
La reiterata esaltazione della bellezza – anzi della Grande Bellezza – che l’Italia custodisce è diventata uno slogan in varie accezioni modulato, ridotto a espediente turistico-pubblicitario o invocato come patrimonio da valorizzare per un difficile rilancio economico. Raramente ci si interroga sul significato di una nozione dell’abusato concetto culturalmente esplicitato e sulle screziature semantiche che l’hanno reso mutevole nei secoli. L’uso di programmare un viaggio in Europa che fosse conoscitivo e formativo per i rampolli dell’aristocrazia dominante si diffonde intensamente a partire dalla metà, più o meno, del XVIII secolo, ma i prodromi risalgono a ben prima. Quando prende forma stabilendo soste di una geografia dalle obbliganti stazioni già era praticato, per frammenti, senza un canone prestabilito. E Attilio Brilli, esperto sommo di letteratura odeporica, e autore di un mucchio di saggi sul tema, questa volta anziché accompagnare i curiosi visitatori lungo gli itinerari più frequentati, muove dall’oggetto dei desideri, e compendia con colloquiale scansione narrativa gli ingredienti che eccitavano la smania di infrangere i monotoni confini dell’esperienza quotidiana e approdare ad una sognata terra promessa.
Il Bello di cui si andava in cerca appare quasi una reazione agli esordi della rivoluzione industriale e, quando va bene, si nutre di sentimenti che rinvengono appigli nella realtà. Così questo volume che enumera prodigi e guai dell’usanza destinata a sfociare nel corrivo turismo dei nostri ansiosi giorni – La grande incantatrice. Il fascino dell’Italia per i viaggiatori di ogni tempo – suggerisce una riflessine critica, che deve guardarsi dal cadere in un improbabile moto di nostalgia per quanto si è perduto nel nostro modo di vedere e vivere opere d’arte e paesaggi, figure e luoghi. Andrà subito chiarito che il Bello bramato oggi come esperienza è di norma lontano dal valore del Bene che l’accoppiava nella civiltà greca. E ha dismesso, o molto ridotto, lo spessore religioso che l’ha sostanziato nelle età più feconde. Si è laicizzato in una modernità mutilante e funzionale: il che non vuol dire che si sia disperso o non possa essere a tratti resuscitato, frammisto a percezioni e interpretazioni da recuperare. Se nell’Età dell’Illuminismo la bellezza ambisce ad un’«astratta leggiadria» che delinea un immaginifico teatro, oggi si dovrebbe puntare a leggere i capolavori nella «cultura ambientale in cui sono nati» e quindi non farsi prigionieri di esclusive direttrici principali escludendo diramazioni e silenzi spiritualmente remunerativi. In una pagina, certo datata, John Ruskin esaltò «la fatica e la lentezza – sottolinea Brilli – quali componenti essenziali del rapporto fisico che il viaggiatore stabilisce con la strada». E Henry James non esitò ad affermare che «la velocità provoca un’ebbrezza smemorante che impedisce di abbracciare nella loro varietà le terre attraversate». Sia il britannico che dette alle stampe i tre volumi di Praeterita (1885-1889) sia il newyorkese che raccolse nel classico Italian Hours (1907) gli innumerevoli articoli dedicati ai lunghi soggiorni trascorsi nelle dilette città italiane non nascondono che la ricetta per scoprire i segreti della contemporaneità fa tutt’uno con la presenza di un passato che ha incastonato immagini indelebili, velate o offese, da disseppellire con una rispettosa archeologia della memoria. La vorace catalogazione a fini espositivi del museo toglie respiro e verità alle cose, paralizza le statue che irrompono alla ribalta come implacati fantasmi. L’attrice inglese Fanny Kemble ritiene credibile la leggenda che tramandava di una fanciulla morta per amore per la tempesta erotica scatenata il lei – durante il soggiorno romano nel 1846 – dall’Apollo del Belvedere, eroe romanticizzato di uno sconvolgente melodramma. Non da meno fu la Venere dei Medici ospitata agli Uffizi, e sempre per «una malcelata attrazione sensuale». Se l’attrazione dei sensi domina molti degli incontri, non mancano visitatori rapiti da aspetti quasi ignorati: Johann Heinrich Füssli si chiede perché la «dolente bellezza» di Niobe non sia altrettanto apprezzata.
Le situazioni sulle quali meditare comporrebbero un elenco fittissimo. L’autore seleziona con garbo e raggruppa per generi: l’antico che sopravvive, il dialogo con le statue, l’invenzione della pittura e infine gli sguardi sul paesaggio. Via via antologizza brani che evitano quasi completamente storici e filologi di professione, dal momento che il suo scopo è portare alla luce quanto si trasfonde di un bene nel discorso dei non addetti ai lavori e quanto di appropriatamente critico sia registrato in un contatto diretto. Anche un ingenuo fedele coglieva nella cosiddetta Deposizione dalla croce di Jacopo Pontormo della fiorentina Chiesa di Santa Felicita la metafora di un addio evidenziato dal disgiungersi delle mani tra madre e figlio: il dettaglio è fulcro del tutto. E il Rosso Fiorentino, nella Deposizione di Sansepolcro, indugia sul momento successivo: nella pala coeva rappresenta con crudezza il «corpo illividito» del Cristo: il colore e la luce al servizio di un commosso raccoglimento. Inevitabile a questo punto la citazione dell’accademico francese Charles-Nicolas Cochin, che nel suo Voyage pittoresque d’Italie (1758) intravede l’abbandono del bello ideale, dopo il classicismo di Raffaello, e l’alba di un dipingere che imiti la natura: secondo lui credere in un bello che la trascenda è «pura chimera». Eppure più tardi si sarebbe avuto una sorta di rimbalzo: è l’esplosiva fortuna dei Primitivi, di coloro che a Firenze, a Siena, erano stati all’origine della figuratività italiana. E non si contano le svendite che per sempliciotta ignoranza o disinvolta avidità si praticarono cedendo al danaroso collezionismo e alle lusinghe del mercato. Su questo radicale mutamento del rapporto con i beni artistici Brilli non si dilunga. È un’altra vicenda che si apre: l’incantatrice si fa incantare, ma non per questo dismette il suo ruolo dominante di fervore creativo. Un’indicazione è da trarre, forse scontata e da modulare tenendo presenti le domande e gli impulsi, le incursioni e le logiche delle società di massa, non prive, ahimè, di appetiti colonialistici e di un uso strumentale – ricerca di prestigio e di propaganda politica – dell’arte. È la comprensiva categoria di paesaggio, di un’ecologia storicizzata che dovrebbe guidarci per nuovi cammini. Il libro si chiude con sferzanti toni da pamphlet: «Un atteggiamento troppo frettoloso o distratto non solo impedisce di entrare in contatto con un luogo o un’opera d’arte, ma si rivela per quello che è, un inutile e deleterio calpestio del volto della storia». L’ammonimento non si risolve in una cultuale separazione dell’arte da un quotidiano vissuto con intelligenza appassionata. Simone Weil – mi permetto un’aggiunta – in un lettera da Milano dell’aprile 1937 rivolgeva al giovane amico svizzero Jean Posternak una preghiera: «Non dimentichi, se ha ancora suggerimenti da darmi, di parlarmi non soltanto di opere d’arte, ma dei quartieri, dei ristoranti, degli spettacoli di basso o alto livello, comunque tipici… Sa che mi interessa ogni cosa».
[versione ampliata di un articolo apparso su «Alias» il 15 gennaio 2023]