Piergiorgio Bellocchio
Diario del Novecento
Andrea Cavazzini

Piergiorgio Bellocchio, Diario del Novecento, a cura diG. D’Amo, Milano, il Saggiatore, 2022.

Negli interventi autobiografici seguiti alle Histoire(s) du cinéma, Jean-Luc Godard ha spesso evocato l’esistenza di due tipi di storia: una storia dal ritmo vorticoso e una storia «a passi lenti». La seconda storia è quella che costituisce ciascuno di noi, ma che ciascuno al tempo stesso seppellisce sotto le evidenze immediate (cioè il patrimonio ideologico) del mondo sociale in cui è vissuto e cresciuto. Il cinema, secondo Godard, ha il potere di far riemergere questa storia sepolta, che le nostre categorie mentali individuali e collettive non riescono a cogliere sul vivo, e questo potere dipende dal montaggio, cioè dal trattamento di materiali da cui solo un’operazione metodica e riflessa di assemblaggio e di riarticolazione può far scaturire degli strati storici latenti, invisibili sulla superficie immediata. Piergiorgio Bellocchio non è, come il fratello Marco, cineasta. Ma il Diario cui ha lavorato per una quarantina d’anni, e di cui il volume del Saggiatore curato da Gianni D’Amo rende pubblica una (meritoria) selezione, datata dal 1980 al 2000, può essere avvicinato al compito che Godard assegnava al cinema: far riemergere la storia di cui ognuno è fatto lavorando a far vedere per la prima volta ciò che, nel visibile stesso, è rimasto non visto.

Qual è allora la storia «lenta» di cui Bellocchio ci restituirebbe l’intelligenza? Il titolo del volume sembra rispondere a questa domanda, ma si tratta di un titolo ambiguo, che merita qualche attenzione. Perché, infatti, intitolare «Diario del Novecento» un raccolta di osservazioni, citazioni, ritagli, immagini, ricordi, aneddoti e meditazioni costruita dall’autore tra gli anni 1980 e gli anni 2000? Se al genere del diario associamo la pratica della scrittura giorno per giorno, condotta sul filo dell’osservazione (esterna o intima) diretta, allora il Diario di Bellocchio riguarda solo gli ultimi vent’anni del ventesimo secolo. Stranezza apparente che rischierebbe, forse, di suggerire che il ventesimo secolo si riduce agli anni Ottanta e Novanta, cioè alle premesse dei tempi in cui viviamo attualmente. Ma, a ben vedere, le ragioni profonde della pertinenza di questo titolo rinviano precisamente a quanto, nel lavoro di Bellocchio, si oppone ad una siffatta cancellazione.

Il nostro presente, infatti, appare costituito interamente da una storia sepolta e rimossa, che contiene le radici delle contraddizioni e delle crisi attuali, ma che è raramente tematizzata come tale. Questa storia è la storia degli anni Ottanta e Novanta in Italia e nel mondo, dei decenni del riflusso e del crollo della prospettiva della Rivoluzione, e della distruzione di ogni memoria razionale, non solo dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, ma di larga parte del Novecento. In questa frattura, si pongono le basi per la crisi interminabile che sembra costituire il solo profilo riconoscibile del ventunesimo secolo, ed è quindi di questa frattura che noi tutti, lettori del Diario di Bellocchio, siamo figli più o meno inconsapevoli. Questi «montaggi» testuali e figurativi ci mostrano la storia da cui proveniamo, che non è quella del Novecento, ma quella della sua liquidazione. In questo senso, i materiali di Bellocchio, composti e articolati nell’ultimo ventennio del secolo scorso, costituiscono un «diario del Novecento» in un senso altamente idiosincratico: essi registrano infatti le mutazioni che hanno reso oggi illeggibile larga parte di quel secolo, ma mostrano anche le permanenze e le insistenze di quel tempo sepolto attraverso lo sguardo di chi è rimasto un «uomo del Novecento», non solo e non tanto per circostanze generazionali, ma per scelta deliberata. «Diario del Novecento» allora nel senso di un tentativo di recuperare un rapporto intellettuale, morale e affettivo con un’epoca i cui quadri fondamentali sono in via di sparizione.

Che vi sia una volontà ostinata di programmatica inattualità nelle pagine di Bellocchio mi pare risultare con chiarezza da un’osservazione su Fortini, inserita nel racconto dell’ultimo incontro con lui, nel 1994. Pur nel contesto generale di una (difficile) riconciliazione con l’autore di Verifica dei poteri, Bellocchio resta scettico davanti alla tendenza fortiniana ad indicare le coordinate della «nuova fase» storica in cui il mondo entra dopo la prima guerra del Golfo, e soprattutto davanti all’imperativo di essere all’altezza di tale novità. Questo avanguardismo latente di Fortini resta estraneo a Bellocchio, per ragioni forse più complesse di quanto non appaia. Vi è certo la decisione di restare fedele a qualcosa che non può essere smentito né verificato dal corso del tempo (è il senso di ciò che Bellocchio chiama «comunismo» ), e la scelta di non aderire all’attualità né di esser vincitore secondo i criteri di questa. Ma l’avanguardismo di Fortini non è ovviamente opportunista né storicista, è piuttosto l’esigenza di essere contemporaneo della storia nel suo stesso farsi, il sentimento di essere interpellato e coinvolto dagli e negli eventi collettivi: di essere embarqué come direbbe Pascal o engagé come direbbe Sartre, e di dover rispondere in modo adeguato alla chiamata (concetto centrale nel protestantesimo, com’è noto) che ciascuno riceve dalla storia, sebbene questa risposta non possa non prendere forme opache, imprudenti e incomplete. Mi pare che, di questa posizione, quanto susciti la presa di distanza di Bellocchio sia appunto la possibilità di una co-presenza effettiva tra l’individuo e la storia. L’apparizione nel tempo di ciò che vale ha avuto luogo, ma è stata in seguito occultata e rimossa, e non è più possibile oramai esserle contemporanei nell’assolutezza dell’istante:

C’è un’età, un momento nella vita di ogni uomo in cui egli conosce chiaramente la verità e il bene e sa come si deve vivere per essere nella verità e nel bene. Questa rivelazione può essere quasi il frutto spontaneo di uno stato di grazia, di purezza, di innocenza.1

È un appunto del 1988, in cui risuonano passi di Kierkegaard e Simone Weil. Ma, nel 1990:

Oggi tutti, anche i migliori, anche i più seri, non possono sottrarsi più di tanto a una quotidianità che è fatta, intessuta di meschine vanità: la scuola dei figli, la casa, i vestiti, l’auto, la tv, i giornali, le vacanze […]. I puri di cuore non possono più esserci, ci sono soltanto persone che sono un po’ meno impure. (Diario, p. 171)

Nel presente «non vero», non resta che recuperare quanto è rimasto depositato in tracce disponibili a chiunque ma generalmente neglette. In questo senso va intesa la prossimità di Bellocchio con l’ultimo Fortini, e con Composita solvantur, evocata in occasione della morte del poeta: «di bene un attimo ci fu», un attimo ormai passato, che non possiamo più afferrare per deciderne gli sviluppi, ma solo proteggere, come le «nostre verità» ricoperte dall’«urlo solo» in cui naufraga la fine del secolo.

Questa riconciliazione con Fortini, successiva all’attacco di Alfonso Berardinelli nell’ultimo numero di «Diario»,2 non avviene per caso sotto il segno dell’ultima raccolta poetica. Composita solvantur e Diario del Novecento sono entrambi profondamente attraversati dalla Guerra del Golfo, annuncio del nuovo secolo in cui la leggerezza e l’opulenza del mondo tardo-capitalista si trasformano, e fino ad oggi, in catena infinita di distruzioni di massa. Ma appunto, questo risultato fa parte di una storia ricoperta dai simulacri della cultura spettacolare post-moderna: tra le immagini raccolte da Bellocchio, ve n’è una di Giovanni Paolo II al fianco di Pinochet, ricordata da Alberto Saibene.3 Sarebbe un errore il non vedervi che la demistificazione dell’immagine del Papa post-moderno per eccellenza, divenuto in seguito un’icona consensuale e benpensante. L’immagine mostra anche la benedizione data al boia, l’unione della sciabola e dell’aspersorio a difesa dell’ordine sociale, e annuncia, aldilà di queste già antiche realtà, la posteriore proliferazione di discorsi «sacri» a sostegno delle forme più contemporanee dell’oppressione, dagli Stati Uniti al Brasile all’Est post-sovietico. Assistiamo quindi all’operazione alchemica (ancora una volta coerente con l’ultima poesia fortiniana) che trasforma dapprima un papa reazionario e arcaico in una vedette modernissima dello spettacolo e poi una religiosità spettacolarizzata, largamente fomentata dal suddetto papa e dalla sua crociata anticomunista, in arma da guerra mondiale. Un altro esempio di alchimia storica è l’evocazione di Furio Colombo tra i più feroci corifei della guerra e degli interessi strategici israeliani, che ricorda analoghe descrizioni di giornalisti civilissimi trasformati in fanatici guerrafondai nei Cani del Sinai: più brutale di Fortini, Bellocchio insiste sulla trasformazione fisica del fine e colto scrittore, ex-chairman Fiat, di casa a New York e a Berkeley, alla Olivetti e in Rai, in animale ringhiante, letterale «cane da guardia» secondo l’espressione rivolta agli intellettuali ufficiali della Terza Repubblica da Paul Nizan. Senonché, il lettore di Bellocchio nel 2022 non può non avere in mente altre metamorfosi di Colombo, tra cui quella, dal 2001 al 2008, in pugnace antiberlusconiano – e a questo titolo punto di riferimento del popolo di sinistra – direttore nientemeno che del giornale fondato da Antonio Gramsci, «l’Unità», già organo del Partito comunista italiano, di cui Bellocchio registra la chiusura nel 2000, giudicandola preferibile alla trasformazione della gloriosa testata in qualcosa di irriconoscibile (e tale sarà appunto «l’Unità» di Furio Colombo). Il punto centrale non è il trasformismo del ceto giornalistico italiano, ma qualcosa di ben più difficile da focalizzare: cioè la procurata illeggibilità di vasti strati della storia contemporanea per quanti dovessero trarre le coordinate della comprensione del mondo dai soli ultimi vent’anni. Cosa rende possibile, infatti, che l’uomo della Nato (e della Fiat) divenga il successore del teorico dei Soviet a Torino se non una mostruosa cancellazione della sostanza di tutto un secolo? Una parte di questa sostanza, il fondo oscuro della violenza estrema dello scontro che ha attraversato il Novecento – Fortini lo chiamava la «guerra civile mondiale intorno al comunismo» – ridiventa per un istante visibile nell’accostamento del pontefice al macellaio e nell’imbestialire incontrollato del liberale colto.

Questa cancellazione della storia collega, nella scrittura di Bellocchio, le vicende internazionali alla situazione italiana (ma l’Italia è sempre stata un laboratorio le cui dinamiche locali hanno costantemente anticipato gli scenari globali). E il nucleo di tale situazione è, all’inizio degli anni Novanta, la distruzione deliberata e sistematica delle culture politiche diffuse molecolarmente nel quotidiano e delle memorie collettive legate al movimento comunista, alle lotte sociali e alla stessa Resistenza. La registrazione puntuale, a partire dal 1994, degli enunciati in cui si esprime questa distruzione compone un quadro impressionante, e tanto più per un lettore che, uscito in quegli anni dall’adolescenza, dovesse rendersi conto contemplandolo da quali processi storici, di qual natura e magnitudine, è stata agita la sua giovinezza. Nella genealogia di quanti hanno oggi più di quarant’anni vi sono la televisione secondo Funari, Santoro e Ferrara e il cinema secondo Veltroni, le cravatte e le camicie osceno-virili dei leghisti e i completi grigio-blu, tra l’impiegatizio e il mafioso, dei notabili di Forza Italia, i ditirambi a Franco e a Mussolini di Sergio Romano, e poi il liberalismo postumo di Colletti, Vertone, Melograni… Elementi aneddotici, forse, ma che, debitamente riuniti e assemblati, si rivelano soprattutto sintomi di movimenti profondi nelle maniere di agire, di parlare e di pensare, nei paradigmi affettivi, intellettuali, estetici e morali: movimenti cioè ormai dileguatisi nei loro risultati, nelle nuove evidenze successive alla mutazione da essi prodotta. Il lavoro di Bellocchio ci permette di cogliere l’apparire di quei fenomeni ad uno sguardo per cui essi non erano affatto ovvi, e che lotta per non ammutolire davanti a siffatta apparizione. Onde lo smarrimento della domanda di Bellocchio nel 1994: per chi si è opposto con tutte le forze all’ordine politico democristiano, cosa resta da dire sulla nuova egemonia berlusconiana? Cioè: cosa resta da dire che non sia nel registro della deplorazione estetica e morale o della nostalgia?

Mi pare si debba a Bellocchio riconoscenza per la lucidità implacabile con cui ha, da un lato, colto le linee fondamentali e le tendenze profonde della congiuntura italiana e, dall’altro, indicato una linea di condotta, forse impossibile da adottare aldilà della singolarità dell’individuo, ma nondimeno nettamente e irriducibilmente «altra» rispetto a cio’ che domina il presente: è il tema, ricordato da Luca Lenzini nella recensione al libro uscita sull’«Indice»,4 della «fedeltà al bene» e dell’essere al mondo «come se Dio ci fosse». Appunto, per Bellocchio, è il rifiuto attivo di questa fedeltà, e quindi del bene stesso, il nucleo morale, e quasi metafisico, della nuova situazione italiana (e mondiale). Si tratta di qualcosa che va ben oltre la destra berlusconiana, che riguarda anche e soprattutto i suoi (presunti) avversari, e che può essere definito come un processo gigantesco e molecolare di negazione del Bene, appunto. Un tale processo non può essere colto nella sua vera portata senza associare – tramite un montaggio, giustamente – dei fenomeni diffusi e appartenenti ad ambiti in apparenza disparati:

La sciatteria, la casualità, l’analfabetismo che si esprimono nella produzione culturale (libri, giornali, riviste, televisione, cinema…) sono equivalenti-omologhi dell’analfabetismo giuridico che presiede all’elaborazione e formulazione di leggi e decreti, equivalenti-omologhi dell’irresponsabilità che caratterizzano la pubblica amminstrazione, la direzione politica, il governo. (Diario, p. 168)

La riproduzione del potere attraverso il disfunzionamento sistematico delle istituzioni e il declino qualitativo delle attività umane è cronaca dei nostri giorni, non solo in Italia. Ma questo è un appunto del 1990, Berlusconi era ancora solo un tycoon dei media. E si confronti con quest’altro appunto del 1991, che riguarda davvicino alcuni futuri protagonisti del carnevale berlusconiano, qui accostati fulmineamente all’atmosfera mentale creata dalla guerra del Golfo:

Siamo da tempo entrati in una fase contrassegnata da un grado estremo di maleducazione, dove la scorrettezza, la prepotenza, la violenza sono la regola. Tutto era cominciato molto prima della Guerra del Golfo. E però ci ha a che fare. La guerra è stato ciò di cui i De Michelis e i Craxi, i Ferrara e gli Sgarbi ma anche i Colletti – e infine i Cossiga – avevano estremo bisogno per rompere gli argini, per rivelarsi e realizzarsi pienamente. (Diario, p. 258)

Di nuovo, non si può non pensare all’esplosione della retorica guerresca in cui sprofondano regolarmente i paesi e i media democratici, contemporaneamente ai trionfi della reazione aperta e dichiarata, senza che i difensori della civiltà e del mondo libero si chiedano se tra le due cose non vi sia un legame, né quali orientamenti ideologici e quali forze politiche si siano radicati e diffusi dopo le guerre in Irak, in Kosovo, in Afghanistan, in Siria o in Ucraina. Infine, nel 1994:

Il pluralismo di Berlusconi è quello naturale, fisiologico, di chi non ha nessuna cultura, nessuna tradizione, nessun valore, nessuna convinzione… salvo la difesa dei propri interessi […]. È il pluralismo «innocente» di chi poco sa e poco capisce, e se ne frega di tutto, salvo il potere. Si ripete la Grande DC, ma molto più squallida […]; si ripete con stili e – si spera – con esiti diversi, il modello Mussolini, tattico a 360 gradi, disposto a tutto e al contrario di tutto, secondo convenienze […]. Anche a parole, ma soprattutto nei fatti, e già nelle persone fisiche, nello stile, si proclama il diritto a fare i propri comodi, il diritto alla maleducazione e all’ignoranza. Non conoscono più la lingua italiana, né le regole grammaticali né l’analisi logica. (Diario, pp. 348-349)

Tre note, che congiungono diversi momenti cronologici e che aprono il Diario sull’anticipazione dello stato attuale del mondo, uniti da un filo conduttore: la perdita della «tenuta» nel comportamento, nel linguaggio e nel pensiero. Questo filo tematico è declinato ogni volta in un modo che finisce per esprimere una delle intuizioni decisive del Diario, cioè la solidarietà tra l’involgarimento quotidiano, l’affermazione senza scrupoli del particulare, il gangsterismo politico e le strategie mondiali degli Imperi.

Ma vi è un’altra variazione su questo tema, il suo legame con il rifiuto del bene che costituisce la tentazione durevole degli italiani:

Per continuare a sentirsi superiore, l’italiano svilupperà autodenigrazione e cinismo, come forme di superiore lucidità […]. e, per fare due esempi, esagererà e esaspererà le angustie, le miserie, i limiti del nostro Risorgimento… per non parlare poi della Resistenza. Negherà, per principio, l’esistenza non solo di eroi, ma anche più semplicemente di persone disposte a fare il proprio dovere, a comportarsi coerentemente con la propria fede e le proprie idee […]. Non si ammettono, insomma, virtù, onestà, eroismo. Perché, se si ammettessero, verrebbe meno tutta la filosofia della vigliaccheria […]. In questo sta la superiorità del nostro àpota: egli è intelligente, lucido, conosce il mondo, non si fa illusioni (sii pessimista, scettico, cinico: non sbaglierai […]). Egli sa cos’è la vita… E invece non lo sa, e – negando a priori e per principio il bene – perde proprio il bene che esiste, anche in lui stesso, e soprattutto il bene possibile… (Diario, p. 468)

Il Diario di Bellocchio non è solo lucidità riguardo al fastidio o all’odio di cui gli uomini sono capaci di fronte al bene: la distanza che separa queste scritture dall’amarezza e dall’imprecazione è la forza dell’affermazione del bene – che, pure per un solo attimo, vi è stato, ed ha saputo muoverci «una volta per sempre». Di questo bene, le tracce incastonate nei materiali del passato sono molteplici, e appaiono in diversi montaggi, rivelandosi non meno plastiche e multiformi delle forme di abiezione che le ricoprono. Innanzitutto, la storia famigliare di Bellocchio, che non nega, ma neppure coincide con il quadro cupo e traumatico restituito dall’opera cinematografica del fratello. Piergiorgio, in un lungo testo del 1988, fa dei genitori dei testimoni archeologici del «lungo Novecento», delle vestigia del sedimento di mentalità, sentimenti e principi che compongono la storia lenta di cui parla Godard, e che racchiudono un bene non interamente traducibile nelle grammatiche posteriori della politica e dell’ideologia. La borghesia emiliana, agraria e notabilare, cattolica e patriottica (e quindi ad un certo punto fascista), conserva un’alterità rispetto ai clamori e ai conformismi di massa forieri di catastrofi. Al nucleo famigliare, Bellocchio riconosce di avergli impartito quasi un’educazione antifascista subliminale, attraverso le «riserve» silenziose e reticenti su Mussolini:

Appartenevo a una famiglia i cui valori e il cui stile erano lontanissimi dai modelli fascisti […]. La moderazione, la prudenza, la paura borghesi acquistavano nello sdegno dei miei genitori una vibrazione etica: l’entrata in guerra era una bravata che avremmo pagata cara, una leggerezza criminale e suicida. (Diario, p. 101)

Già (o ancora) la guerra, non diversamente che nel 1991, come momento di verità dei regimi politici e della tenuta morale.

Il ritratto della madre dovrebbe essere letto in parallelo a quanto ne dice Marx può aspettare, il film di Marco Bellocchio sul suicidio del fratello Camillo: il cattolicesimo e la morale piccolo-borghese, per Piergiorgio, rinviano meno al dolorismo e all’ottusità provinciale che alla fedeltà ai «suoi valori morali, spirituali, culturali» e alla sua «condizione sociale», l’ambizione, il lusso e lo spreco sono considerati con ostilità e sospetto; vi è un ideale implicito di comunità cristiana («comunismo in una sola famiglia»), ma vi è anche il desiderio che i figli esprimano e mettano a frutto i loro «talenti»; infine, vi è la speranza che crescendo divengano «buoni e giusti» quanto alle opere, e Bellocchio ritiene che questa volontà di bene non è stata delusa da lui e dai fratelli. Quanto al padre, la sua ambizione borghese e la sua coscienza di proprietario ammiratore dell’efficacia e della forza hanno permesso ai figli di conoscere davvicino la gestione tecnica ed economica dei poderi, di comprendere donde venisse la loro agiatezza e di fare l’esperienza della ruralità, ancora dominante in Italia; la sua fiducia nelle capacità pratiche dei figli sembra aver conferito più sicurezza al giovane Piergiorgio (ma Marco suggerisce che il culto paterno del successo economico ha finito per spezzare Camillo); infine, il suo rapporto con i contadini suoi dipendenti è certo paternalista, ma mai autoritario. Due ritratti composti di frammenti di un mondo padronale e inegalitario, ma in cui coesistono, assieme ai privilegi e ai conformismi, alcuni elementi che, sottoposti dalla storia alla dissoluzione e alla ricostruzione dei composita, sono entrati a far parte di altra cosa, di altri equilibri morali e storici nei percorsi ulteriori dei figli Bellocchio.

Un’altra manifestazione del bene sono le persone e gli atti ordinari, la solidarietà e la generosità intessuti nel quotidiano, la chiarezza nel sentire e nell’agire. Così, l’8 settembre 1943, la «comune umanità» che emerge di fronte al dissolversi delle istituzioni è quella delle donne, meno assoggettate degli uomini agli schemi ideologici ufficiali, che incitano i soldati smarriti a resistere o almeno a disertare, a rifiutare il sacrificio inutile e falso della vita (appunto del 1994, contemporaneo del diffondersi del discorso sull’8 settembre come morte della Patria). Questa umanità è anche quella dei comunisti ordinari, i milioni di militanti e aderenti ordinari, ricordati nel 1990 come uomini «tra i migliori» che l’autore abbia mai incontrato, giustificazione ultima della fedeltà al comunismo (ma solo fino agli anni Settanta). Ma il bene di cui l’umanità comune è capace rinvia anche ad un’altra matrice, cioè al significato della vita e dei valori degli umili, di cui è nutrita la letteratura russa: «La narrativa russa è, sin dall’inizio, popolata di servi e cuori semplici, che si inseriscono nelle storie in modo organico, naturalissimo» (Diario, p. 103), mentre i servi e popolani dei romanzi francesi, inglesi e italiani non sono mai portatori di valori alternativi a quelli della borghesia emergente. Bellocchio accosta queste realtà a quelle conosciute nell’Emilia rurale e proprietaria dell’infanzia:

Mi viene in mente la nianja di Tatiana in Puškin. Anche nelle nostre società ci sono state le nianje, le balie, servi e serve che facevano parte della famiglia. E contadini che erano prossimi ai padroni, non meno che nella società russa […]. Epperò la nostra letteratura li ha rimossi, scartati a priori, come modelli di una cultura arretrata […]. Per quanto mi riguarda, non posso dimenticare, per esempio, la serva Annetta o il boscaiolo Poggioli. Persone misere e ignoranti, ma con una loro personalità e dignità [che] si esprimeva in slanci di generosità, di amore, di tenerezza. (Diario, pp. 303-304)

Le analogie della tematica e del lessico associano le donne dell’8 settembre alle balie di Puškin, e poi le balie e i servi ai personaggi conosciuti nell’infanzia e nell’adolescenza: la storia contemporanea, la letteratura e la memoria famigliare si articolano e si commentano le une con le altre. Ma un altro anello di questa articolazione sono i militanti comunisti ordinari, appunto, e tramite loro quest’altro modo del bene che è l’esperienza delle lotte sociali, evocata nel 1990 attraverso episodi trasmessi nel tesoro della storia famigliare:

Me lo raccontava mio fratello Tonino, magistrato, a proposito delle vertenze di lavoro davanti ai giudici di Milano nel biennio ’69-’71. Alle udienze partecipavano tutti o quasi i colleghi di lavoro dell’operaio licenziato (e magari anche operai di altre fabbriche, delegati, sindacalisti). Il ’68-’70 è stato per gli operai un’esperienza reale di potere, un esercizio di contropotere, la viva esperienza della propria forza, della vulnerabilità del padronato, e anche la viva esperienza della fraternità… Nella fabbrica (la loro fabbrica), sospendendo il lavoro, facendo assemblee, mettendo sotto i capi e le guardie… Nelle università – tempio del sapere, della scienza – dove mettevano piede per la prima volta, sedevano nei banchi o addirittura dietro la cattedra… Nei tribunali, influenzando, con la sola forza della presenza, cultura, sensibilità e sentenze dei giudici… (Diario, p. 230)

L’apologia del contropotere operaio può essere vista come difficile da conciliare con i valori dell’umiltà e della semplicità dei servi e dei contadini. Ma non vi è contraddizione se non dal punto di vista di categorie storiche e ideologiche inadeguate. Poiché anche gli operai in lotta incarnano un principio di fraternità, una forma di esistenza radicalmente altra rispetto al modo di funzionare del mondo capitalistico e neoborghese. Ancora una volta, i rinvii interni degli appunti rivelano qualcosa che avremmo dovuto sapere: cioè che la distanza è breve da Tolstoj a Lenin, dagli umiliati e offesi ai Soviet. Articolandosi nella scrittura di Bellocchio, questi elementi rivelano di appartenere ad una struttura unitaria e coerente, ma impercettibile secondo le maniere dominanti di percepire la politica e la storia. Se ne trae che la rivoluzione, e la violenza che essa può implicare, non sono contraddittori con la tenerezza e la generosità, ma lo sono con la violenza volta a conservare il privilegio e l’oppressione. Dunque, contro l’amalgama tra comunismo e fascismo:

Il marxismo non è in origine una filosofia della consolazione, non è un’ideologia che nasce a difesa di privilegi e ingiustizie esistenti. Non li giustifica. Diversamente dal fascismo, creato e foraggiato dalle classi dirigenti a proprio vantaggio […]. in questo senso il marxismo è l’unica ideologia che ha diritto alla qualifica di rivoluzionaria […]. Ma non ci si venga a parlare di «rivoluzione fascista»! È un’usurpazione, una bassa usurpazione. (Diario, p. 218)

Siamo nel 1990, fascismo e comunismo sono accomunati nella condanna dal discorso antitotalitario, cui le sinistre tutte aderiscono con lo zelo dei neofiti, mentre la rivalutazione del fascismo tende a presentarlo come un episodio rivoluzionario perché arditamente modernizzatore dell’Italia arretrata. Nel 1994, commentando l’accostamento apologetico tra giacobinismo e fascismo da parte di Gianfranco Fini, e il rifiuto virtuistico di ogni decisionismo giacobino da parte della sinistra neodemocratica (fino, qualche anno dopo, alla tragicomica svolta «non-violenta» di Fausto Bertinotti), Bellocchio distingue:

Il giacobinismo sorge storicamente contro l’ingiustizia, per togliere ai ricchi e dare ai poveri; il fascismo per riaffermarla, quell’ingiustizia storica, per restituire ai ricchi ciò che il Biennio rosso gli aveva tolto (o almeno minacciato di togliere). Quella fascista è una violenza per restaurare l’autorità dello Stato a tutela delle classi dirigenti agrarie e industriali, per confermare l’ordine sociale precedente, insomma per l’ingiustizia! Questo è il punto […]. La nostra sinistra non è mai stata «giacobina» – se non forse nel momento della battaglia ideale e pratica contro l’attendismo, in quell’autunno del ’43 che vide nascere e prendere forma la Resistenza – innanzitutto per mancanza di grandi scopi, di forti e decisi programmi, della necessaria determinazione nel perseguirli. (Diario, p. 357)

Non credo si possa restare indifferenti alla forza e alla chiarezza con cui Bellocchio riafferma alcune distinzioni e alcuni principi che avrebbero dovuto essere evidenti e imprescrittibili negli anni in cui la confusione dei linguaggi e l’incertezza delle condotte preparavano il peggio in Italia e nel mondo. La differenza tra il bene e il male, il rifiuto di confonderli, l’ostinazione a chiamare le canaglie canaglie e la virtù virtù, tutto ciò affermato nel modo più diretto e lineare possibile vale numerosi scaffali riempiti di nuovi mirabolanti paradigmi della politica e della critica sociale. In questo senso, credo che tutti quanti abbiano passato qualche anno o decennio a scrivere e a leggere degli eventi presenti e passati, del comunismo e del capitale, dello Stato e della Rivoluzione, dovrebbero chiedersi se sia loro riuscito di dire cose altrettanti essenziali di quelle che ricorda Bellocchio, e con altrettanta chiarezza, con un tale rifiuto dei falsi problematicismi e dell’ambiguità compiaciuta; o se invece, nella selva abbagliante delle nozioni e delle parole d’ordine, non si sia perduto qualcosa di fondamentale che può essere formulato solo al di fuori o al di sotto della mischia ideologico-intellettuale contemporanea.

L’immediatezza apparente con cui Bellocchio ribadisce le linee di demarcazione potrebbe essere un equivalente, nell’ordine del lessico e della tematica, della paratassi dello stile tardivo fortiniano, uno «scrivere chiaro» che non va confuso con lo «scrivere bene» attribuito a Cesare Garboli e, con riserva, a Berardinelli. La chiarezza deve infatti esprimere l’irrevocabilità di persuasioni morali e intellettuali definitive e senza compromessi, e non l’attenuazione umanistica dei conflitti dietro le piacevolezze della conversazione o le consolazioni di un buon senso e di una decenza troppo difficili da separare dai privilegi della distinzione e della cultura. Bellocchio, infatti, non cede alle identificazioni, ancorché postume, con l’antico ceto pedagogico, e, con un gesto ancora una volta tipico dell’ultimo Fortini, ma in modo meno allusivo, non esita a testimoniare lo scandalo attraverso le parole del cristianesimo, visto però nella continuità delle rivoluzioni moderne. Un appunto segue immediatamente, e sottomette ad un montaggio fortemente straniante, le osservazioni polemiche sul giacobinismo:

Egalité e fraternité sono prima cristiane che democratico-repubblicane, e vivono, oltreché nei Vangeli, nella grande poesia di Villon, e di Baudelaire poi (nei suoi ubriachi, dementi, accattoni, negli Scheletri e Scorticati dannati per l’eternità al lavoro della vanga, nella Servante au grand cœur…), e non discendono dalla liberté, ma la fondano. (Diario, p. 357)

Le grammatiche cristiane del rapporto col mondo e la vita sono un altro veicolo del bene, la cui presenza è frequente e intensa nel Diario:

Il mio rapporto con la religione era e resta forte, per la bellezza della sua tradizione, per la reale «santità» di alcuni suoi membri, per la sua sapienza […]. La forza reale e sostanziale del cristianesimo sta in ben altri «misteri» che la Trinità et similia […]. Si pensi solo al «mistero», questo sì sublime, del Salvatore che nasce nella miseria di una stalla, tra un asino e un bue, e muore crocifisso come un criminale tra due banditi. (Diario, p. 377)

Un cristianesimo senza teologia speculativa, quindi senza Dottori della Chiesa, ma che non si riduce a semplice morale umanitaria o ad impegno sociale, perché conserva come suo nucleo imprescindibile lo scandalo della Croce, la vertigine del rovesciamento di tutti i valori giudaici e pagani, di cui ancora vive il nostro mondo, tuttora pieno di nazioni e di templi, di eserciti e di sacrifici, di schiavi e di padroni. È in ogni caso significativo che i riferimenti cristiani – il cattolicesimo materno, gli umili della cultura russa, il rapporto con la religione – si concatenino in modo da comporre una contestazione, o una correzione, dell’ideologia esplicita di Bellocchio, che si dichiara a più riprese ateo, libertario e radical-socialista: i rimandi tra queste diverse riflessioni disegnano il profilo di idee e valori che le formule politiche e ideologiche disponibili non sono più in grado di esprimere in modo adeguato. È come se Bellocchio non potesse impedirsi di vedere il bene nei punti ciechi della sua coscienza esplicita di ideologo e intellettuale. Così, pur affermando la sua conversione al riformismo, non smette di meditare gli episodi e le figure della tradizione comunista, e di ribadirne il valore:

Il comunismo resta l’obiettivo per cui valga la pena di battersi. La giustizia sociale si chiama ancora comunismo. Il comunismo va però separato dal marxismo-leninismo, e forse anche dal marxismo. Anche rivoluzione è un concetto, un mito, da riconsiderare criticamente. Il comunismo, per quanto così difficile da inverare, non va considerato come un fine in sé. È più il presupposto, la precondizione perché avvenga un reale rivoluzionamento dell’uomo, nei rapporti tra gli uomini. È un mezzo, il mezzo per rompere tutti i condizionamenti che finora hanno impedito l’emancipazione, la liberazione di energie sconosciute, la libera espressione… (Diario, p. 223)

Un «reale rivoluzionamento» dell’uomo è quanto è stato formulato e sfiorato nei momenti più alti del Novecento, nel cuore stesso delle rivoluzioni in Russia e in Cina, quando cioè il «comunismo» stesso è apparso chiaramente come il nome di qualcosa che le sue stesse elaborazioni discorsive e concettuali non bastavano ad esaurire. È una pagina del 1990. Nel 1989, Fortini aveva scritto il testo su Che cos’è il comunismo?, che Berardinelli ha eretto a paradigma, qualche anno dopo, dell’estremismo del poeta e saggista. Per Fortini, dice il co-autore della rivista «Diario», il comunismo si dà nell’ordine dell’inverificabile, dell’invisibile, quindi della storia sacra, ove verifiche e prove empiriche sono programmaticamente escluse.5 Donde il rimprovero di occultare ciò di cui si sta parlando dietro una gigantomachia di «lividi fantasmi» privi di corrispondenza con l’esperienza umana ordinaria.

Non si tratta qui di misurare la distanza implicita, e verosimilmente involontaria, tra i due sodali Bellocchio e Berardinelli, ma è difficile non vedere come le osservazioni di Bellocchio sul comunismo, benché prive del pathos della Storia e delle tonalità apocalittiche del saggio di Fortini, rinviino ad una «trasmutazione antropologica» analoga a quella che Berardinelli assegna ai fantasmi dell’estremismo (Diario, p. 196). Quest’idea è, in Bellocchio, ancora più sottratta alla verifica empirica del comunismo escatologico di Fortini. Ancora di più, perché Fortini trasforma le parole e le forme storiche del comunismo novecentesco in figure che rinviano ad un adempimento futuro e trascendente: è ciò di cui lo accusa Berardinelli, ma che viene in realtà dal procedimento figurale dantesco, il quale permette di totalizzare la Storia prefigurandone in qualche modo la fine nella prospettiva della resurrezione-restituzione di quanto gli uomini furono e fecero.6 Bellocchio scrive invece dalla prospettiva di una fine della storia ormai compiuta, ma inverata come rovesciamento perverso del comunismo fortiniano: non cioè come istante della leggibilità integrale del passato, ma come presente eterno e vuoto in cui l’intelligenza dell’esperienza umana è inghiottita dall’insignificanza e dall’incoerenza. In tali condizioni post-storiche non è più possibile parlare in nome di un processo storico orientato, nemmeno condizionando questo orientamento ad una prospettiva non (interamente) storica. Così, il comunismo, se esso continua, almeno per Bellocchio, a essere uno dei nomi del bene, non può più darsi che come ostinazione pura, come qualcosa su cui non cedere, contro ogni altra considerazione, pena la dissoluzione del soggetto scrivente:

Bilanci disastrosi per marxismo e comunismo. Non ne discuto gli esiti. Ma perché dimenticare le premesse? […]. Contro l’ingiustizia, ci ha reclutati il comunismo […]. Mi rendo conto che parlare di certezze e verità non si può. Tutto è diventato incerto, ambiguo, equivoco: complesso, relativo. Dèi che muoiono o falliscono, rinascono, risorgono… e con loro fedi, ideologie, filosofie, mitologie. Tuttavia: contro la confusione; senza pretesa alcuna di possedere la verità, tanto meno di insegnarla o imporla; confessati la mia inerzia, apatia, stallo… devo dire che i miei atti, le mie idee, i sentimenti si conformano ancora, naturalmente, a un sostanziale materialismo, ateismo, e se c’è una filosofia o ideologia o mitologia a cui faccio riferimento – pur con tutte le riserve e critiche – è il marxismo […]. Può esserci in questo qualcosa di simile alla «fedeltà» religiosa […]. Ma c’è anzitutto che, pur dopo i «fallimenti» e nonostante i «crolli», non ho trovato niente di meglio (o meno peggio) del marxismo. (Diario, p. 581)

Lungi dal riavvicinarsi al piano delle verifiche empiriche, qualunque cosa ciò possa voler dire, il comunismo di Bellocchio è precisamente ciò che impedisce di costruirsi soggettivamente sulla base dei bilanci e dei fallimenti, e quindi della riuscita e del successo, permettendo dunque di sottrarsi ad una storia naufragata sull’assolutismo dell’esistente e che non sembra più contenere controtendenze rispetto ai suoi processi catastrofici. Non più per la storia contro la storia, come voleva Fortini negli anni Sessanta, ma dopo, contro e fuori dalla storia.

Nel 1994, Bellocchio riprende un testo di «Diario» (la rivista) del 1990, in cui si parla di Chateaubriand come del vero modello dell’intellettuale di sinistra della fine secolo, fedele ai suoi martiri e profeti, ostile alla nuova società ultracapitalista e quindi espulso dalla storia effettiva. L’uomo messo ai margini del processo storico, ma non ancora privato del giudizio irriducibile su di esso, sembra essere la figura più adeguata anche per intendere Bellocchio e il suo lavoro di montaggio. Poiché la totalità della Storia non parla più, le forme e le figure non possono più concatenarsi in funzione di un compimento, ma solo di un’insistenza ripetitiva, di un’ostinazione appunto. In tedesco, «ostinazione» può tradursi Eigensinn, cioè letteralmente senso proprio. Secondo due importanti esponenti della sinistra francofortese, Alexander Kluge e Oskar Negt, l’Eigensinn è il carattere proprio di ciò che resiste all’assorbimento da parte delle relazioni capitalistiche di produzione, e in generale di ciò che resiste alle leggi del mondo, fino a pagare il prezzo della morte. Ma si potrebbe dire che, chi fa propria tale Eigensinn, si esclude già in vita dal mondo dei viventi, si mette dalla parte dei morti.

Di questa ostinazione, il paradigma è Antigone.7 L’intrattabilità di Antigone, la sua irriducibilità alla legge della polis, dipendono dalla sua obbedienza a leggi non scritte, ma ferree e irrinunciabili: un mandato in certo senso senza parole, che potrebbe rappresentare la condizione attuale di tutti quanti cercano, oggi, di orientarsi nel presente senza cedergli né abbellirlo. La conclusione del Diario del Novecento evoca appunto un’irriducibile istanza di ripetizione, attraverso la quale un’opposizione e una fedeltà sono reinscritte ancora e ancora nelle materie del passato, senza poter essere dispiegate in piena luce nell’ordine delle ragioni e nella totalità di una storia comune, ma anche senza venir meno ad una chiamata oggi divenuta inesprimibile:

Questo non è un diario né il mio Zibaldone (si licet…) – è un magazzino, un deposito, dove si raccoglie, si accatasta di tutto, senza ordine alcuno, senza criterio: appunti, spunti, materiali abbozzati, semilavorati […]. Da qualche anno è diventato il lavoro che mi occupa di più, e la più parte del lavoro consiste non già nello scrivere, ma nel ritagliare, incollare, sottolineare, e inventariare-sistemare con indici cose che non serviranno né a me né a nessuno. (Diario, p. 582)

Il volume pubblicato si conclude su queste note, e sul commento a due immagini della vecchiaia: il vecchio che non cessa di imparare opposto alla regressione senile all’infanzia. Ma la vecchiaia non è essa stessa, e anche nel suo aspetto infantile, una figura dell’ostinazione? La regressione allora può essere altra cosa che non lo sprofondare nell’immanenza dell’inconscienza, può cioè apparire essa stessa come un volto dell’ostinazione, che si apre allora, tramite essa, sul futuro:

Un passo indietro. Esprime non tanto l’elogio della lentezza e neppure del solo arresto: piuttosto la necessità di arretrare, attivamente regredire. E anche rifare, ripetere… ricominciare dall’alfabeto, dalle aste. (Diario, p. 454)

La regressione può oltrepassare – in qualche modo all’indietro – la semplice ripetizione, e divenire con ciò un appello a ricominciare tutto daccapo. Il personaggio di Antigone è inseparabile da quello del vecchio Edipo approdato con le figlie a Colono: l’esausto ed intrattabile vegliardo, ormai espulso dal consorzio umano, che non dimentica né perdona, che rifiuta il compromesso con l’esistente, con i giochi della guerra e del potere, e che proprio perciò diventa la soglia attraverso cui la riconciliazione e la salvezza entrano nel mondo degli uomini.

Note

1 P. Bellocchio, Diario del Novecento, a cura di G. D’Amo, Milano, il Saggiatore, 2022, p. 106; d’ora in avanti Diario.

2 A. Berardinelli, Stili dell’estremismo, in «Diario», 10, 1993.

3 A. Saibene, Piergiorgio Bellocchio: Diario di un italiano, in «Doppiozero», 14 agosto 2022.

4 L. Lenzini, Il raffinato collage di agende di uno scrittore mascherato, in «L’Indice», 31 agosto 2022.

5 A. Berardinelli, Stili dell’estremismo [1993], in Id., Casi critici, Macerata, Quodlibet, 2007, p. 188-200.

6 Non si dovrebbe comunque dimenticare che, nell’ultimo Fortini, questa prospettiva è esplicitamente dichiarata impossibile da formulare e affermare fino in fondo, e senza farne intervenire la contestazione immanente, cosicché essa si fonda ormai su di un pari: così, nel saggio sul comunismo, la terra non conserverà alcuna traccia del nostro passaggio, e in Composita solvantur, le ossa non risusciteranno. L’apocalittica finale di Fortini è una strategia per salvare una storia divenuta totalità del falso, ma proprio per questo essa si presenta come a malapena articolabile nella lingua e nel pensiero, se non come scandalo e paradosso.

7 A. Kluge, O. Negt, History and Obstinacy, New York, Zone Books, 2014, p. 293-294.