Impressione prima
La prima impressione è quella di essere davanti ad un autore con una personalità ben definita: ad una scrittura solida ed assestata, sicura “del fatto suo”, che corrisponde ad una precisa fisionomia acquisita nel corso degli anni. Infatti Pelliti è al suo quarto libro (quinto anzi, contando – come si deve – La bicicletta gialla, “fiaba in versi” del 2018, ed. Topipittori); il primo era Versi ciclabili, del 2007 (Orientexpress); poi sono seguiti Boicottando mongolfiere e ghigliottine (Tapisroulant, 2013) e Dal corpo abitato (Luca Sossella, 2015). Un percorso, quindi, lungo oltre un decennio. E già dai titoli appena citati si possono intravedere alcune costanti della poesia di Pelliti; per esempio ed in primo piano, la presenza di un io in movimento, on the road, se prima le biciclette e poi qui, nella quinta sezione di Dire il colore esatto, nel Poemetto dell’automobile, l’auto, assumono un preciso rilievo, una densità semantica che scavalca largamente l’aneddoto o lo spunto occasionale. Vengo perciò subito alla seconda annotazione e provo a spiegare questo rilievo e questa densità.
Impressione seconda
Bicicletta e automobile, quindi. Ma soprattutto le auto, che in Pelliti non sono arredi o meri strumenti, bensì veicoli carichi di vissuto e perciò, si potrebbe dire, una specie di “seconde case” del soggetto poetico, anzi «per il tempo breve del viaggio / l’unica casa davvero abitabile» (In auto); case mobili, «gabbie» (le chiama una poesia) ma anche (dice un’altra poesia) «abitacoli» che misurano «le nude proprietà» dell’io (Abitacolo), ovvero il perimetro biografico-sentimentale dell’io. Nell’era in cui la casa perde i legami con le generazioni ed è a sua volta intercambiabile – il che era già manifesto in Dal corpo abitato – nell’auto precipitano tratti epocali e biografie, genealogie e allegorie. Esemplare della maniera del poeta, a questo proposito, oltre che pienamente riuscito, è il ritratto del padre per interposta auto prima ed officina poi (il dittico DAF 44 e Autofficina): c’è insomma una specie di simbiosi, tra l’essere umano e la macchina, e di qui un felice scambio delle parti: la metonimia (il contenente per il contenuto, in questo caso, soggetto e auto), diventa reversibile, e la fusione dei due elementi si condensa in racconto, short story.
Non solo. Questo motivo, reiterato e variato nei libri, del movimento (automobilistico, in particolare) è qualcosa che suggerisce l’indizio di una tradizione, il segnale di una linea poetica; una linea che assume un tema specifico della Modernità per calarlo dentro un quadro di riferimenti che partendo dal canone più illustre si allunga fin dentro il Novecento. È quel filone che, futuristi a parte (fin troppo esibito, in molti di loro, il culto del movimento, della velocità e compagnia bella), parte in Francia da Apollinaire (La petite auto, agosto 1914) e arriva da noi in Italia ad esiti straordinari con Vittorio Sereni. Il poeta cioè che in Stella variabile ci ha dato con Autostrada della Cisa, poesia giustamente richiamata da Fabio Pusterla nella Prefazione a Dire il colore esatto, una vetta della lirica novecentesca; non a caso, quindi, A15 (ovvero la “camionabile” della Cisa) ultima composizione del Poemetto, che batte la stessa strada, è uno dei punti di forza della raccolta ed un’acquisizione certa. Ma come accennavo prima, questa costellazione moderna s’innesta su una tradizione di lunga durata: l’io lirico che a partire dalla metà circa del Trecento gironzola solo e pensoso per i campi, assorto nel mind wandering di monte in monte e di pensiero in pensiero, trova il proprio erede moderno nell’automobilista che va per tangenziali e autostrade, nazionali e provinciali. Queste ultime, possiamo notare, sono predilette dal nostro poeta perché portano sì a destinazione, con l’ausilio del navigatore, ma quel luogo destinale è un posto in cui «non sai dove ti trovi» (Strade): hic sunt leones, insomma, nel bel mezzo del Valdarno e nel millennio digitale e globalizzato. Il viaggio si configura allora come un naufragio assistito nel niente notturno in cui si danno epifanie di ponti avveniristici, sequenze di arcane rotonde, segnali «discordanti o ambigui», piazzali illuminati a giorno di distributori deserti (Gas Station Night, proprio come in Edward Hopper); come dire, tutto l’arsenale dello smarrimento dell’esperienza e della perdita del senso nelle mappe effimere, fluide e spettrali della postmodernità (o forse, più semplicemente, post-realtà?..).
Ecco allora che il viaggio in Dire il colore esatto si carica di significati secondi e la realtà si rivela nella sua ambivalenza di pieni e vuoti, assenze e presenze forse intercambiabili, latenze incomprensibili e inquietanti. Tecnologia e progresso – sia detto per inciso, ma meriterebbe lungo discorso – sono due miti ben presenti nel libro, con i loro gerghi ogni volta nuovissimi e ogni volta di nuovo invecchiati, ogni volta un po’ più scemi, ma sempre nel libro di Pelliti sono tenuti a dovuta distanza, con sguardo ironico e perplesso: si veda QWERTY, Frecciarossa, Totem, Ascensore (tanto inquietante quanto vera), Mergiare, Al telefono, Sugli altipiani di Bezos, Face to Facebook. Tecnologia e progresso parlano qui di un fallimento, e forse per questo i viaggi ritornano in sogno e i «parcheggi in rimozione coatta» (Rimozioni) diventano metafore di altre e più ampie, collettive e non solo individuali rimozioni e coazioni.
Impressione terza
Il Poemetto dunque rende esplicito il motivo del viaggio (e dello smarrimento), lo tematizza in quanto vi si espone un investimento che attraversa la coscienza fino a filtrare da una parte nell’inconscio, dall’altra negli anfratti della modernità più desolata e prossima. L’ampia, orchestrata cadenza di A15 può così mettere in scena un viaggio non solo nello spazio ma nel tempo, risalendo le generazioni; tuttavia il fatto che il tema del viaggio automobilistico occupi una sezione intera del libro non significa che si tratti di un capitolo a sé stante, autonomo e in sé concluso; e qui passo alla terza annotazione.
Per quanto le sezioni siano ben distinte l’una dall’altra, nel libro i temi, tutti i temi s’intrecciano e sovrappongono l’uno sull’altro. In questo senso ha visto bene Pusterla quando nella Prefazione parla per la poesia di Pelliti di “scatole magiche” – scatole che sono anche un po’ cinesi, forse, matrioske dall’aria familiare e leggermente straniante… – e di qui viene al lettore la sensazione di una compattezza particolare, non costruita per intenzionalità ma concresciuta e articolata nel tempo soggettivo, maturata nella sfera dell’io – l’io che resta pur sempre al centro della rappresentazione. Questo intreccio o accumulo di strati si può cogliere anche nel modo in cui il libro declina un motivo tutto diverso da quelli che ho appena indicati: il motivo “metapoetico”, ovvero i momenti in cui la poesia mette al centro del discorso sé stessa, il proprio farsi, costituirsi in langue. Si veda al riguardo 11 x 16, Poesia all’uncinetto, Al centro, Pericolo poesia, Lettura di poesia ad alta voce. Ora, questo è ormai diventato un “genere” anche stucchevole, manieristico e narcisistico; ma a veder bene anche qui Pelliti è coerente con sé stesso, o meglio con le premesse della sua poesia. Anche qui, infatti, circola una vena ironica (perfettamente modulata nella Lettura), anche qui metonimia e metafora tendono a innestarsi l’una sull’altra, così come lo spunto narrativo precipita nello scatto epigrammatico e l’ironia tende all’aforisma, lo corteggia un po’ ovunque (si veda Frecciarossa, Superstizioni).
Fare poesia è «un gioco», afferma in chiusa Pericolo poesia, e questa affermazione possiamo per una volta perdonarla perché poco prima i versi ci avevano detto che quel gioco si fa carico del rischio della ricerca del senso; che è quel che più c’importa, ed è una serissima faccenda. Ma a questo punto viene da chiedersi quanto questo motivo debba al più nobile e abusato dei versanti novecenteschi, quello mallarmeano e poi postsimbolista e poi avanguardistico-formalista e quanto, invece, sia da riportare al versante filosofico-analitico, in particolare al Wittgenstein studiato a fondo da Pellitti sotto la guida esperta e lungimirante di Aldo Gargani; e più che al Wittgenstein del Tractatus, penso qui piuttosto a quello, appunto aforistico, dei Diari o dei Pensieri diversi. Di certo la riflessione sul linguaggio (i giochi linguistici) e sui suoi fondamenti è affine alla ricerca del senso di cui parlano i versi di Grammatica del colore esatto e delle altre ben calibrate “grammatiche” che formano la terza sezione del libro. È il versante saggistico della ricerca: smontare e rimontare le tessere linguistiche, i modi dire, rigenerare in poesia quelli che Bachtin, sulla scia della fisica moderna, chiamava i «cronotopi» (la strada, infatti), inseguire le parole che più le avvicini più fuggono via per la tangente, è una impresa che si addice ad un fedele di Ludwig Wittgenstein quale è Matteo Pelliti, come un tempo Jules Laforgue lo fu di Schopenhauer (l’Arturo di Guido Gzzano, d’altronde).
Impressione quarta ed ultima
L’ultima annotazione mi riporta all’inizio del libro, alla sezione Annali, la seconda. Qui in prevalenza lo spunto è dalla cronaca, come avviene – per fare il primo nome che viene alla mente – anche nell’ultimo, ciarliero e abbastanza insopportabile Montale; ma nelle pagine di Pelliti la cronaca non è questione di gossip, bensì di morti sul lavoro (la Thyssen, il porto di Genova, i cantieri teatro di tragiche acrobazie), di suonatori uccisi per disobbedienza a dogmi oltranzisti, di stragi negli immediati dintorni. L’ironia qui cede ad una cadenza di lutto che si oppone alla rimozione: alla rimozione tramite la chiacchiera, tramite lo scandalo giornaliero, tramite la sovraesposizione mediatica, ovvero quel che nutre il terreno su cui cresce l’indifferenza che prepara il peggio, come ci ha insegnato Primo Levi (e anche Gramsci). Il modo in cui la cronaca ci viene impaginata e predigerita dai media, i palinsesti che giorno dopo giorno irrigidiscono la coscienza, il surreale che diventa reale (Le ceneri di Bialetti), la regressione insita nel progresso: tutto questo è detto con lucida precisione nel libro; ma come al solito, questi temi che si direbbero “civili” non s’intestano un capitolo a sé stante, ma attraversano il libro, lo alimentano dall’interno; e trovano in un testo dell’ultima sezione (Ai punti) una sintesi pregnante, così efficace che se non ci fosse il libro intero non sarebbe così compiuto come invece è, o almeno non ci sarebbe così prossimo e necessario: Il dolore degli altri.
Di nuovo durante un viaggio, ma stavolta in treno, tra ameni e amari conversari di scompartimento lungo la costa ligure al poeta giunge notizia del suicidio di un vicino di casa. Così annota:
la nostra magnifica e fortunata vita
che ci pare naturalmente propria e dovuta,
vedo il lago di nero petrolio
del dolore degli altri, del mondo incompreso,
allargarsi senza alcun senso.
di Nizza la sera del 14 luglio,
un camion che falcia la folla, cieco.
[testo rivisto per un incontro con Matteo Pelliti a Poggibonsi, 11 gennaio 2020, Olivia libreria bistrot, su invito di Dario Ceccherini]