«Cara Rossana,
ti ho vista iersera in TV»
Una poesia inedita di Franco Fortini
Giuseppe Ferrulli

Cara Rossana, ti ho vista iersera in TV.
Che tua è la vita, dicevi, e nessuno
per te può disporne. Lucente l’errore
in fronte ti splendeva. Ero ammirato e triste.

Due comunismi ci sono. Tu l’uno l’hai vissuto, che vuole
per ognuno e per tutti coscienza di sé.
L’altro è più mio: che negli altri si crei
la nostra figura né mai se ne veda la fine.

Questa la mia religione. Che tutto sia segno
e si converta in altro. La foglia si adempia
ma sia il bosco a parlare per ognuna
se al cielo vuoto di dèi vada il vento.1

Con queste tre quartine il 5 maggio 1988, data della lettera che li riporta, Franco Fortini ringraziava l’amica di lunga data Rossana Rossanda per un «regalo grande» che la giornalista aveva fatto ai coniugi Lattes-Leiser. L’entità del presente (definito anche «contributo» e «dono» in precedenza all’interno della lettera) è di incerta ricostruzione: la risposta della Rossanda2 sottintende la natura del regalo, soffermandosi invece sulle ragioni dello stesso, quali la necessità di riaffermare il valore del loro legame, «così distante e così vicino», e la consapevolezza della stima reciproca e dell’affetto invariati nonostante la distanza geografica, le oramai rare comunicazioni epistolari e le vicende personali degli ultimi anni; tuttavia è possibile avanzare un’ipotesi: nel gennaio dell’anno successivo, Romano Luperini curò per Editori Riuniti una raccolta di saggi sul poeta di Foglio di via, un omaggio in occasione del pensionamento di Fortini dal titolo Tradizione, traduzione, società,3 in cui diverse figure importanti della società intellettuale e politica di quegli anni intervengono sul proprio rapporto con Fortini stesso; e ne Le capre ostinate,4 l’intervento di Rossana Rossanda, la giornalista ripercorre i varie momenti della propria amicizia col poeta, fin dai suoi primi ricordi dei tempi del «Politecnico». È molto probabile dunque che, nella lunga e complessa gestazione della raccolta luperiniana, il contributo della Rossanda potesse essere stato letto da Fortini già nel maggio dell’anno precedente. L’ipotesi è inoltre avvalorata anche dal «cara capra» con cui il poeta saluta la fondatrice de «il manifesto» più avanti nella missiva. Ad ogni modo, Fortini doveva essere davvero molto grato o quantomeno sollevato nel sentire nuovamente la sua amica (se già in una lettera del luglio 19855 lamentava le poche attenzioni della Rossanda nei suoi confronti e si «vergognava» di essersi «doluto» dei suoi silenzi),6 dal momento che il componimento poetico è solamente la seconda versione della lettera che aveva intenzione di spedire. La resa finale dell’epistola presenta, in successione, i dodici versi, il telegramma che si proponeva di inviare originariamente e la lettera finale effettiva:

Cara Rossana, letto ieri (e letto a Ruth) il tuo contributo, e non sapendo come controllare la nostra emozione, pensavo di mandarti questo telegramma

Mia cara capra cara compagna credo proprio che ci meritiamo a vicenda. Stop
Ormai est permesso commuoversi et con Ruth ti dice grazie del dono grazie
della verità Stop Franco

Poi ho pensato che non sarai a Roma fino a dopo le elezioni francesi. E allora mi sono ricordato di avere nel computer dodici versi scritti tempo fa. Non sono buoni versi ma la loro prosa dice quel che ha da dire e te li mando, leggerissimo compenso per il regalo grande che ci hai fatto. Ti abbracciano

Franco e Ruth

L’epistola è tra le ultime del carteggio intercorso tra il poeta e Rossanda. Un «susseguirsi di lettere, scarsi i reciproci elogi, infinite le polemiche»7 aveva da sempre caratterizzato il rapporto che legò l’«ospite ingrato» alla «ragazza del secolo scorso»:8 venuti a contatto negli ambienti culturali milanesi del dopoguerra, tra «Politecnico» e «Einaudi», furono uniti (e al contempo costantemente separati per le forti divergenze d’opinioni) dalla collaborazione alle attività della Casa della Cultura, affidata dal PCI a Rossanda nel 1949. Successivamente, se le vicende del ’56 sovietico sembrarono dividerli definitivamente, la radiazione della Rossanda dal Partito Comunista Italiano e la conseguente nascita de «il manifesto» (1969) riavvicinarono e tennero legati i due in un continuo confronto-scontro sulle vicende sociali e politiche dell’Italia repubblicana. Rossanda, prima su carta intestata Pci e poi de «il manifesto», si trovava a dover difendere dagli strali fortiniani compagni di partito, di redazione e, più spesso, se stessa, capro espiatorio delle ire fortiniane, che le addossava le colpe di un intero schieramento politico, quello del PCI e di militanti e intellettuali che vi gravitavano attorno. Rossanda, però, fu per Fortini anche l’ultimo baluardo tra le file “nemiche” col quale continuare a confrontarsi, rimettendo costantemente in discussione se stesso, il proprio isolamento politico e la propria indole, per la quale «più volentieri che coi lontani impegnavo polemica coi vicini».9

Avevamo più o meno la stessa età, lo stesso ordine di letture, un lunghissimo percorso fatto assieme, azzuffandoci senza mai perderci. Lui era l’intellettuale critico, io la funzionaria del PCI. Mi metteva di fronte a me stessa come “apparatcik”, e questo mi faceva infuriare e mi faceva bene. Io lo mettevo davanti a se stesso come anima bella e questo lo faceva infuriare e gli faceva bene.10

Attraversarono le stesse situazioni di crisi, quelle che colpirono ogni intellettuale di sinistra lungo il corso degli ultimi sessant’anni e che colpirono, evidentemente, con forza maggiore due personalità come quelle di Franco Fortini e Rossana Rossanda, che mai scissero la propria opera intellettuale dalla militanza politica attiva. Pur provenendo da ambienti e con punti di vista diversi e, in molte situazioni, contrapposti, ritrovavano l’uno nelle parole dell’altro la medesima intelligenza politica, la stessa capacità critica e le stesse delusioni ideologiche.

eppure è certo che abbiamo traversato questi decenni – mezzo secolo, la vita – con lo stesso sguardo, nel senso che selezionavamo, davamo priorità alle stesse cose o eventi nello svolgersi quotidiano della storia e delle storie, e questo raramente accade. Tanto più che nel vedere ambedue lo stesso momento la stessa cosa, non è che la valutassimo allo stesso modo, ma sicuramente era «quella» la questione che ci turbava, o più raramente, faceva sperare; sempre era, in qualche modo essenziale. Così nel mio orizzonte sta sempre lo sguardo di Fortini, il nostro paesaggio è lo stesso. Il dialogo può essere anche rarefatto ma non cessa, e la prova è che non c’è comunicazione fra noi che non susciti accordo o zuffa. Ci conosciamo benissimo. Ci siamo dedicati fedeltà e rampogne, sorrisi e urla.11

Non è una svista né un refuso, dunque, il «cara capra cara compagna» presente nel telegramma allegato alla lettera, ma un affettuoso appellativo: è in onore delle due capre della favola di La Fontaine che, ognuna senza la minima intenzione di far passare prima l’altra, fanno a testate fino a cadere insieme nel fiume, che anche la fondatrice de «il manifesto» intitola il saggio sopra citato, nel quale ripercorre i cinquant’anni di amicizia che la legarono a Fortini.

«Glielo dicevo sempre, sei ostinato come una capra!» è anche quello che sorridendo mi dice Rossana Rossanda, mentre rilegge la copia della lettera di Fortini che le ho portato in occasione di un incontro (dicembre 2019). Non ricorda molto altro rispetto al contesto dei versi, a malapena ricorda la poesia stessa: «Ha anche scritto una filastrocca per me una volta». La filastrocca a cui la «ragazza del secolo scorso» fa riferimento è Per Rossana R., e fu inclusa all’interno del volumetto di Poesie inedite edito postumo, sotto la curatela di Mengaldo12 e, dunque, in seguito, nell’Oscar Mondadori curato da Lenzini,13 mentre i versi riportati all’inizio non hanno ancora trovato alcun riscontro editoriale. La lettera del 5 maggio 1988 è infatti, al momento, l’unica attestazione fisica del componimento; nemmeno tra le carte sparse del poeta conservate presso l’Archivio Fortini della Biblioteca Umanistica dell’Università di Siena,14 dove invece è presente la «filastrocca», compare traccia di un processo compositivo o quantomeno di trascrizione dei dodici versi. La sola indicazione è quella data da Fortini sul finire dell’epistola, laddove dice di averli conservati «nel computer». È lo stesso poeta a offrirci un’ipotesi di datazione per la composizione della poesia: «Cara Rossana, ti ho vista iersera in TV. / Che tua è la vita, dicevi, e nessuno / per te può disporne» sono i versi d’apertura del componimento. L’occasione è dunque un’apparizione televisiva dell’amica. Una rapida ricerca all’interno degli archivi Rai trova come possibile riscontro un intervento di Rossana Rossanda in un programma di Rai2, in particolare uno speciale Tg2, intitolato per l’appunto Speciale referendum, andato in onda lunedì 18 maggio 1981 sugli esiti del referendum abrogativo svoltosi il giorno precedente. Nello specifico, la giornalista commentava con soddisfazione i risultati, motivando la coraggiosa scelta delle donne rispetto al quarto quesito, ovvero il no all’abrogazione delle disposizioni in materia di interruzione volontaria di gravidanza. Tale sfondo motiverebbe, dunque, anche la citazione della Rossanda utilizzata da Fortini nei vv 2-3: «Che tua è la vita, dicevi, e nessuno / per te può disporne». Sarebbe perciò possibile risalire a una data precisa di scrittura della poesia: quella del 19 maggio 1982. A confermare una composizione ascrivibile agli anni Ottanta, è anche la pacatezza del tono della poesia, rispetto a un tema che in passato, al contrario, lo aveva reso «l’infiammabile Fortini»15 agli occhi di tanti e in diverse occasioni: il proprio essere comunista e il rapporto con gli altri comunisti, in particolare quelli del Partito. A tal proposito, sembra funzionale ai fini del discorso, e di un inquadramento tematico più in generale del componimento, mettere in relazione le tre quartine dell’epistola con due poesie precedenti di Fortini: la «filastrocca» sopracitata, Per Rossana R., e l’ancora precedente, più celebre, Il comunismo,16 dalla raccolta Una volta per sempre. I tre componimenti sembrano infatti essere intensamente legati da un filo conduttore, una sorta di processo conoscitivo di sé e del proprio posto tra le compagini “rosse”.

Nel 1958, data de Il comunismo, Fortini appare più “isolato” che mai: l’intero scritto è infatti una rivendicazione del proprio essere «sempre stato comunista» nonostante l’avversione degli altri comunisti iscritti o nell’orbita del PCI.

Sempre sono stato comunista.
Ma giustamente gli altri comunisti
hanno sospettato di me. Ero comunista
troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi.
Giustamente non m’hanno riconosciuto.

La disciplina mia non potevano vederla.
Il mio centralismo pareva anarchia.
La mia autocritica negava la loro.
Non si può essere comunista speciale.
Pensarlo vuol dire non esserlo.

Così giustamente non m’hanno riconosciuto
i miei compagni. Servo del capitale
io, come loro. Più, anzi: perché lo dimenticavo.
E lavoravano essi; io il mio piacere cercavo.
Anche per questo sempre ero comunista.

Troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi
di questo mondo sempre volevo la fine.
Ma la mia fine anche. E anche questo, più questo,
li allontanava da me. Non li aiutava la mia speranza.
Il mio centralismo pareva anarchia.

Com’è chi per sé vuole più verità
per essere agli altri più vero e perché gli altri
siano lui stesso, così sono vissuto e muoio.
Sempre dunque sono stato comunista.
Di questo mondo sempre volevo la fine.

Vivo, ho vissuto abbastanza per vedere
da scienza orrenda percossi i compagni che m’hanno piagato.
Ma dite: lo sapevate che ero dei vostri, voi, no?
Per questo mi odiavate? Oh, la mia verità è necessaria,
dissolta in tempo e aria, cuori più attenti a educare.

La poesia è di poco successiva alla rottura principale che avvenne tra il «comunista speciale» e i comunisti di partito, quella del 1956, cominciata con le vicende successive al XX congresso del PCUS di febbraio per poi sfociare nella crisi seguita alla repressione ungherese di novembre. Non è un caso, infatti, che la poesia segua, all’interno della sezione Traducendo Brecht II in Una volta per sempre, quella intitolata 4 novembre 1956: «Soldato russo, ragazzo ungherese, / non v’ammazzate dentro di me. / Da quel giorno ho saputo chi siete: / e il nemico chi è».17 Se a Fortini, da un lato, pareva «illudersi che il 1956 non abbia rappresentato una interruzione, un salto qualitativo nella storia del comunismo»,18 sembrò anche che la stessa necessità di ripensare se stessi, la propria militanza politica tra le fila di socialisti e comunisti e, più in generale, la propria idea di comunismo reale non fosse condivisa dagli altri intellettuali e politici “rossi”:

chiedemmo che i resultati del XX e poi il rapporto Chruščëv venissero discussi insieme dai militanti dei due partiti, e intanto dagli intellettuali dei due partiti e da quegli intellettuali che si richiamassero al marxismo. Altrimenti avremmo avuto, come abbiamo avuto, il silenzio; riempito solo dalle affermazioni dei giornali e dei dirigenti e dei congressi. […] L’idea che fra marzo e ottobre, operai e intellettuali comunisti e socialisti si trovassero insieme a discutere, non già o non soltanto delle virtù o delle colpe di Stalin ma del funzionamento delle rispettive organizzazioni politiche e sindacali e delle virtù e colpe dei loro stessi dirigenti – quella idea percuoteva di orrore (o di disinteresse) i politici del tuo (e del mio) partito. Se dicevamo «classe», ci veniva risposto «partito». Se dicevamo «unità», unità nella verità, nella amarissima verità delle colpe dell’Urss e nostre, ci veniva risposto «divisione», ciascuna delle due parti ripromettendosi di ingrassare a spese dell’altra. Alla formula della «verità vigilata» che Chruščëv avrebbe voluto veder rispettata in Polonia e in Ungheria, i nostri comunisti associavano qui quella di «unità vigilata».19

La violenta repressione sovietica delle rivolte in Ungheria mise di conseguenza irrevocabilmente, sul finire dell’anno, una pietra sopra alla questione Fortini-PCI. E per un certo periodo anche a quella Fortini-Rossanda. Nel novembre 1956 il poeta presentò le sue dimissioni definitive (definitive perché furono le ultime di una lunga serie) dal Consiglio della Casa della Cultura, augurandosi una violenta vendetta operaia contro l’amica Rossanda e il dirigente di partito Mario Alicata, che proprio in Via Borgogna20 andò a difendere le operazioni repressive dell’esercito dell’Unione Sovietica:

Chiamammo Alicata a discutere e rendere conto. Quella sera, dopo una riunione triste e dura in periferia – quell’anno mi vennero i primi capelli bianchi – scesi in allarme, a mezzanotte, le scale di via Borgogna, c’era una gran folla e sentii la voce di Alicata che tuonava: “… perché in questo momento l’esercito sovietico sta difendendo l’indipendenza dell’Ungheria”. Buon dio. La sala ringhiò.21

La reazione dell’autore di Dieci inverni fu furente: «spero che gli operai vengano a rompervi la faccia»;22 tanto violenta che la giornalista la ricorderà, parafrasandola, in tutti i suoi scritti sull’amico poeta.23 Un ulteriore inquadramento della rottura tra Fortini e i comunisti italiani (e in più in generale del rapporto tra il poeta e il partito) viene proprio da una riflessione, a posteriori, di Rossanda, nell’articolo che scrisse su «il manifesto» il giorno successivo alla scomparsa del caro amico:

Presto nel dopoguerra lui antifascista, comunista, d’una radicalità anche talvolta toscanamente anticlericale e antiborghese, aveva diffidato del Pci, suo eterno interlocutore che di quel che egli andava dicendo non voleva sapere; e l’essersi per un tempo accontentato del Psi era un meno peggio nel quale non stava bene. Avrebbe voluto forse stare, anzi essere chiamato a stare con diritto di parola, accanto o dentro il partito più grande, quello dei proletari; che invece gli rispondeva aspramente e non senza l’arroganza di chi si sentiva vulnerato da sinistra e su un punto scoperto, la libertà – e non quella in genere ma quella dei comunisti. Anticapitalista perché libertario, libertario perché marxista, tentato dall’operaismo e respinto da ogni semplificazione pseudo proletaria – la semplicità gli suonava ipocrita, concessiva a un’idea falsa delle masse, dunque pronta al compromesso, dunque ab origine borghese – con i comunisti non poteva stare ma neanche senza di loro. […] Nel 1956 ci mandò un telegramma di contumelie: «Spero che gli operai vengano a rompervi la faccia», lui che, credo, non ha mai fatto un gesto di violenza. Poche settimane dopo tornava, non dava tregua ai comunisti, erano i meno peggio, avevano dalla loro, malgrado le insipienze, la ragione storica e su di essi tempestava – non ebbe mai altra casa, non ebbe casa, ospite ingrato dovunque. Il 1956 era parso aprire per un momento una strada simile a quella che avrebbe voluto, fuori dal gelo dei dieci inverni. Non fu così. Non si stracciò le vesti, non aveva il temperamento di un pentito. E rifletteva più ancora che non scrivesse, rissoso ma cauto, badando a non uscire dalla parola poetica che era la sua, raccolta, elaborata, figlia anche del silenzio.24

I rapporti tra i due si raffreddarono per circa dieci anni (salvo sporadiche comunicazioni “di servizio”, come ad esempio nel 1963, nel momento in cui Fortini chiese alla Rossanda di parlare con i redattori de «l’Unità» affinché correggessero una recensione del film Processo a Stalin25 in cui il poeta veniva citato ancora come autore),26 fino a quando, per citare ancora “la ragazza del secolo scorso”, «il 1968 e il manifesto ci riunirono».27 Proprio in quegli anni (Rossanda fu radiata dal PCI durante il XII congresso del PCI nel febbraio del 1969, il primo numero de «il manifesto» è del 23 giugno dello stesso anno), in effetti, è plausibile datare, per il riferimento alla “nuova” repressione sovietica a Praga, la seconda poesia di questo percorso, Per Rossana R.

(su un motivo di P. Verlaine)

In questo tempo che divaga
in questo tempo che ci allaga
di malgrado e di sebbene
a me la Rossana va bene.

Collettivisti a tutta paga
di cooperativa dabbene
e voi marxisti del pliocene
assopiti alla vecchia saga
professori di controscene
aiuto-carristi di Praga
soviettisti delle catene
letterati di gaie cene
italiani di mente vaga
a me la Rossana va bene.

Gente, la rima non ripaga
corta è la vita lunga la piaga.
Finché un’ora più vera non viene
la Rossana a me va bene.

La «filastrocca», tutta giocata sull’alternarsi delle rime in -ene e in -aga, se da un lato mostra toni molto più critici nei confronti dei comunisti di quelli utilizzati ne Il comunismo, dall’altro lato sembra trovare finalmente un appiglio all’interno della compagine degli avversari: «a me la Rossana va bene». Sebbene il gruppo comunista ormai sia composto soltanto da «marxisti del pliocene assopiti alla vecchia saga», «professori di controscene», «aiuto-carristi di Praga», «soviettisti delle catene», «letterati di gaie cene» e «italiani di mente vaga», pur se «di malgrado e di sebbene», Fortini e Rossanda si sono ritrovati, hanno riaperto un confronto che li terrà legati per tutta la vita. Senza mai abbassare la guardia, sulle pagine de «il manifesto», per via epistolare e qualche volta anche dal vivo, i due proseguiranno in un affettuoso duello, fatto di idee e punti di vista talvolta diametralmente opposti, su tutte le complicate vicende politiche che impegnarono la “sinistra italiana” durante i vent’anni precedenti alla caduta del muro. Pur rivendicando sempre i difetti l’uno dell’altra, di Rossanda il legame originario col partito, di Fortini gli attacchi spesso troppo violenti alle persone vicine alla giornalista (si veda la questione sorta tra Fortini e Luigi Pintor nel 1979, a seguito della recensione negativa dell’“ospite ingrato” sul Doppio diario del fratello del direttore de «il manifesto», Giaime, morto durante la seconda guerra mondiale, che portò a una nuova breve rottura tra F.F. e R.R.),28 o l’essere ancorati troppo ferreamente sulle proprie idee, il contraddittorio fu una delle poche occasioni per entrambi di lasciarsi andare a una messa in discussione di sé e del proprio essere comunista, resa più agevole dal meccanismo dialettico, oltre che dalla privatezza, di uno scambio epistolare.29

È al termine di questo processo dialettico, ben rappresentato anche dalle poesie qui raccontate in sequenza, che possono inserirsi i dodici versi della lettera del 5 maggio 1988. I toni sono pacati, quasi completamente dimessi a causa delle ultime decisive sconfitte subite da chi è «sempre stato comunista», oltre che per la senilità ormai sopraggiunta. Qui Fortini può finalmente riconoscere la legittimità e la ragion d’essere di un comunismo diverso dal suo, quello dell’amica di lunga data: «Due comunismi ci sono», provando poi a illustrarne le differenze. Le definizioni che poeticamente prova a dare di questi «due comunismi» sembrano, inoltre, per la prima volta tradire il profilo unicamente teorico o “dottrinale”, sul quale avevano avuto modo di discutere a lungo, per provare a darne invece una definizione basata più su di un atteggiamento, sul modo di vivere il comunismo. Della Rossanda, dunque, evidenzia e riconosce l’impegno, la militanza e le battaglie politiche combattute anche all’interno del Partito, «che vuole/ per ognuno e per tutti coscienza di sé»; di sé invece, forse per la prima volta con l’amica, ammette la propensione, a tratti prevaricatoria, «che negli altri si crei / la nostra figura né mai se ne veda la fine», ma che chiaramente non è mai, in alcun caso, per un fine strettamente personale, bensì sempre collettivo. E la quartina finale della poesia si concentra proprio su questo, sul tentativo di spiegare, con un articolata analogia sulle figure delle foglie e del bosco, le ragioni della propria indole: «Questa è la mia religione. Che tutto sia segno / e si converta in altro. La foglia si adempia / ma sia il bosco a parlare per ognuna / se al cielo vuoto di dèi vada il vento». Più che due comunismi, dunque, due modi di vivere il comunismo. E a questo proposito, qualche anno dopo, nel 1989, sulle pagine dell’inserto satirico «Cuore» della tanto avversata «l’Unità», Fortini provò a dare «in quaranta righe» la propria definizione di comunismo; un passaggio in particolare pare una sorta di mise en prose delle ultime due quartine di Cara Rossana, ti ho vista iersera in tv:

Il combattimento per il comunismo è già il comunismo. È la possibilità […] che il maggior numero di esseri umani – e, in prospettiva, la loro totalità – pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante. Unico progresso, ma reale, è e sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente, dove sia possibile promuovere i poteri e la qualità di ogni singola esistenza. […] Il comunismo in cammino (un altro non esiste) è dunque un percorso che passa anche attraverso errori e violenze, tanto più avvertiti come intollerabili quanto più chiara si faccia la consapevolezza di che cosa gli altri siano, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri; e viceversa. Il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita.30

La poesia, per concludere, sembra essere l’ennesima, affascinante, fotografia scattata da uno dei due amici ad un rapporto andato avanti, tra tanti alti e tanti altri bassi, per più di quarant’anni. Un rapporto fatto di affetto e scontri ideologici, stima e lotte politiche; non poteva essere altrimenti, per Franco Fortini, l’«ospite ingrato», «letterato per i politici, ideologo per i letterati»,31 e Rossana Rossanda, la «ragazza del secolo scorso» che aveva fatto della «politica» la propria «educazione sentimentale».32

Note

1 La lettera è conservata presso l’Archivio del Centro Studi Franco Fortini presso l’Università degli Studi di Siena (da qui in avanti indicato con AFF), XVI 74.

2 La lettera, datata 20 maggio 1988, è conservata anch’essa presso l’AFF, XII 33.

3 R. Luperini (a cura di), Tradizione, traduzione, società. Saggi per Franco Fortini, Torino, Editori Riuniti, 1989.

4 Ivi, pp. 326-342.

5 AFF, XVI 74.

6 «Cara Rossana, vorrei capire meglio […] come mai ho tanta difficoltà, ormai da anni, a scriverti e persino a telefonarti, ricambiato, beninteso, dalle tue spudorate promesse di cercarmi quando tu passassi per Milano. […] Per questo non mi dolgo dei tuoi silenzi anzi mi vergogno di essermene doluto».

7 R. Rossanda, Comunista con furore. In morte di Franco Fortini, in «il manifesto», 29 novembre 1994.

8 Vedi le pagine autobiografiche di Ead., La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi, 2005.

9 F. Fortini, Dieci inverni. 1947-1957. Contributi a un discorso socialista, Macerata, Quodlibet, 2018, p. 11.

10 Disobbedienze. Conversazione con Edoarda Masi, Rossana Rossanda, Paolo Virno, in «L’ospite ingrato. Annuario del Centro Studi Franco Fortini», I, 1998, Macerata, Quodlibet, 1998, p. 177.

11 R. Rossanda, Le capre ostinate, in R. Luperini, Tradizione, traduzione, società, cit., p. 326.

12 F. Fortini, Poesie inedite, a cura di P.V. Mengaldo, Torino, Einaudi, 1997, p. 36.

13 Id., Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2014, pp. 821-822.

14 Vd. F. Diaco, Tra le poesie “scartate” di Franco Fortini, in «L’ospite ingrato», 11 gennaio 2017.

15 R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso, cit., p. 156.

16 F. Fortini, Tutte le poesie, cit., pp. 251-252.

17 Ivi, p. 250.

18 F. Fortini, Dieci inverni, cit., p. 301.

19 Ivi, pp. 299-300.

20 Sede della Casa della Cultura a Milano.

21 R. Rossanda, Di sera si andava in via Borgogna, in G. Canova (a cura di), Cinquant’anni di cultura a Milano, Milano, Skira, 1996, p. 57.

22 Ibidem.

23 Si veda R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso, cit., pp. 174-175; Ead., Le capre ostinate, cit., pp. 331-332; Ead., Uno sperato tutto di ragione, in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. XVI; Ead., Comunista con furore. In morte di Franco Fortini, cit.

24 R. Rossanda, Comunista con furore, cit.

25 F. Lucisano-R. May, Processo a Stalin, 1963, Italia.

26 Le lettere sono conservate presso l’AFF (XVI 70; XII 33).

27 R. Rossanda, Le capre ostinate, cit., p. 333.

28 Sul finire del 1978, la saggista e giornalista Mirella Serri (Roma, 1949), con la collaborazione di Luigi Pintor, curò e pubblicò il Doppio diario di Giaime Pintor (Roma, 1919 – Castelnuovo al Volturno, 1943), fratello di Luigi, giornalista e soldato antifascista, che morì a causa di una mina nel tentativo di oltrepassare le linee nemiche per raggiungere Roma durante la guerra di liberazione (G. Pintor, Doppio Diario 1936–1943, a cura di M. Serri, Torino, Einaudi, 1978). Luigi Pintor chiese a Fortini di recensire il libro su «il manifesto». L’articolo di Fortini destò diverse reazioni negative, prima fra tutte quella di Pintor, che rifiutò lo scritto: secondo Fortini, se Giaime non fosse morto su quella mina, data la sua provenienza dall’élite politica dell’Italia della monarchia liberale, sarebbe diventato un «commis d’etat» dell’alta borghesia a tutti gli effetti. «Oggi so che i miei veri avversari erano (sono?) della razza di Giaime Pintor, straordinario traduttore, intelligenza rara, […] con veri avversari voglio dire che un cosciente discrimine di classe passa oggi, come passava ieri, fra noi; perché né lui né io sapevamo fino in fondo di quali tradizioni contrarie eravamo figli, e solo oggi lo sappiamo». Fortini critica duramente la pubblicazione del diario, un’opera secondo lui borghese e che poco ha a che fare con la sinistra operaia o comunque comunista. Decise comunque di pubblicare l’articolo su «Quaderni Piacentini» (F. Fortini, Vicini e distanti, in «Quaderni Piacentini», 70-71, 1979; poi in Id., Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Milano, Garzanti, 1985, pp. 162-172). Seguì la violenta risposta di Pintor sulle pagine de «l’Espresso» (L. Pintor, Com’era mio fratello e come sei tu, in «l’Espresso», 25, 24 giugno 1979). A seguito della vicenda, la collaborazione di Fortini con «il manifesto» fu sospesa. Nell’agosto del 1979, Fortini scrisse una lunga lettera a Pintor, motivando il suo punto di vista sulla questione e tentando di ricucire il rapporto col giornalista, ma non sortì alcun effetto.

29 Sono 61 le lettere conservate presso l’AFF dello scambio intercorso tra Franco Fortini e Rossana Rossanda (di cui 27 sono della Rossanda a Fortini e 44 quelle del poeta alla giornalista) e coprono un arco temporale che va dal 1951 al 1993. Diversi furono, inoltre, gli interventi di Fortini per «il manifesto» sotto forma di lettera in risposta agli articoli della Rossanda (cfr. F. Fortini Disobbedienze I. Gli anni dei movimenti: scritti sul Manifesto, 1972-1985 e Disobbedienze II. Gli anni della sconfitta: scritti sul Manifesto, 1985-1994, Roma, manifestolibri, 1996 e 1997).

30 F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990, pp. 99-100.

31 F. Fortini, Dieci inverni, cit.

32 È il sottotitolo di R. Rossanda, Un viaggio inutile o della politica come educazione sentimentale, Milano, Bompiani, 1981.