«Raffrontando e / rammemorando»
Memoria e allegoria in Una visita in fabbrica di Vittorio Sereni
Paolo Kutufà

Nel 1951, su Radio Monteceneri, Vittorio Sereni tiene un ciclo di sette lezioni intitolato L’avventura e il romanzo, nel quale, attraverso l’analisi di sei autori di romanzi d’avventura (tutti stranieri), pone l’accento su una caratteristica peculiare che accomunerebbe le loro opere. Sereni nota che nella totalità dei casi presi in esame

ci è dato assistere a un processo di graduale interiorizzazione della materia narrativa, dove ogni particolare descrittivo ha un senso pregnante e il documento è costantemente trasvalutato. Da ciò la presenza di un forte elemento lirico che sta a rappresentare il reciproco scambio e il sempre più stretto rapporto tra poesia e narrativa che caratterizza gran parte dell’esperienza contemporanea.1

Quest’osservazione, che non a caso si chiude con un riferimento esplicito al panorama letterario a lui contemporaneo, assume un’importanza notevole se messa in relazione alla poetica che il poeta di Luino andava sviluppando nel corso di quegli stessi anni (quelli del cosiddetto «silenzio creativo»),2 e che troverà piena realizzazione nella raccolta del 1965 intitolata Gli strumenti umani. All’interno del ciclo di lezioni è dato particolare rilievo allo scrittore statunitense Herman Melville, nel cui romanzo Moby-Dick; or, the Whale (1851) tali osservazioni riuscirebbero a trovare un chiaro e pieno riscontro. Di lui Sereni parla in toni certamente elogiativi e, riprendendo una suggestione già lanciata da Cesare Pavese nell’introduzione alla prima edizione della sua traduzione del romanzo3 (1932), lo definisce «un Dante del mare. Un Dante americano che abbia, a sua volta un senso letterale, allegorico e anagogico».4 Appare degno di nota che a più riprese venga rivolta l’attenzione alla molteplicità di significati acquisiti dalla materia narrativa, cioè su quel processo finalizzato ad una sistematica “trasvalutazione del documento” che non determinerebbe una degradazione del significato letterale del testo ma, al contrario, ne garantirebbe la nobilitazione. Sebbene questo procedimento rivesta un ruolo fondamentale nella lirica di Gli strumenti umani (1965), è bene notare che una sua antecedente definizione si trova nell’ambito delle prose critiche, ed in particolare in un saggio dedicato a dei narratori. Altrettanto degno di attenzione è il fatto che venga utilizzato il termine “allegoria”, e che in questo contesto trovi spazio un esplicito riferimento a Dante, ma su questo ritornerò in seguito. Nell’intersezione di lirica e narrativa trova terreno fertile l’allegoria: si può forse condensare così, forzando la sintesi, il discorso di Vittorio Sereni.

Comprendere il rapporto che si instaura tra questi tre elementi (lirica, narrativa, allegoria) è fondamentale per l’interpretazione della sua produzione in versi. A partire dal dato fattuale, concreto e storicamente determinato si produce un ampliamento dei significati che arriva a determinare il superamento della dimensione lirica, intesa come espressione di pura soggettività, a favore di una sorta di coralità del testo poetico. Per chiarire meglio questo punto, è utile ricondurre il termine “allegoria” alla teorizzazione che ne ha dato Walter Benjamin, che di questo tema si è occupato soprattutto nell’Origine del dramma barocco tedesco5 (1928) e nei saggi su Baudelaire e la Parigi del XIX secolo.6Benjamin considera l’allegoria come la forma artistica propria del moderno, ossia della società della grande industria dominata dal feticismo della merce. Nella moderna società capitalista, la realtà si offre sotto forma di innumerevoli chocs, ovvero di stimoli che la coscienza individuale non è in grado di organizzare temporalmente in quella che viene chiamata «esperienza vissuta»:

la funzione peculiare della difesa dagli chocs si può forse scorgere, in definitiva, nel compito di assegnare all’evento, a spese dell’integrità del suo contenuto, un esatto posto temporale nella coscienza. Sarebbe questo il risultato ultimo e maggiore della riflessione. Essa farebbe, dell’evento, un’«esperienza vissuta».7

Così, le esperienze individuali divengono un accumulo di frammenti reciprocamente svincolati e scissi dal proprio contesto originario, e subiscono un processo di reificazione che le rende oggetti estranei alla persona. Secondo Benjamin, con l’avvento della società capitalista e del feticcio della merce l’uomo moderno avrebbe perduto un rapporto continuo, privo di punti di rottura con il tempo. Quella che nelle epoche passate – quelle dell’esperienza vissuta – era una dimensione organica ed intera, nell’età moderna si è definitivamente ridotta in frantumi, e l’esperienza si presenta all’uomo simile ad uno specchio rotto.

Seguendo il pensiero di Benjamin, è in tale condizione che opera l’allegoria moderna, della quale Charles Baudelaire è considerato il pioniere. Il procedimento allegorico consiste, infatti, nella decontestualizzazione di un oggetto dal suo ambito naturale ed in una sua successiva collocazione in un diverso spazio interpretativo. Risulta, quindi, chiaro che tale operazione trova il suo habitat naturale tra i frammenti-oggetto dell’esperienza moderna. L’allegoria diventa, in questo modo, la modalità per mezzo della quale l’uomo contemporaneo si relaziona con la propria esperienza, effettuando il disperato tentativo di ricostruire una temporalità ormai frantumata dagli chocs a cui è costantemente sottoposta la sua esistenza. Essa ha la capacità di svolgere un’azione sia conservativa sia redentiva: da un lato isola il frammento dal contesto che ne determinava il senso, dall’altro, lo reinserisce in uno spazio nuovo, conferendogli un diverso significato. Con le parole di Walter Benjamin: «ciò che è colpito dall’intenzione allegorica rimane avulso dai nessi di vita: distrutto e conservato nello stesso tempo».8 È con tale genere di operazione che l’uomo moderno cerca di ricostituire la propria esperienza.

In un articolo intitolato Walter Benjamin e la memoria per la rivista «Quaderni di Cultura Junghiana», interrogandosi sulle questioni che ho cercato di definire, lo studioso Paolo Vinci evidenzia che, dal punto di vista psicanalitico,

l’esperienza, questo qualcosa che abbiamo perso, è, nel senso proprio del termine, il fatto che i contenuti del nostro passato individuale entrano in congiunzione, nella memoria, con il passato collettivo. La perdita dell’esperienza è nella società contemporanea il venir meno della possibilità di congiungere il passato del singolo individuo con il corso storico.9

Quest’osservazione è utile al fine di chiarire i nessi che permettono di legare il pensiero del filosofo tedesco al trascorso storico-esistenziale di Vittorio Sereni, che inevitabilmente ricopre un ruolo di primo piano nella sua poetica. Gran parte della sua produzione ruota, infatti, attorno all’evento traumatico della sua cattura da parte dell’esercito americano, ed alla seguente esperienza biennale di prigionia in Nordafrica, tra Marocco e Algeria: la cattura avvenne il 24 luglio 1943 a Paceco, in provincia di Trapani, dopo che un bombardamento statunitense sull’aeroporto di Castelvetrano, il 6 aprile, aveva impedito il trasferimento della divisione del poeta in Tunisia. La prigionia, che si protrasse fino al 28 luglio del 1945, costituisce l’oggetto della raccolta di poesie intitolata Diario d’Algeria, pubblicata per la prima volta a Firenze presso la casa editrice Vallecchi nel maggio del 1947. Quest’evento colpì profondamente l’ancora giovane Sereni, che si sentì defraudato irrimediabilmente di una parte della sua vita e, soprattutto, della possibilità di partecipare alla Resistenza, episodio fondativo di una nuova era della Storia collettiva.

Uno scritto in prosa del 1965, inserito in Gli immediati dintorni primi e secondi (1983) intitolato L’anno quarantacinque, è illuminante circa il modo in cui il poeta recepì e rielaborò a posteriori l’esperienza di prigionia africana, e chiarisce la sua problematica relazione con i grandi avvenimenti storici europei dai quali si sentì escluso. Ne riporto alcuni estratti:

Per noi non ci fu un vero e proprio 25 aprile o per meglio dire fu diluito lungo un periodo abbastanza ampio che va dalla fine di luglio del ’44 al maggio del ’45, tra la notizia fulminea dell’attentato a Hitler e il momento in cui un ufficiale americano di passaggio per il nostro campo, tergendosi il sudore di una giornata particolarmente torrida e deponendo qualcosa, forse, quasi simbolicamente, il revolver su un tavolo della baracca centrale, disse con stanchezza e distacco: «The war is over», la guerra è finita. Era stato bello la volta della bomba nel quartiere generale di Hitler: la notizia si articolò pian piano su un diffusissimo brusìo da una tenda all’altra, con le immancabili code circa una resa istantanea e totale delle armi tedesche in Italia, Hitler morto, Mussolini in fuga chissà dove, giunse al mio orecchio come un frastuono di tutto il campo ormai, fu grido e tumulto da decifrare prima di essere notizia, una mattina al risveglio. La realtà era purtroppo più modesta nelle conseguenze immediate, ma collocherei a quel punto l’inizio della fase finale per quanto ci riguarda e l’inizio della nostra inerzia morbosa, di una nostra brutta febbre d’egoismo e impazienza, macché immagine del futuro, macché ricostruzione della coscienza, macché ritorno alla responsabilità e all’azione. […]

In quell’aria stagnante e un po’ infetta cadde la notizia del 25 aprile. Ho detto cadde e non esplose, dovrei dire che s’insinuò quasi pigramente. L’esplosione c’era già stata, la volta della bomba a vuoto per Hitler, si era consumata già allora e da allora aveva lavorato in profondità nel modo già visto. […]

Altri nomi filtravano un po’ per volta, sigle di enti misteriosi per noi, CVL, Divisioni Garibaldi, CLNAI e infine, per me e per qualche altro perché pochi erano i milanesi in quel campo, la luce di qualche nome noto o caro o familiare accostato stranamente ad altro meno noto o del tutto ignoto sin lì: Antonio Banfi, Elio Vittorini, insieme al mio omonimo Emilio Sereni (al quale debbo un quarto d’ora di popolarità nel campo, caute attenzioni, domande propiziatorie su un mio presunto grado di parentela con lo stesso…). Sembrerà incredibile, ma la vera demoralizzazione giungeva con quei nomi emergenti dagli squarci della nostra ignoranza di prima; e quanto più noti, o cari e familiari, l’udirli accostati ad altri, per niente noti o a quelle sigle uscite da una realtà non condivisa e non vissuta da noi, tanto più ci escludeva da quell’ora, ci confinava in un angolo morto della storia.10

La difficile condizione esistenziale dipinta da Vittorio Sereni consiste in un radicale senso di estraniamento dalla Storia, alla quale al poeta è impedito di partecipare sia materialmente sia sentimentalmente. Al posto dell’auspicabile proiezione vitale verso il futuro, si fa strada nel poeta (e nei suoi compagni) una «febbre d’egoismo e d’impazienza», come se l’abitudine alla condizione di prigioniero avesse inibito ogni desiderio di tornare a far parte di una comunità. Avviene la perdita dell’esperienza così com’è descritta da Paolo Vinci, ossia una cesura tra i contenuti del passato individuale ed il passato collettivo, il cui superamento sarebbe dovuto passare da quella che lo stesso Sereni definisce «ricostruzione della coscienza».

Questa prosa è esemplificativa del rapporto tra storia personale e storia collettiva che caratterizza Gli strumenti umani, e che appare tutt’altro che incompatibile con le teorizzazioni di Walter Benjamin sull’uomo e la società moderni. Sul piano lirico, le figure chiave per interpretare questa tematica sono quelle del ricordo e, più estesamente, della memoria, elementi che nella produzione di Sereni acquisiscono una notevole profondità. Anche in questo caso si nota una particolare vicinanza al pensiero del filosofo tedesco che può essere riconosciuta facendo riferimento al saggio di Peter Szondi intitolato Speranza del passato. Su Walter Benjamin, uscito in Italia sulla rivista «Aut Aut» nel 1982.11 In questo contributo il critico ungherese propone una lettura della raccolta di racconti autobiografici Infanzia berlinese intorno al Millenovecento,12 composto da Walter Benjamin tra il 1932 e il 1938, mettendo a confronto il concetto di “memoria” sviluppato dall’autore con quello di uno dei suoi principali modelli, ovvero Alla ricerca del tempo perduto (1913) di Marcel Proust, di cui aveva anche tradotto in tedesco delle parti. Secondo Szondi, «Proust va alla ricerca del tempo perduto, che è il passato, per sottrarsi, nel ritrovamento di questo tempo, nella coincidenza di passato e presente, al potere del tempo stesso».13 L’autore francese percepirebbe il tempo come un agente negativo, ed il futuro come una minaccia, scorgendo in esso nient’altro che l’inevitabilità della morte. «Benjamin[, al contrario,] non vuole liberarsi della temporalità, non vuole contemplare le cose nella loro essenza astorica, ma mira ad una esperienza e ad una conoscenza storiche; è però respinto nel passato, in un passato, tuttavia, che non è concluso, ma è aperto e promette un futuro».14 Vediamo pertanto che in Benjamin agisce la volontà di riconoscersi in un tessuto storico, non il desiderio di fuoriuscirne. Il filosofo tedesco, contrariamente a Proust, per il quale il ricordo fornisce all’individuo l’occasione fuggire dal tempo, «cerca nel passato il futuro. I luoghi verso cui la sua memoria vuole ritornare portano quasi tutti “i tratti di ciò che sarebbe venuto”. […] Il tempo verbale di Benjamin non è il passato prossimo, ma il futuro anteriore in tutta la sua paradossalità: di essere un futuro e tuttavia anche un passato».15 Per il Sereni di Gli strumenti umani la memoria svolge lo stesso tipo di compito: non è occasione di esperienze extratemporali, ma oggetto d’interpretazione dalla prospettiva del presente storico. Attraverso la lettura del poemetto Una visita in fabbrica si tenterà di esporre la complessità del ruolo giocato dalla memoria, e di comprendere a quale profondità essa agisca nella struttura della poesia.

Una visita in fabbrica è un componimento di 95 versi (la seconda poesia più lunga della raccolta) che costituisce, da solo, la seconda sezione di Gli strumenti umani. Reca in calce le date 1952-58, che però, per stessa testimonianza dell’autore, non corrispondono al periodo di composizione, ma «inquadra[no] invece un periodo di esperienza personale e diretta».16 L’apparato critico fornito da Dante Isella nell’edizione delle Poesie di Sereni informa che, in un indice provvisorio della raccolta, una nota a margine del titolo indicherebbe come data di termine della composizione il 16 aprile 1961.17 La durata d’ideazione e stesura arriverebbe, quindi, a coprire una parte consistente del periodo del «silenzio creativo», cioè quel lasso di tempo tra la pubblicazione della seconda e terza raccolta (1947-63) in cui l’autore operò un profondo ripensamento della propria poetica e revisionò l’intera sua precedente produzione. Alla luce anche delle dichiarazioni della già citata prosa intitolata L’anno quarantacinque (che ricordo essere coetanea di Gli strumenti umani) è possibile ipotizzare che, nello stesso periodo, insieme al ripensamento della propria produzione e della propria poetica, si sia verificata una parallela reinterpretazione del proprio passato individuale in relazione alla storia collettiva. Di questa reinterpretazione Gli strumenti umani rappresenterebbero risultato poetico definitivo, ed il testo Una visita in fabbrica ne costituirebbe un esempio paradigmatico.

Nel poemetto la funzione poetica della memoria si articola su tre livelli principali: individuale, collettivo e letterario. Se i primi due sono facilmente definibili (il primo coincide con la vicenda biografica, il secondo con la Storia o la cronaca), il terzo livello si colloca su un piano intermedio, perché rappresenta la dimensione pubblica e sociale sulla quale l’autore può operare. Tutti e tre livelli agiscono nell’incipit (vv. 1-14) della prima delle cinque sezioni in cui è divisa la poesia:

Lietamente nell’aria di settembre più sibilo che grido
lontanissima una sirena di fabbrica.
Non dunque tutte spente erano le sirene?
Volevano i padroni un tempo tutto muto
sui quartieri di pena:
ne hanno ora vanto dalla pubblica quiete.
Col silenzio che in breve va chiudendo questa calma mattina
prorompe in te tumultuando
quel fuoco di un dovere sul gioco interrotto,
la sirena che udivi da ragazzo
tra due ore di scuola. Riecheggia nell’ora di oggi
quel rigoglio ruggente dei pionieri: sul secolo giovane,
ingordo di futuro dentro il suono in ascesa
la guglia del loro ardimento…18

I primi due versi, che apparentemente si limiterebbero ad introdurre l’occasione della poesia caratterizzandola sia dal punto di vista spaziale (contesto urbano) sia da quello temporale (settembre), in realtà nascondono, come ha notato Pierluigi Pellini, una chiara citazione da Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto di Salvatore Quasimodo: «Gli amanti vanno lieti / nell’aria di settembre».19 Il tipo di operazione messa in atto dall’autore è spiegata bene dallo stesso Pellini:

La presa di distanze dall’ermetismo era già implicita nelle ultime poesie di Frontiera, e in quasi tutto il Diario d’Algeria. Ma in modo ben più deciso è polemicamente inscritta nei primi versi di un testo di rottura come il poemetto Una visita in fabbrica […]. Nel momento stesso in cui, immergendosi nei giorni infernali della fabbrica neocapitalista, taglia definitivamente i cordoni ombelicali che lo legavano alla koinè tardosimbolista (Quasimodo ha un ruolo non secondario fra i maestri cui più o meno fedelmente si ispirava Frontiera), Sereni confeziona su materiali quasimodiani un elegantissimo endecasillabo («Lietamente nell’aria di settembre»), subito parzialmente destabilizzato dalla coda ipermetra («più sibilo che grido»). Quest’ultima, tuttavia, è pur sempre costituita da un settenario: se mentalmente segniamo un ‘a capo’ dopo l’attacco endecasillabico, rimaniamo per ora nell’alveo delle misure metriche tradizionali.20

Dalla volontà di immergersi nella storia collettiva, consegue per Sereni un’inevitabile e netta presa di posizione nei confronti della tradizione tardosimbolista e in particolare dell’ermetismo, la cui poetica era orientata alla sublimazione dei dati storici e concreti, ed era refrattaria agli aspetti più bassi della quotidianità. Insieme alla scelta della tematica, già palesemente opposta ai canoni dell’ermetismo, l’autore avverte la necessità di instaurare un dialogo a distanza con uno dei massimi esponenti di quella corrente poetica, e lo fa per mezzo di una citazione in posizione privilegiata del testo, l’incipit.

Il periodo successivo, che copre i versi 3-6, introduce, attraverso una domanda retorica tipicamente sereniana, un elemento di cronaca: la scomparsa delle sirene dalle grandi fabbriche, che in passato scandivano il ritmo della giornata lavorativa, e che nel tempo erano divenute simbolo del richiamo alla lotta proletaria. Con la domanda retorica ed i versi successivi, la sirena, da semplice dato sensoriale, acquisisce nel tessuto poetico una profondità storica di grande portata. Ecco che troviamo chiamata in causa la memoria collettiva che, oltre a conferire alla vicenda una precisa collocazione storica, indica al pubblico una possibile chiave di lettura di ordine ideologico-politico. In questo senso, acquisisce un peso notevole la scelta di utilizzare il lessico politico inserendo locuzioni come «i padroni» e «pubblica quiete», che certamente non rientrano nelle corde del registro lirico tradizionale, e acuiscono una volta di più l’opposizione alla linea della poesia pura.

È solamente dopo aver costruito un preciso “fondale” storico e, nel sottotesto, letterario che Sereni inserisce l’io-lirico nella poesia, e lo fa in un modo del tutto particolare. Riproponendo lo schema del «colloquio» nel segno del quale si apre la raccolta,21 l’autore presenta l’esperienza personale rivolgendosi ad un «te» indeterminato al quale è attribuito un ricordo d’infanzia scolastica (vv. 6-11). È quantomeno lecito ipotizzare che il ricordo personale sia in realtà attribuibile all’autore stesso22 e che l’espediente retorico (ricorrente in moltissime parti della raccolta) sia da ricondurre, ancora una volta, al progetto di «ricostruzione della coscienza», di ricongiungimento con la storia. La simulazione del dialogo (o colloquio) risponde, a sua volta, alla necessità di elevare la propria esperienza personale a livello collettivo, di universalizzarla, ed il dubbio che rimane in sospeso riguardo all’identità dell’altro dialogante ha lo scopo di sottolineare il fatto che tale ricordo è patrimonio comune, che appartiene a tutti. La memoria che entra in gioco non è, quindi, davvero pienamente personale e privata, ma si presenta retoricamente come sovraindividuale, e si inserisce in un contesto pubblico. Non a caso, il ricordo viene proiettato immediatamente (senza neanche chiudere il verso) sull’«ora di oggi», su un presente aperto che con la nuova generazione corre già verso un futuro ricco di possibilità.

L’incipit della poesia, in soli quattordici versi, riassume in sé le modalità attraverso le quali opera la memoria nella poesia di Sereni, e riesce a dare un esempio della particolare posizione che assume il soggetto poetico in Gli strumenti umani. Nelle due seguenti sezioni, il testo prosegue narrando l’avventura di «un borghese, un impiegato che un giorno càpita dall’ufficio nello stabilimento in visita»23 accompagnato da una guida che gli illustra un mondo del quale il visitatore si sente straniero, e con il quale cerca un contatto sentimentale interrogandosi sulle «vite trascorse»24 degli operai. È all’inizio della quarta sezione che avviene qualcosa di particolarmente importante per il tipo d’interpretazione qua sostenuta. Il testo (vv. 1-9), che di nuovo si presenta nella forma di un dialogo, recita così:

«Non ce l’ho – dice – coi padroni. Loro almeno
sanno quello che vogliono. Non è questo,
non è più questo il punto.»
E raffrontando e
rammemorando:
«… la sacca era chiusa per sempre
e nessun moto di staffette, solo un coro
di rondini a distesa sulla scelta tra cattura
e morte…»
Ma qui, non è peggio? Accerchiati da gran tempo
e ancora per anni e poi anni ben sapendo che non
più duramente (non occorre) si stringerà la morsa.25

La voce che apre il dialogo non è introdotta in alcun modo ma, considerando il contesto ed il contenuto del discorso, sembrerebbe attribuibile ad un operaio della fabbrica. Le sue parole sembrano l’emblema della «fase calante»26 in cui si trova la lotta operaia, dove la perdita di una visione chiara del conflitto di classe è segno dell’inesorabile incedere della moderna società dei consumi. Più interessante però, per la presente analisi, è quanto avviene nei quattro versi successivi: là, infatti, entra nuovamente in scena la forza della memoria. È nella frase che anticipa la risposta del visitatore che si manifesta in maniera più compiuta e sintetica l’essenza della memoria sereniana: la coppia di gerundi «E raffrontando e / rammemorando» riassume in sé, in estrema sintesi, l’operazione del tutto allegorica (nel senso benjaminiano) che consiste nell’estrapolazione di un oggetto dalla situazione originaria, e nel suo successivo collocamento in uno spazio diverso, con lo scopo di arricchirne ed attualizzarne i significati. L’importanza della missione affidata alla memoria è certificata dal fortissimo enjambement che colpisce il secondo elemento della coppia, il quale viene poi addirittura isolato tipograficamente con un “a capo” che anticipa la conclusione del testo. Tale missione si compie, però, solamente nel momento in cui l’oggetto del “rammemorare” viene attualizzato. A questo si può ridurre l’azione del “raffrontare”: alla ricontestualizzazione del ricordo nel tempo presente. Si attua lo stesso procedimento che aveva evidenziato Péter Szondi nel già citato saggio sull’Infanzia berlinese: nel frammento della memoria vengono ricercate le tracce di un presente aperto e proiettato verso il futuro.27

Il ricordo in questione, oggetto dei versi 4-7, riesce a combinare, in misura ancora maggiore rispetto a quello utilizzato nell’incipit, la dimensione più intima dell’esperienza individuale con gli eventi storici che più vividamente sono impressi nella memoria collettiva: la Resistenza e la Liberazione. Non stupirà, infatti, che la memoria di Sereni richiami alla sua mente il momento esatto della cattura in Sicilia da parte degli Alleati che segna l’inizio della sua prigionia in Nordafrica. Come in occasione della prima sezione, è interessante osservare la modalità attraverso cui il ricordo personale viene presentato: l’autocitazione. Il testo citato, ed ampiamente rielaborato, è tratto da una prosa della prima edizione degli Immediati dintorni (1962), intitolato Sicilia ‘43:

Tutti erano zitti perché cattive erano le notizie e ognuno presagiva per sé una brutta fine, senz’altra alternativa che la morte o la cattura; da Salemi la sacca si restringeva su loro, in una terra divenuta decisamente ostile, e di lì a poco si sarebbe definitivamente chiusa.28

Il riferimento ad una «sacca» in via di chiusura e ad una «scelta tra cattura / e morte» sono indizi troppo chiari per credere che non si tratti di un deliberato richiamo intertestuale. Anche il fatto che nella poesia i versi 4-7 siano tra virgolette depone a favore di questa tesi, sebbene queste siano necessarie ai fini della simulazione del dialogo. Vediamo allora che in questo frangente la memoria opera su tutti e tre i livelli: è personale in quanto si riferisce ad un dato biografico, è collettiva perché richiama un momento topico della Storia nazionale, ed è letteraria perché agisce attraverso un’autocitazione. Che la citazione provenga da un proprio testo già edito, e quindi al di fuori della dimensione privata, è fondamentale poiché chiama in causa l’unico spazio pubblico sul quale il poeta può agire. Si può dire che il ricordo vive di una doppia natura, pubblica e privata. È in questo modo che Sereni produce lo sforzo maggiore per superare il trauma e ricucire lo strappo tra la propria esperienza e la Storia: «rammemorando» un momento chiave per il passato sia personale sia collettivo, e «raffrontando[lo]» con un simbolo della contemporaneità, la fabbrica.

Interpretare questo testo ricorrendo allo schema benjaminiano dell’allegoria permette di comprendere anche le motivazioni dell’altro grande richiamo intertestuale, l’Inferno dantesco. A livello strutturale il riferimento è chiaro, in quanto la visita in fabbrica è costruita esattamente come la discesa agli inferi del poema medievale: con una guida al fianco ed i colloqui con le anime dannate (nel caso di Sereni, gli operai). Anche sul piano lessicale le occorrenze non mancano, a partire da quelle evidenti della quinta sezione, ovvero «città selvosa», che richiama la “selva oscura”, ed «asettici inferni», che chiude il componimento, identificando la fabbrica come luogo infernale ma, andando più in profondità, i rimandi si fanno anche più fitti. In un suo studio dedicato a questo componimento, Oscar Schiavone nota che le «torrette» e le «passerelle» rimandano rispettivamente alla città di Dite (Inf. VIII, vv. 70-71)29 e alla similitudine dei “ponticelli”, che in realtà sono gli scogli attraverso cui passare da una fossa all’altra delle Malebolge (Inf. XVIII, vv.4-5 e 14-18),30 e sempre alle Malebolge allude anche il «pozzo d’infortunio e d’oblio».31 Del motivo di quest’omaggio dà una spiegazione convincente Fabio Moliterni:

Il dantismo, la Stimmung classica e dantesca della poesia di Sereni incomincia a profilarsi in questa convergenza problematica tra la fedeltà alle vicende terrene, fisiche e immanenti del soggetto (un io anti-eroico, malinconico e letteralmente disarmato), e la natura trascendentale o eterna del linguaggio lirico classicamente inteso e dei valori che esso trasmette: tra una disposizione starei per dire esistenzialista della poesia e il suo portato allegorico e universale. È la convergenza tra io trascendentale e io esistenziale, fondamento della parola dantesca, che veniva colta da Contini tra le pagine del suo celebre Dante come personaggio-poeta della Commedia.32

Anche Moliterni individua nella tensione tra dimensione individuale e collettiva la cifra fondamentale del dantismo in Sereni: la lezione ereditata dall’autore lombardo è che per mezzo del portato allegorico della poesia è possibile ricongiungere gli estremi dell’esperienza particolare e universale.

Come Sereni stesso aveva detto del romanzo di Herman Melville, nel ciclo di lezioni radiofoniche citato in apertura, anche la sua poesia riesce a tenere insieme «un senso letterale, allegorico e anagogico», senza mortificare il dato esistenziale a favore di quello universale. L’allegoria, al contrario, nobilita il frammento della memoria personale che, una volta proiettato in un presente «ingordo di futuro», finalmente riesce ad esprimersi, saturandosi di senso e di possibilità. Non che così si risolva davvero il trauma esistenziale, dato che il poeta continua a sentirsi «straniero al grande moto»33 della Storia; la poesia si limita a stabilire un contatto, ad intavolare un «colloquio» con il passato e con il fluire del presente, lasciando aperte le porte alla speranza di una ricongiunzione. È forse per questo che Sereni chiude la sua raccolta con un finale pieno di fiducia nel potere del tempo e della poesia: perché è convinto che un giorno, grazie ad essa, anche i morti «parleranno».34

Note

1 V. Sereni, L’avventura e il romanzo, in Id., Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 2013, p. 1022.

2 Cfr. V. Sereni, Il silenzio creativo, in Id., Poesie e prose, cit., pp. 567-569.

3 «…quello che potrebbe anche parere un curioso romanzo s’avventure, un poco lungo a dire il vero e un poco oscuro, si svelerà invece per un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano», C. Pavese, Prefazione a H. Melville, Moby Dick; o, la Balena, a cura di C. Pavese, Milano, Adelphi, 1987, p. 12.

4 V. Sereni, L’avventura e il romanzo, cit., p. 1034.

5 W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, a cura di A. Barale, Roma, Carocci, 2018.

6 Cfr. W. Benjamin, Baudelaire e Parigi, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1962, pp. 89-160.

7 Ivi, p. 97.

8 Ivi, p. 134.

9 P. Vinci, Walter Benjamin e la memoria, in «Quaderni di Cultura Junghiana», II, 2013, p. 30.

10 V. Sereni, L’anno quarantacinque, in Id., Poesie e prose, cit., pp. 581-589.

11 P. Szondi, Speranza nel passato. Su Walter Benjamin, in «Aut Aut», CLXXXIX-CXC, 1982, pp. 10-24.

12 W. Benjamin, Infanzia berlinese intorno al Millenovecento, a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2007.

13 P. Szondi, Speranza nel passato, cit., p.15.

14 Ivi, p. 18.

15 Ibidem.

16 Cfr. V. Sereni, Poesie, a cura di D. Isella, Milano, Mondadori, 1995, p. 535.

17 Ivi, p. 531.

18 Ivi, p. 125. La poesia è stata pubblicata per la prima volta, in una versione diversa da quella della raccolta, nello stesso anno, in apertura del quarto numero (dedicato alla relazione tra industria e letteratura) de «Il Menabò», rivista diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino, edita da Einaudi dal 1959 al 1967.

19 P. Pellini, Le toppe della poesia. Saggi su Montale, Sereni, Fortini, Orelli, Roma, Vecchiarelli Editore, 2004, p. 112.

20 Ivi, pp. 111-112.

21 «Con non altri che te / è il colloquio». Cfr. V. Sereni, Via Scarlatti, in Id., Poesie, cit., p. 103.

22 Un altro ricordo d’infanzia scolastica compare in un componimento vicinissimo al nostro (li separa solamente una poesia), Il grande amico. In questo testo il ricordo di scuola ricopre un ruolo molto importante, ed è indubbio che qua sia da attribuire al soggetto lirico. Cfr. V. Sereni, Il grande amico, in Id., Poesie, cit., p. 132.

23 Ivi, p. 542.

24 Ivi, p. 126.

25 Ivi, p. 127.

26 Ivi, p. 125.

27 Analizzando La spiaggia, poesia con cui si chiudono Gli strumenti umani, Franco Fortini ha espresso, a proposito di Sereni, considerazioni simili a quelle di Szondi su Benjamin: «Torna qui [ne La spiaggia], con una formulazione assolutamente nuova, che spiega l’enfasi della collocazione a chiusa del libro, il tema della ripetizione, come nesso vita-morte, conferma d’identità e scatto al suo superamento. Il recupero vitale non si compie a favore d’una memoria involontaria, quella che opererebbe sullo spreco quotidiano, sulla parte di noi che cade fuori della coscienza; nulla a che fare con la posizione proustiana. Il recupero potrà avvenire solo a favore di “tratti” di spiaggia “mai prima visitati” ossia di realtà che non erano state affatto considerate, che erano anzi, in ogni senso, inesistenza. La resurrezione dei morti, promessa dalla latenza di “movimento e luce” è, nello stesso tempo, una prima emersione e nascita», F. Fortini, Di Sereni, in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. 643.

28 V. Sereni, Sicilia ’43, in Id., Poesie e prose, cit., p. 522. Nel suo commento della poesia, inserita nell’antologia Il grande amico, Luca Lenzini indica altre due prose in cui è raccontata la medesima esperienza, intitolate La cattura e Ventisei. Cfr. Id., Il grande amico, a cura di L. Lenzini, Milano, Rizzoli, 1990, p. 221.

29 «E io: “Maestro, già le sue meschite / là entro certe ne la valle cerno». D. Alighieri, Commedia, vol. I, Inferno, a cura di A.M. Chiavacci Leonardi, Bologna, Zanichelli, 1999, p. 148.

30 «Nel dritto mezzo del campo maligno / vaneggia un pozzo assai largo e profondo»; «e come a tai fortezze da’ lor sogli / a la ripa di fuor son ponticelli, / così da imo de la roccia scogli / movien che ricidien gli argini e’ fossi / infino al pozzo che i tronca e raccogli», ivi, p. 313.

31 O. Schiavone, Lettura di «Una visita in fabbrica» di Vittorio Sereni, in «Italianistica. Rivista di letteratura italiana», XXV, 2006, 3, pp. 99-119.

32 F. Moliterni, «Questo trepido vivere nei morti». La presenza di Dante nell’opera di Vittorio Sereni, in Lectura Dantis Lupiensis, vol. 3, a cura di V. Marucci e V.L. Puccetti, Ravenna, Longo Editore, 2014, p. 100.

33 V. Sereni, Poesie, cit., p. 126.

34 Ivi, p. 184.