Negli interventi autobiografici seguiti alle Histoire(s) du cinéma, Jean-Luc Godard ha spesso evocato l’esistenza di due tipi di storia: una storia dal ritmo vorticoso e una storia «a passi lenti». La seconda storia è quella che costituisce ciascuno di noi, ma che ciascuno al tempo stesso seppellisce sotto le evidenze immediate (cioè il patrimonio ideologico) del mondo sociale in cui è vissuto e cresciuto. Il cinema, secondo Godard, ha il potere di far riemergere questa storia sepolta, che le nostre categorie mentali individuali e collettive non riescono a cogliere sul vivo, e questo potere dipende dal montaggio, cioè dal trattamento di materiali da cui solo un’operazione metodica e riflessa di assemblaggio e di riarticolazione può far scaturire degli strati storici latenti, invisibili sulla superficie immediata. Piergiorgio Bellocchio non è, come il fratello Marco, cineasta. Ma il Diario cui ha lavorato per una quarantina d’anni, e di cui il volume del Saggiatore curato da Gianni D’Amo rende pubblica una (meritoria) selezione, datata dal 1980 al 2000, può essere avvicinato al compito che Godard assegnava al cinema: far riemergere la storia di cui ognuno è fatto lavorando a far vedere per la prima volta ciò che, nel visibile stesso, è rimasto non visto.
Qual è allora la storia «lenta» di cui Bellocchio ci restituirebbe l’intelligenza? Il titolo del volume sembra rispondere a questa domanda, ma si tratta di un titolo ambiguo, che merita qualche attenzione. Perché, infatti, intitolare «Diario del Novecento» un raccolta di osservazioni, citazioni, ritagli, immagini, ricordi, aneddoti e meditazioni costruita dall’autore tra gli anni 1980 e gli anni 2000? Se al genere del diario associamo la pratica della scrittura giorno per giorno, condotta sul filo dell’osservazione (esterna o intima) diretta, allora il Diario di Bellocchio riguarda solo gli ultimi vent’anni del ventesimo secolo. Stranezza apparente che rischierebbe, forse, di suggerire che il ventesimo secolo si riduce agli anni Ottanta e Novanta, cioè alle premesse dei tempi in cui viviamo attualmente. Ma, a ben vedere, le ragioni profonde della pertinenza di questo titolo rinviano precisamente a quanto, nel lavoro di Bellocchio, si oppone ad una siffatta cancellazione.
Il nostro presente, infatti, appare costituito interamente da una storia sepolta e rimossa, che contiene le radici delle contraddizioni e delle crisi attuali, ma che è raramente tematizzata come tale. Questa storia è la storia degli anni Ottanta e Novanta in Italia e nel mondo, dei decenni del riflusso e del crollo della prospettiva della Rivoluzione, e della distruzione di ogni memoria razionale, non solo dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, ma di larga parte del Novecento. In questa frattura, si pongono le basi per la crisi interminabile che sembra costituire il solo profilo riconoscibile del ventunesimo secolo, ed è quindi di questa frattura che noi tutti, lettori del Diario di Bellocchio, siamo figli più o meno inconsapevoli. Questi «montaggi» testuali e figurativi ci mostrano la storia da cui proveniamo, che non è quella del Novecento, ma quella della sua liquidazione. In questo senso, i materiali di Bellocchio, composti e articolati nell’ultimo ventennio del secolo scorso, costituiscono un «diario del Novecento» in un senso altamente idiosincratico: essi registrano infatti le mutazioni che hanno reso oggi illeggibile larga parte di quel secolo, ma mostrano anche le permanenze e le insistenze di quel tempo sepolto attraverso lo sguardo di chi è rimasto un «uomo del Novecento», non solo e non tanto per circostanze generazionali, ma per scelta deliberata. «Diario del Novecento» allora nel senso di un tentativo di recuperare un rapporto intellettuale, morale e affettivo con un’epoca i cui quadri fondamentali sono in via di sparizione.
Che vi sia una volontà ostinata di programmatica inattualità nelle pagine di Bellocchio mi pare risultare con chiarezza da un’osservazione su Fortini, inserita nel racconto dell’ultimo incontro con lui, nel 1994. Pur nel contesto generale di una (difficile) riconciliazione con l’autore di Verifica dei poteri, Bellocchio resta scettico davanti alla tendenza fortiniana ad indicare le coordinate della «nuova fase» storica in cui il mondo entra dopo la prima guerra del Golfo, e soprattutto davanti all’imperativo di essere all’altezza di tale novità. Questo avanguardismo latente di Fortini resta estraneo a Bellocchio, per ragioni forse più complesse di quanto non appaia. Vi è certo la decisione di restare fedele a qualcosa che non può essere smentito né verificato dal corso del tempo (è il senso di ciò che Bellocchio chiama «comunismo» ), e la scelta di non aderire all’attualità né di esser vincitore secondo i criteri di questa. Ma l’avanguardismo di Fortini non è ovviamente opportunista né storicista, è piuttosto l’esigenza di essere contemporaneo della storia nel suo stesso farsi, il sentimento di essere interpellato e coinvolto dagli e negli eventi collettivi: di essere embarqué come direbbe Pascal o engagé come direbbe Sartre, e di dover rispondere in modo adeguato alla chiamata (concetto centrale nel protestantesimo, com’è noto) che ciascuno riceve dalla storia, sebbene questa risposta non possa non prendere forme opache, imprudenti e incomplete. Mi pare che, di questa posizione, quanto susciti la presa di distanza di Bellocchio sia appunto la possibilità di una co-presenza effettiva tra l’individuo e la storia. L’apparizione nel tempo di ciò che vale ha avuto luogo, ma è stata in seguito occultata e rimossa, e non è più possibile oramai esserle contemporanei nell’assolutezza dell’istante:
Questa riconciliazione con Fortini, successiva all’attacco di Alfonso Berardinelli nell’ultimo numero di «Diario»,2 non avviene per caso sotto il segno dell’ultima raccolta poetica. Composita solvantur e Diario del Novecento sono entrambi profondamente attraversati dalla Guerra del Golfo, annuncio del nuovo secolo in cui la leggerezza e l’opulenza del mondo tardo-capitalista si trasformano, e fino ad oggi, in catena infinita di distruzioni di massa. Ma appunto, questo risultato fa parte di una storia ricoperta dai simulacri della cultura spettacolare post-moderna: tra le immagini raccolte da Bellocchio, ve n’è una di Giovanni Paolo II al fianco di Pinochet, ricordata da Alberto Saibene.3 Sarebbe un errore il non vedervi che la demistificazione dell’immagine del Papa post-moderno per eccellenza, divenuto in seguito un’icona consensuale e benpensante. L’immagine mostra anche la benedizione data al boia, l’unione della sciabola e dell’aspersorio a difesa dell’ordine sociale, e annuncia, aldilà di queste già antiche realtà, la posteriore proliferazione di discorsi «sacri» a sostegno delle forme più contemporanee dell’oppressione, dagli Stati Uniti al Brasile all’Est post-sovietico. Assistiamo quindi all’operazione alchemica (ancora una volta coerente con l’ultima poesia fortiniana) che trasforma dapprima un papa reazionario e arcaico in una vedette modernissima dello spettacolo e poi una religiosità spettacolarizzata, largamente fomentata dal suddetto papa e dalla sua crociata anticomunista, in arma da guerra mondiale. Un altro esempio di alchimia storica è l’evocazione di Furio Colombo tra i più feroci corifei della guerra e degli interessi strategici israeliani, che ricorda analoghe descrizioni di giornalisti civilissimi trasformati in fanatici guerrafondai nei Cani del Sinai: più brutale di Fortini, Bellocchio insiste sulla trasformazione fisica del fine e colto scrittore, ex-chairman Fiat, di casa a New York e a Berkeley, alla Olivetti e in Rai, in animale ringhiante, letterale «cane da guardia» secondo l’espressione rivolta agli intellettuali ufficiali della Terza Repubblica da Paul Nizan. Senonché, il lettore di Bellocchio nel 2022 non può non avere in mente altre metamorfosi di Colombo, tra cui quella, dal 2001 al 2008, in pugnace antiberlusconiano – e a questo titolo punto di riferimento del popolo di sinistra – direttore nientemeno che del giornale fondato da Antonio Gramsci, «l’Unità», già organo del Partito comunista italiano, di cui Bellocchio registra la chiusura nel 2000, giudicandola preferibile alla trasformazione della gloriosa testata in qualcosa di irriconoscibile (e tale sarà appunto «l’Unità» di Furio Colombo). Il punto centrale non è il trasformismo del ceto giornalistico italiano, ma qualcosa di ben più difficile da focalizzare: cioè la procurata illeggibilità di vasti strati della storia contemporanea per quanti dovessero trarre le coordinate della comprensione del mondo dai soli ultimi vent’anni. Cosa rende possibile, infatti, che l’uomo della Nato (e della Fiat) divenga il successore del teorico dei Soviet a Torino se non una mostruosa cancellazione della sostanza di tutto un secolo? Una parte di questa sostanza, il fondo oscuro della violenza estrema dello scontro che ha attraversato il Novecento – Fortini lo chiamava la «guerra civile mondiale intorno al comunismo» – ridiventa per un istante visibile nell’accostamento del pontefice al macellaio e nell’imbestialire incontrollato del liberale colto.
Questa cancellazione della storia collega, nella scrittura di Bellocchio, le vicende internazionali alla situazione italiana (ma l’Italia è sempre stata un laboratorio le cui dinamiche locali hanno costantemente anticipato gli scenari globali). E il nucleo di tale situazione è, all’inizio degli anni Novanta, la distruzione deliberata e sistematica delle culture politiche diffuse molecolarmente nel quotidiano e delle memorie collettive legate al movimento comunista, alle lotte sociali e alla stessa Resistenza. La registrazione puntuale, a partire dal 1994, degli enunciati in cui si esprime questa distruzione compone un quadro impressionante, e tanto più per un lettore che, uscito in quegli anni dall’adolescenza, dovesse rendersi conto contemplandolo da quali processi storici, di qual natura e magnitudine, è stata agita la sua giovinezza. Nella genealogia di quanti hanno oggi più di quarant’anni vi sono la televisione secondo Funari, Santoro e Ferrara e il cinema secondo Veltroni, le cravatte e le camicie osceno-virili dei leghisti e i completi grigio-blu, tra l’impiegatizio e il mafioso, dei notabili di Forza Italia, i ditirambi a Franco e a Mussolini di Sergio Romano, e poi il liberalismo postumo di Colletti, Vertone, Melograni… Elementi aneddotici, forse, ma che, debitamente riuniti e assemblati, si rivelano soprattutto sintomi di movimenti profondi nelle maniere di agire, di parlare e di pensare, nei paradigmi affettivi, intellettuali, estetici e morali: movimenti cioè ormai dileguatisi nei loro risultati, nelle nuove evidenze successive alla mutazione da essi prodotta. Il lavoro di Bellocchio ci permette di cogliere l’apparire di quei fenomeni ad uno sguardo per cui essi non erano affatto ovvi, e che lotta per non ammutolire davanti a siffatta apparizione. Onde lo smarrimento della domanda di Bellocchio nel 1994: per chi si è opposto con tutte le forze all’ordine politico democristiano, cosa resta da dire sulla nuova egemonia berlusconiana? Cioè: cosa resta da dire che non sia nel registro della deplorazione estetica e morale o della nostalgia?
Mi pare si debba a Bellocchio riconoscenza per la lucidità implacabile con cui ha, da un lato, colto le linee fondamentali e le tendenze profonde della congiuntura italiana e, dall’altro, indicato una linea di condotta, forse impossibile da adottare aldilà della singolarità dell’individuo, ma nondimeno nettamente e irriducibilmente «altra» rispetto a cio’ che domina il presente: è il tema, ricordato da Luca Lenzini nella recensione al libro uscita sull’«Indice»,4 della «fedeltà al bene» e dell’essere al mondo «come se Dio ci fosse». Appunto, per Bellocchio, è il rifiuto attivo di questa fedeltà, e quindi del bene stesso, il nucleo morale, e quasi metafisico, della nuova situazione italiana (e mondiale). Si tratta di qualcosa che va ben oltre la destra berlusconiana, che riguarda anche e soprattutto i suoi (presunti) avversari, e che può essere definito come un processo gigantesco e molecolare di negazione del Bene, appunto. Un tale processo non può essere colto nella sua vera portata senza associare – tramite un montaggio, giustamente – dei fenomeni diffusi e appartenenti ad ambiti in apparenza disparati:
Ma vi è un’altra variazione su questo tema, il suo legame con il rifiuto del bene che costituisce la tentazione durevole degli italiani:
Il ritratto della madre dovrebbe essere letto in parallelo a quanto ne dice Marx può aspettare, il film di Marco Bellocchio sul suicidio del fratello Camillo: il cattolicesimo e la morale piccolo-borghese, per Piergiorgio, rinviano meno al dolorismo e all’ottusità provinciale che alla fedeltà ai «suoi valori morali, spirituali, culturali» e alla sua «condizione sociale», l’ambizione, il lusso e lo spreco sono considerati con ostilità e sospetto; vi è un ideale implicito di comunità cristiana («comunismo in una sola famiglia»), ma vi è anche il desiderio che i figli esprimano e mettano a frutto i loro «talenti»; infine, vi è la speranza che crescendo divengano «buoni e giusti» quanto alle opere, e Bellocchio ritiene che questa volontà di bene non è stata delusa da lui e dai fratelli. Quanto al padre, la sua ambizione borghese e la sua coscienza di proprietario ammiratore dell’efficacia e della forza hanno permesso ai figli di conoscere davvicino la gestione tecnica ed economica dei poderi, di comprendere donde venisse la loro agiatezza e di fare l’esperienza della ruralità, ancora dominante in Italia; la sua fiducia nelle capacità pratiche dei figli sembra aver conferito più sicurezza al giovane Piergiorgio (ma Marco suggerisce che il culto paterno del successo economico ha finito per spezzare Camillo); infine, il suo rapporto con i contadini suoi dipendenti è certo paternalista, ma mai autoritario. Due ritratti composti di frammenti di un mondo padronale e inegalitario, ma in cui coesistono, assieme ai privilegi e ai conformismi, alcuni elementi che, sottoposti dalla storia alla dissoluzione e alla ricostruzione dei composita, sono entrati a far parte di altra cosa, di altri equilibri morali e storici nei percorsi ulteriori dei figli Bellocchio.
Un’altra manifestazione del bene sono le persone e gli atti ordinari, la solidarietà e la generosità intessuti nel quotidiano, la chiarezza nel sentire e nell’agire. Così, l’8 settembre 1943, la «comune umanità» che emerge di fronte al dissolversi delle istituzioni è quella delle donne, meno assoggettate degli uomini agli schemi ideologici ufficiali, che incitano i soldati smarriti a resistere o almeno a disertare, a rifiutare il sacrificio inutile e falso della vita (appunto del 1994, contemporaneo del diffondersi del discorso sull’8 settembre come morte della Patria). Questa umanità è anche quella dei comunisti ordinari, i milioni di militanti e aderenti ordinari, ricordati nel 1990 come uomini «tra i migliori» che l’autore abbia mai incontrato, giustificazione ultima della fedeltà al comunismo (ma solo fino agli anni Settanta). Ma il bene di cui l’umanità comune è capace rinvia anche ad un’altra matrice, cioè al significato della vita e dei valori degli umili, di cui è nutrita la letteratura russa: «La narrativa russa è, sin dall’inizio, popolata di servi e cuori semplici, che si inseriscono nelle storie in modo organico, naturalissimo» (Diario, p. 103), mentre i servi e popolani dei romanzi francesi, inglesi e italiani non sono mai portatori di valori alternativi a quelli della borghesia emergente. Bellocchio accosta queste realtà a quelle conosciute nell’Emilia rurale e proprietaria dell’infanzia:
L’immediatezza apparente con cui Bellocchio ribadisce le linee di demarcazione potrebbe essere un equivalente, nell’ordine del lessico e della tematica, della paratassi dello stile tardivo fortiniano, uno «scrivere chiaro» che non va confuso con lo «scrivere bene» attribuito a Cesare Garboli e, con riserva, a Berardinelli. La chiarezza deve infatti esprimere l’irrevocabilità di persuasioni morali e intellettuali definitive e senza compromessi, e non l’attenuazione umanistica dei conflitti dietro le piacevolezze della conversazione o le consolazioni di un buon senso e di una decenza troppo difficili da separare dai privilegi della distinzione e della cultura. Bellocchio, infatti, non cede alle identificazioni, ancorché postume, con l’antico ceto pedagogico, e, con un gesto ancora una volta tipico dell’ultimo Fortini, ma in modo meno allusivo, non esita a testimoniare lo scandalo attraverso le parole del cristianesimo, visto però nella continuità delle rivoluzioni moderne. Un appunto segue immediatamente, e sottomette ad un montaggio fortemente straniante, le osservazioni polemiche sul giacobinismo:
Non si tratta qui di misurare la distanza implicita, e verosimilmente involontaria, tra i due sodali Bellocchio e Berardinelli, ma è difficile non vedere come le osservazioni di Bellocchio sul comunismo, benché prive del pathos della Storia e delle tonalità apocalittiche del saggio di Fortini, rinviino ad una «trasmutazione antropologica» analoga a quella che Berardinelli assegna ai fantasmi dell’estremismo (Diario, p. 196). Quest’idea è, in Bellocchio, ancora più sottratta alla verifica empirica del comunismo escatologico di Fortini. Ancora di più, perché Fortini trasforma le parole e le forme storiche del comunismo novecentesco in figure che rinviano ad un adempimento futuro e trascendente: è ciò di cui lo accusa Berardinelli, ma che viene in realtà dal procedimento figurale dantesco, il quale permette di totalizzare la Storia prefigurandone in qualche modo la fine nella prospettiva della resurrezione-restituzione di quanto gli uomini furono e fecero.6 Bellocchio scrive invece dalla prospettiva di una fine della storia ormai compiuta, ma inverata come rovesciamento perverso del comunismo fortiniano: non cioè come istante della leggibilità integrale del passato, ma come presente eterno e vuoto in cui l’intelligenza dell’esperienza umana è inghiottita dall’insignificanza e dall’incoerenza. In tali condizioni post-storiche non è più possibile parlare in nome di un processo storico orientato, nemmeno condizionando questo orientamento ad una prospettiva non (interamente) storica. Così, il comunismo, se esso continua, almeno per Bellocchio, a essere uno dei nomi del bene, non può più darsi che come ostinazione pura, come qualcosa su cui non cedere, contro ogni altra considerazione, pena la dissoluzione del soggetto scrivente:
Nel 1994, Bellocchio riprende un testo di «Diario» (la rivista) del 1990, in cui si parla di Chateaubriand come del vero modello dell’intellettuale di sinistra della fine secolo, fedele ai suoi martiri e profeti, ostile alla nuova società ultracapitalista e quindi espulso dalla storia effettiva. L’uomo messo ai margini del processo storico, ma non ancora privato del giudizio irriducibile su di esso, sembra essere la figura più adeguata anche per intendere Bellocchio e il suo lavoro di montaggio. Poiché la totalità della Storia non parla più, le forme e le figure non possono più concatenarsi in funzione di un compimento, ma solo di un’insistenza ripetitiva, di un’ostinazione appunto. In tedesco, «ostinazione» può tradursi Eigensinn, cioè letteralmente senso proprio. Secondo due importanti esponenti della sinistra francofortese, Alexander Kluge e Oskar Negt, l’Eigensinn è il carattere proprio di ciò che resiste all’assorbimento da parte delle relazioni capitalistiche di produzione, e in generale di ciò che resiste alle leggi del mondo, fino a pagare il prezzo della morte. Ma si potrebbe dire che, chi fa propria tale Eigensinn, si esclude già in vita dal mondo dei viventi, si mette dalla parte dei morti.
Di questa ostinazione, il paradigma è Antigone.7 L’intrattabilità di Antigone, la sua irriducibilità alla legge della polis, dipendono dalla sua obbedienza a leggi non scritte, ma ferree e irrinunciabili: un mandato in certo senso senza parole, che potrebbe rappresentare la condizione attuale di tutti quanti cercano, oggi, di orientarsi nel presente senza cedergli né abbellirlo. La conclusione del Diario del Novecento evoca appunto un’irriducibile istanza di ripetizione, attraverso la quale un’opposizione e una fedeltà sono reinscritte ancora e ancora nelle materie del passato, senza poter essere dispiegate in piena luce nell’ordine delle ragioni e nella totalità di una storia comune, ma anche senza venir meno ad una chiamata oggi divenuta inesprimibile:
1 P. Bellocchio, Diario del Novecento, a cura di G. D’Amo, Milano, il Saggiatore, 2022, p. 106; d’ora in avanti Diario.
2 A. Berardinelli, Stili dell’estremismo, in «Diario», 10, 1993.
3 A. Saibene, Piergiorgio Bellocchio: Diario di un italiano, in «Doppiozero», 14 agosto 2022.
4 L. Lenzini, Il raffinato collage di agende di uno scrittore mascherato, in «L’Indice», 31 agosto 2022.
5 A. Berardinelli, Stili dell’estremismo [1993], in Id., Casi critici, Macerata, Quodlibet, 2007, p. 188-200.
6 Non si dovrebbe comunque dimenticare che, nell’ultimo Fortini, questa prospettiva è esplicitamente dichiarata impossibile da formulare e affermare fino in fondo, e senza farne intervenire la contestazione immanente, cosicché essa si fonda ormai su di un pari: così, nel saggio sul comunismo, la terra non conserverà alcuna traccia del nostro passaggio, e in Composita solvantur, le ossa non risusciteranno. L’apocalittica finale di Fortini è una strategia per salvare una storia divenuta totalità del falso, ma proprio per questo essa si presenta come a malapena articolabile nella lingua e nel pensiero, se non come scandalo e paradosso.
7 A. Kluge, O. Negt, History and Obstinacy, New York, Zone Books, 2014, p. 293-294.