema di potere, che si avvale anche del dominio in senso tecnico). Il potere (che si irradia, esercita e riproduce in tutte le articolazioni della totalità sociale) funziona sempre/ovunque con modalità diverse, in forme ibride, risultanti da un mix (sempre mutevole in base all’evolversi dei rapporti di forza) di dominio e di consenso, di coazione e di spontaneità, di coercizione e di egemonia, dove la subordinazione sfuma in un consenso che è tuttavia spesso passivo ed eterodiretto, cioè solo in apparenza spontaneo (PG, pp. 126, 127, 128, 142, 143).

Si giunge, in tale maniera, e attraverso ulteriori passaggi intermedi che non esamineremo per non abusare del nostro spazio, all’acme, secondo noi, della interpretazione di Burgio. Ed è con questa che concludiamo il nostro itinerario fra le pagine di un libro notevole, complesso, ambizioso, oltre che riuscito nei suoi intenti: uno strumento di sistematizzazione/interpretazione, a proposito di una fondamentale parte dell’opera di uno dei massimi pensatori del ‘900 italiano, schiudente ampi squarci d’azione pienamente spendibili all’ombra della deriva, sociale, culturale e politica, immanente ed imminente.

Restituita alla sua organica complessità, la teoria gramsciana dell’egemonia incontra la teoria della rottura rivoluzionaria. Si è sovente ragionato desumendo dalla rilevanza della «quistione dell’egemonia» nell’impostazione gramsciana la centralità della battaglia culturale, e scorgendo in ciò la prova del presunto congedo di Gramsci da Lenin e dal concetto di dittatura del proletariato (cioè la tesi secondo cui i Quaderni sostituirebbero una teoria mite e incruenta della rivoluzione – oggi si direbbe «non-violenta» – a una teoria cattiva, inutilmente feroce e brutale). Da qui il passo verso un Gramsci «sovrastrutturale» e «riformista», sostenitore della democrazia parlamentare – un Gramsci… ad usum Delphini – è decisamente breve. Si tratta tuttavia di ragionamenti privi di consistenza. Se quanto si è finora argomentato sul tema dell’egemonia coglie nel segno, la sua centralità/ubiquità non sposta in alcun modo il fuoco dell’attenzione sul piano culturale-ideologico a svantaggio della lotta di classe nella sfera della produzione (PG, p. 133).

Note

1 Per esaminare, in breve, uno dei tanti aspetti di tale processo, cioè la distruzione dei sistemi agricoli regionali e delle biodiversità a favore delle colture intensive, elemento produttore della recente “crisi alimentare” in diverse zone del globo, consultare l’articolo Così l’occidente produce la fame nel mondo” di Luciano Gallino, pubblicato su «Repubblica» del 10 maggio 2008.

2 2) Nel testo di Burgio, i riferimenti ai Quaderni sono posti tra parentesi quadre, senz’altra indicazione. Rinviano a: A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975.

3 A. Burgio, Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, Roma, DeriveApprodi, 2007, pp. 43 e 44. D’ora in poi PG.

4 Lì dove se anche così fosse, per parte dello scrivente, la critica negativa alla forma aforistica, da parte di Burgio, si scontrerebbe con esempi eccezionali quali i Minima Moralia di T.W. Adorno.