In dialogo con Mia Lecomte
Sara Sermini

Per parlare del lavoro poetico di Mia Lecomte ho scelto tre parole chiave che consentono di entrare nel vivo della sua opera, partendo dalla sua ultima raccolta, appena pubblicata per l’editore Interno Poesia con il titolo Lettere da dove. Le tre parole costituiranno soltanto delle tracce indiziali per perdersi o orientarsi tra i testi, per formare costellazioni terminologiche e di senso, nonché per aprire il dialogo con la stessa autrice.

I. Luoghi

Sara Sermini: I titoli dei tuoi due ultimi libri ci conducono in un universo spaziale indefinito: anzitutto un avverbio – – addita un luogo non abbastanza determinato da apparire chiaro al lettore: Là où tu as ton corps [Là dove hai il corpo] (Apic Éditions 2021); e poi un moto da un luogo avverbiale indica una provenienza del tutto indefinibile: Lettere da dove. Nel primo caso il verbo alla seconda persona singolare chiama in causa il corpo di un tu che legge e che è invitato a posizionarsi nello spazio; nel secondo il dispositivo della lettera crea un’immediata vicinanza con un’alterità. Come ha scritto Deleuze nel suo saggio Kafka. Per una letteratura minore, le lettere sono il compimento di una «dislocazione d’anime», che ruota intorno al termine desiderio: c’è in gioco «il desiderio di lettere» tra anime e corpi situati in luoghi differenti. D’altra parte, nella tua ultima raccolta le lettere del titolo sono anche le lettere dell’alfabeto, e in particolare le tre lettere finali: «Caro XYZ» – così iniziano le poesie della prima sezione. Manca dunque un destinatario ma c’è letteralmente un’idea di “finalità” (che si condenserà nell’ultima sezione della raccolta intitolata Congedo): il desiderio resta qui sospeso, aleggia tra i versi e si muove in direzione di un’alterità, pur restando tutto concentrato sul mittente. Manca anche un’indicazione temporale; manca «la mappa dell’itinerario», come annoti in esergo alla prima poesia; manca «persino un argomento». C’è invece un io che si racconta muoversi e che appare tanto consapevole dei luoghi da potersi permettere di offrire indicazioni di movimento a quel tu indefinito a cui si rivolge: «occorre camminare / ancora osare con cautela / dietro la geografia». In questa raccolta il culmine dell’esplorazione geografica è condensato nella sezione dal titolo Agenda senza stagioni. Qui sono presenti tredici componimenti, uno per ogni ora in un arco di dodici ore che va dalle ore 8 alle ore 20 dello stesso giorno, ognuno contrassegnato dal nome di una località alpina diversa – da Champfèr a Madulain – situata in Engadina. Nonostante l’indicazione esatta dei luoghi, sulle pagine si compone una mappa dello spaesamento: in un microcosmo apparentemente familiare la presenza umana si dirada; non si trova quel campionario umano, familiare e amoroso, ricorrente invece nelle altre sezioni così come nelle raccolte precedenti, mentre le presenze vegetali e animali segnano il confine tra realtà e visione: «Nel mentre sulla pista / il cammello ha passato / una sola gobba per la cruna / fermo il tamburo». Anche nella prima sezione dell’antologia Là où tu as ton corps, che raccoglie testi tratti da diverse raccolte precedenti ed è significativamente intitolata Pour lieux, si dispiega una geografia di luoghi a lungo battuti, oppure casualmente incrociati durante viaggi o soste occasionali, a definire «un piccolissimo scarto / fra la geografia e la storia / una mappatura compresa di sé». Se i luoghi all’aperto sembrano prendere la forma di un microcosmo, le molte case presenti nei tuoi versi, invece, si configurano come macro-universi stranianti: micro e macrocosmi insieme si compongono come antinomie di una cosmografia intima. Cosa sono per te i luoghi? Come si differenziano dagli spazi?

Mia Lecomte: I titoli delle mie raccolte poetiche, come giustamente osservi, o delle sezioni che le compongono, fanno sempre riferimento – direttamente o indirettamente – a luoghi presunti dello spazio nel tempo: sin da Geometrie reversibili (1996), caleidoscopio multiforme di frammenti spazio-temporali, che si apre proprio con la sezione Breve atlante sentimentale, l’aggettivo a vanificare ogni velleità cartografica. Nelle Autobiografie non vissute (2004), titolo che dichiara più esplicitamente l’irrilevanza di qualunque appiglio cardinale terrestre, la sezione Metamorfosi engadinesi trova nella regione alpina, che ritornerà nell’ultima raccolta, lo scenario ideale per escursioni straniate/stranianti. In Terra di risulta (2009) – dove la terra, ancora, è materiale di scarto di scavi immateriali – così presentavo la prima sezione, Dei vostri luoghi: «Come indica l’aggettivo possessivo, è un viaggio nella non-appartenenza. Si attraversano luoghi sempre “altrui”, che comunque non possono che appartenerci, eppure mi appartengono, per interposta persona, come una sorta di diritto ereditario, anche se alienato». Questo è valido a maggior ragione per le numerose case delle raccolte successive, che al contatto con la realtà si rovesciano per farsi “case fuori”, custodi e testimoni del passaggio, dell’assenza. La spazialità temporale – perché in causa è sempre lo spazio incarnato in un tempo – intesa come tentativo di localizzazione su un asse di ascisse e ordinate esistenziali, non fa dunque che contraddire se stessa. È l’impermanenza la bussola che indirizza lo stare dei miei versi. Il risultato è sempre un vuoto pallido, sull’orlo del finire. Da cui le tre estreme consonanti del destinatario delle Lettere da dove: perché quell’XYZ è la fine dell’alfabeto, appunto, il ciglio del baratro: include la vanità di tutte le varianti alfabetiche precedenti e l’orizzonte disabitato a seguire. Da cosa derivi questa distorsione delle coordinate spazio-temporali non spetta a me dirlo, è sempre difficile guardare a ciò che schiuma da sé. Immagino abbia a che fare con un mio percorso biografico di transiti, da cui poi anche gli studi e la ricerca nell’ambito delle letterature transnazionali. Ma forse invece c’era già tutto prima, dall’inizio, nella mia certezza infantile di una morte imminente, o nella perenne tensione verso un percorso spirituale. Nella necessità dell’ironia, a ridimensionare le aspettative e le ambizioni contingenti. Qui ed eppure sono le due parole che ritornano più spesso nell’ultima raccolta: lo spazio disteso fra di esse delimita il luogo della mia poesia.

II. Oggetti

SS.: Prima ci sono le case. Poi vengono gli oggetti, o forse è proprio il contrario: «Casa è quel che a volte resta / le tracce dell’assedio / cibo abiti cartacce». L’οἶκος nelle tue poesie è composto di cose materialissime, che prendono la forma di lunghi elenchi in versi: «Letti armadi librerie divani / mensole sedie scrivanie / lampade stoffe cuscini / pentole tende tappeti / piatti vasi bicchieri / giochi posate // viti bulloni / automatici / chiodi // istruzioni». Fra queste l’io si muove, prende le misure, si fa cosa tra le cose, resto, reperto, scarto. L’obiettivo è esistenziale: «occorre rifugiarsi dentro al minimo / vagliando prospettive in proporzione / e starci stabilendo palmo a palmo / misure sempre in scala del dolore». Gli oggetti delle tue poesie stanno saldamente a guardia di un’intimità fragile, eppure sembrano non avere alcun peso. L’unico valore che hanno le cose non sembra essere conferito loro da “cause” materiali, bensì dalle parole che le designano. L’espressione Nuda proprietà, che dà il titolo a una sezione dell’ultima raccolta, porta in sé questo paradosso: la proprietà è data solo dal termine che la connota, perché, nella fattispecie, di quel bene non si può fare alcun uso. È una promessa materiale per un avvenire che non sappiamo se si realizzerà, in un presente costellato di fantasmi del passato e di oggetti imballati per un trasloco ineludibile e sempre imminente. Più concrete sono le voci del passato, che prendono forma dal motivetto musicale insinuatosi per caso nella testa; sono presenze reali che hanno abitato la casa nei mesi del primo lockdown, dando corpo ai paesaggi familiari della memoria: «Per colazione / voi tutti e tre in cucina / Scendevi tu per prima / you are sixteen going on seventeen / baby, it’s time to think». Ad essere messa continuamente in discussione sembra dunque essere l’esistenza materiale dell’umano, al quale spesso le cose sopravvivono o del quale costituiscono una protesi esistenziale necessaria, come sottolinea l’epigrafe a uno dei Motivetti di Lettere da dove: «L’homme existe aussi dans ce qui le prolonge / comme l’araignée dans sa toile». Ogni cosa è un habitus, è il cappotto che non indossiamo ma che ci indossa come accade nel componimento intitolato Prêt-à-porter (Al museo delle relazioni interrotte, 2016) che si chiude con una speranza: «Che questi cappotti ci indossino / ci facciano rispettare». Gli oggetti presenti nei tuoi versi sono considerabili come entità viventi? Come ti rapporti con la loro qualità materiale e con il concetto di “valore”? Quanto l’esercizio della fotografia (una delle attività che pratichi accanto alla scrittura) contribuisce alla definizione verbale degli oggetti?

ML.: Nella raccolta intitolata Intanto il tempo (2012) – ad indicare proprio quello che succede “a fianco”, fuori quadro, mentre la temporalità incarnata fa il suo corso – così si apre la poesia Partiturina: «Le cose come ci circondano esistono / a volte così poco che possederle / significa sottrarsi». Qualità materiale degli oggetti è dunque proprio un’immaterialità costruita nei dettagli, e mediante lo scrupoloso accumulo in elenchi che dovrebbero evocarne proprio la presenza tangibile, a tratti salvifica. Il loro “valore” è declinabile unicamente sul registro dell’impermanenza, in cui solo è possibile coabitare. Nella stessa raccolta, una sezione consacrata a una sorta di metafisica circense è intitolata appunto Kloe, o l’intermittenza della materia. E in Terra di risulta, già citata, l’intera sezione Oggetti naturali è dedicata invece ai prodotti pubblicitari dell’infanzia: Zigulì, Vidal, Euchessina… Lo stesso espediente dei Motivetti: un’immersione nel carosello del ricordo a cercare le parole magiche – jingle, canzoni, slogan… – col potere di dare vita alle cose fuori e dentro di noi. La molla dell’esistere “a intermittenza” è dunque verbale, è vero, anche quando la ricerco attraverso la strada della fotografia. I soggetti delle mie foto sono sempre spazi, spesso geometricamente ordinati, in cui la presenza umana è inessenziale, periferica. Ci sono oggetti, e animali – i molti animali dei miei versi, spesso monologanti, a volte fantastici – uniti a me dalla pietà di esserci, in qualche modo, ironicamente, non esserci. E una volta stampate, soprattutto se in grosso formato, le foto perdono completamente di realtà. Nel loro malinconico iperrealismo pittorico, si avvertono come voci fantasma.

III. Lingue

SS.: Difficile separare il tuo lavoro di traduzione, quello performativo con la Compagnia delle poete (da te fondata nel 2009) e quello di scrittura poetica. Il transito costante da una lingua a un’altra è certamente di derivazione biografica («Al nonno che parlava l’altra lingua / devo ancora la scioltezza del mio valzer» da Waltz for Debby), ma è anche una scelta precisa, una volontà di stare-fra, di creare spazi “framondi”, per usare un termine che ho letto di recente nella traduzione di una raccolta di reportage della giornalista brasiliana Eliane Brum, intitolata Le vite che nessuno vede. Nelle tue poesie le lingue diverse concretizzano i luoghi e al tempo stesso li dissolvono, aprendo orizzonti inattesi che mettono in discussione il proprio cosmo minimo, la propria frontiera di pelle: «Molte volte oggi ho passato la frontiera / della mia pelle dentro e fuori» (Asuni, da Terra di risulta, 2009). Le relazioni si intessono a partire da lì, dall’attraversamento del proprio confine, da quell’uscita da sé che connota la parola, ovvero il suo essere prima di tutto voce, emissione di fiato verso l’esterno e in direzione di un’alterità. La poetica della relazione, per dirla con Édouard Glissant, è dunque data dall’incrocio di corpi e voci provenienti da singole individualità disseminate e capaci di comporre un arcipelago di differenze, le quali si esprimono attraverso lingue diverse. E le diverse lingue sono incorporate nei tuoi versi, facendo fronte comune, insieme a quel senso di dislocazione spaziale al quale accennavo prima, contro ogni possibile chiusura culturale. È dunque spesso una questione di “traducibilità”: la traduzione consente di connettere i diversi individui dell’arcipelago, arginando le distanze e mostrando al tempo stesso l’impossibilità di colmarle. Qualche tempo fa, in un incontro svoltosi a Lugano e organizzato dalla Pen International sul rapporto tra poesia e resistenza, contestualmente all’87° Congresso dell’associazione, hai detto che la “resistenza poetica” è a tuo avviso una “resistenza linguistica”, ovvero «si esercita attraverso le lingue». Potresti approfondire questo punto? Quanto conta per te la traduzione in quell’esercizio di resistenza che è la scrittura?

ML.: Come mi è capitato di ripetere, in realtà la mia lingua di scrittura è stata sempre e solo l’italiano. Nel tempo ho avuto attorno alcune altre lingue europee, in particolare il francese, ma la pluralità linguistica mi appartiene solo come un bacino di sonorità da cui attingere in funzione dell’italiano, un gruzzolo musicale che mi consente possibilità non tanto linguistiche quanto più ampiamente espressive. Il plurilinguismo risultato di transiti, migrazioni, di cui mi sono occupata e mi occupo come studiosa, mi interessa particolarmente proprio nei suoi sviluppi italofoni, il punto di vista rimane sempre quello della lingua di approdo, la mia unica lingua di scrittura. Che negli anni, sempre più, è diventata l’unico luogo in cui riesco davvero a esistere. Ho cominciato a tradurre bambina, in casa, con mio padre Yves. Poeta francese da molti anni in Italia, non era mai riuscito a passare all’italiano, e appena ho cominciato a maneggiare i primi rudimenti scolastici, ha iniziato a ricorrere a me per aiutarlo a trasferirsi nella mia lingua. Traduzione scandita lungo gli anni nella quotidianità domestica. Con i pasti condivisi, i libri, il cinema, il jazz. Tuttora per me la traduzione è una delle principali modalità d’espressione dell’amore. Verso ciò che traduco, soprattutto, ma anche per chi è con me, al di qua o al di là della traduzione, più o meno fisicamente. Il paradigma di ogni vera relazione è quindi per me essenzialmente linguistico. E passa attraverso la parola poetica. È questa la forma di resistenza a cui accennavo: la fune lanciata fra le alterità, l’equilibrio fragile del passaggio, i corpi, le parole sorpresi di riconoscersi. La forza, la potenza resistente di un’umanità comune.