27 gennaio: Giorno della Memoria. Come ogni anno, in prossimità della ricorrenza, i giornali danno conto di libri e iniziative sul tema, le piattaforme e i canali televisivi trasmettono film, documentari, interviste. Questa sera, per esempio, andrà in onda in seconda serata su Rai 1 il docufilm
Il respiro di Shlomo, diretto da Ruggero Gabbai, prodotto dalla Fondazione Museo della Shoah con Rai Cinema, scritto da uno dei maggiori storici della Shoah, Marcello Pezzetti (tra i suoi molti, fondamentali studi, c’è
Il libro della Shoah italiana. I racconti di chi è sopravvissuto, Torino, Einaudi, 2009).
Il docufilm è dedicato a Shlomo Venezia (Salonicco 1923-Roma 2012), di famiglia ebrea sefardita insediatasi secoli fa nella Macedonia greca controllata dalla Repubblica di Venezia: di qui il cognome e la cittadinanza italiana. Shlomo e i suoi familiari vennero arrestati nel marzo del 1944 e deportati ad Auschwitz-Birkenau; prima di essere liberato e di raggiungere l’Italia (Udine e poi Roma, dove si stabilì), Shlomo conobbe anche altri campi (Ebensee, Mauthausen). A Birkenau fu costretto a far parte dei Sonderkommandos, squadre di prigionieri che avevano il tragico compito di smaltire i cadaveri delle vittime delle camere a gas. La sua vicenda è raccontata nel libro Sonderkommando Auschwitz (a cura di Marcello Pezzetti e Umberto Gentiloni Silveri, da un’intervista di Béatrice Prasquier, Milano, Rizzoli, 2007, nuova ed. 2018). Roberto Benigni volle che fosse, insieme allo stesso Pezzetti, tra i consulenti per il film La vita è bella. Il valore della testimonianza di Shlomo Venezia è profondo e quasi unico: pochissimi furono i sopravvissuti tra i Sonderkommandos (periodicamente uccisi dalle SS perché non rivelassero quanto erano costretti a vedere e fare); tra questi, rari sono coloro che hanno raccontato, inibiti dalla gravità del trauma, dal senso di colpa, dal timore del giudizio per la loro stessa sopravvivenza, per l’incolpevole e coatta funzione nel campo di sterminio imposta dai nazisti.
Sul numero 320 di «Robinson», supplemento culturale di «Repubblica», uscito sabato 21 gennaio 2023, si legge un importante articolo in cui Marcello Pezzetti ricorda l’incontro con Shlomo e racconta la storia del sopravvissuto. Il titolo dell’articolo, richiamato nella prima pagina in cui appare anche una foto del testimone, è Sommerso e salvato: un’evidente citazione del libro di Primo Levi (l’ultimo pubblicato vivente l’autore, nel 1986). «Noi toccati dalla sorte», scrive Levi nel capitolo «La vergogna dei Sommersi e i salvati»,
abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso «per conto di terzi», il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Parliamo noi in loro vece, per delega (cito dal secondo volume delle Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 2016, pp. 1196).
Potremmo quasi dire che Shlomo è tornato per raccontare quella «demolizione condotta a termine» che Levi non conobbe direttamente: lo scrittore infatti non aveva visto personalmente le camere a gas in attività, perché non si trovavano ad Auschwitz-Monowitz, dove visse la sua prigionia. Shlomo Venezia fu dunque molto più vicino di Levi alla condizione di ‘sommerso’, pur essendosi alla fine ‘salvato’ (se di salvezza si può parlare, dopo l’esperienza subita, l’orrore toccato: «Non ho più avuto una vita normale. […] Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio», ha scritto Shlomo alla fine del suo memoriale).
In effetti, il testo dell’articolo di Pezzetti fa un veloce riferimento a Primo Levi: «la società europea», spiega lo storico, considerava i membri dei Sonderkommandos «quasi dei “collaborazionisti”, come se avessero “partecipato”, in qualche misura, alle pratiche di annientamento naziste (si pensi, per esempio, al giudizio, in questo caso del tutto scorretto, di Primo Levi, che li aveva definiti i “corvi neri” dei crematori» (p. 3).
«I corvi neri del crematorio»: quest’espressione è citata decine, centinaia di volte in rete (anche in siti autorevoli come Treccani), ed è sempre attribuita a Primo Levi, in particolare a un passo proprio dei Sommersi e i salvati. Però internet, come scrive Levi a proposito della memoria, è uno strumento meraviglioso ma fallace. Se leggiamo quel passo, infatti, ci rendiamo conto che la citazione è sbagliata. Per due ragioni.
La prima è che Levi non scrive «corvi neri del crematorio», ma solo «corvi del crematorio» (un aggettivo in meno cambia poco – si dirà – ma in un contesto del genere ogni tratto connotativo ha un rilievo, specialmente per un autore così preciso nelle scelte lessicali).
La seconda ragione è che nel testo di Levi l’espressione è tra virgolette, dunque riferibile a parole altrui, verosimilmente al gergo del Lager: non è, insomma, un’espressione dell’autore, ma una citazione. Né, a leggere bene, quell’espressione si accompagna alla formulazione di un giudizio, ma si lega invece alla denuncia della colpa brutale delle SS. Ecco il passo in questione:
Niente di simile è mai avvenuto, né sarebbe stato concepibile, con altre categorie di prigionieri; ma con loro, con i «corvi del crematorio», le SS potevano scendere in campo, alla pari o quasi. Dietro questo armistizio si legge un riso satanico: è consumato, ci siamo riusciti, non siete più l’altra razza, l’anti-razza, il nemico primo del Reich Millenario: non siete più il popolo che rifiuta gli idoli. Vi abbiamo abbracciati, corrotti, trascinati sul fondo con noi. Siete come noi, voi orgogliosi: sporchi del vostro sangue come noi. Anche voi, come noi e come Caino, avete ucciso il fratello. Venite, possiamo giocare insieme (p. 1177).
In questo brano, l’espressione tra virgolette prepara l’ingresso della voce altrui, attribuibile senza dubbio a un locutore indistinto – il sistema concentrazionario, le SS, il nazismo – a cui nei
Sommersi e i salvati Levi dà spesso la parola, per svelare la mistificazione da cui trae forza il negazionismo contemporaneo. Lo sviluppo del passo suggerisce che anche i «corvi neri» siano parte di quell’anonimo discorso altrui.
Dunque l’espressione non corrisponde direttamente al pensiero di Levi, quelle parole non sono veramente sue. Dobbiamo allora chiederci: che cosa ha davvero scritto Primo Levi sui Sonderkommandos, quali sono la lettera e il senso delle sue “vere” parole al riguardo? Mi è già capitato di riflettervi, sempre a proposito di una contrapposizione fra Levi e Shlomo Venezia (Dovuto a Primo Levi, «Le parole e le cose», 8 marzo 2019). Nel capitolo «La zona grigia» dei Sommersi e i salvati scrive:
Un caso-limite di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos di Auschwitz e degli altri Lager di sterminio. Qui si esita a parlare di privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto (ma a quale costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente vaga, ‘Squadra Speciale’, veniva indicato dalle SS il gruppo di prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, da 700 a 1000 effettivi. Queste Squadre Speciali non sfuggivano al destino di tutti; anzi, da parte delle SS veniva messa in atto ogni diligenza affinché nessun uomo che ne avesse fatto parte potesse sopravvivere e raccontare. Ad Auschwitz si succedettero dodici squadre; ognuna rimaneva in funzione qualche mese, poi veniva soppressa, ogni volta con un artificio diverso per prevenire eventuali resistenze, e la squadra successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori. L’ultima squadra, nell’ottobre 1944, si ribellò alle SS, fece saltare uno dei crematori e fu sterminata in un diseguale combattimento (p. 1173).
Più avanti, Levi usa in effetti un’espressione che appare più severa: «miserabili manovali della strage». Occorre leggere però l’intero brano in cui questa definizione compare. Nei confronti dei «miserabili» (forse da interpretare come «miserevoli»), Levi non esprime né sollecita alcun giudizio:
Quelli di cui sappiamo, i miserabili manovali della strage, sono dunque gli altri, quelli che di volta in volta preferirono qualche settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata, ma che in nessun caso si indussero, o furono indotti, ad uccidere di propria mano. Ripeto: credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto l’esperienza del Lager, tanto meno chi non l’ha conosciuta (pp. 1179-80).
Già in Se questo è un uomo Levi aveva menzionato i Sonderkommandos, riconoscendo ai ribelli che avevano fatto saltare i crematori di Birkenau, accomunati nel destino agli altri prigionieri, una forza e un coraggio superiori:
Il mese scorso, uno dei crematori di Birkenau è stato fatto saltare. Nessuno di noi sa (e forse nessuno saprà mai) come esattamente l’impresa sia stata compiuta: si parla del Sonderkommando, del Kommando Speciale addetto alle camere a gas e ai forni, che viene esso stesso periodicamente sterminato, e che viene tenuto scrupolosamente segregato dal resto del campo. Resta il fatto che a Birkenau qualche centinaio di uomini, di schiavi inermi e spossati come noi, hanno trovato in se stessi la forza di agire, di maturare i frutti del loro odio (Opere complete, vol. I, p. 257).
Il Giorno della Memoria è un’occasione, non per contrappore Primo Levi a Shlomo Venezia (un contrasto che può essere travisato, a paradossale vantaggio postumo di chi volle aggravare lo sterminio con un «parossismo di perfidia e di odio»: La zona grigia, p. 1175), ma per leggere, ricordare, trasmettere le (vere) parole dei testimoni.