Franco Buffoni,
Gli strumenti della poesia
e Vite negate
Francesco Diaco

Franco Buffoni, Gli strumenti della poesia. Manuale e diario di poetica, Novara, Interlinea, 2020.

Franco Buffoni, Vite negate, Milano, Fve editori, 2021.

I. Gli strumenti della poesia

Nel 2020 Franco Buffoni pubblica Gli strumenti della poesia. Manuale e diario di poetica.1 La scelta del termine «diario», oltre a esplicitare la componente personale delle annotazioni qui raccolte, si riallaccia all’eredità fenomenologica spesso rivendicata dall’autore; non per niente, la definizione di «poetica» riportata sin dalla quarta di copertina è mutuata da Anceschi, allievo di Banfi ed esponente della “scuola di Milano”. Questo volume contiene, dunque, rivelazioni su “come lavora Buffoni”, su come crea testi e allestisce raccolte, ma anche lucide auto-esegesi e riflessioni sulla letteratura contemporanea, la traduttologia e la comparatistica; un’attenzione speciale e costante viene, inoltre, riservata ai fenomeni metrico-stilistici. Dopo aver svolto alcune considerazioni sulla propria dialettofonia originaria, Buffoni individua tre opzioni principali disponibili negli anni Settanta, cioè al momento del suo esordio: 1) il pastiche citazionista, modernista (Joyce, su cui verteva la sua tesi di laurea, e Gadda) e (neo)avanguardista, fondato sull’esplosione e la contaminazione dei codici; 2) il recupero fedele e/o la reinvenzione “alla Loi” del dialetto; 3) la deliberata riduzione lessicale operata da Sereni e il suo understatement. Buffoni dichiara di aver praticato la prima opzione nel periodo giovanile, avvertendone presto i limiti, e di aver adottato il dialetto milanese solo per alcune traduzioni dallo scozzese; ha invece puntato prevalentemente sulla terza soluzione, «confidando nel sottotono e nel sopratono» (p. 48). Si definisce, perciò, un poeta civile erede della linea lombarda, di Sereni, Erba, Risi, Giudici e Raboni, soprattutto per quanto riguarda la forma dell’espressione; viceversa, alcuni dei temi più ricorrenti (tra cui l’omoerotismo) afferirebbero a un’area geografica e a una tradizione giuliano-appenninica, che comprende i nomi di Saba, Penna e Pasolini.2 In aggiunta a questi modelli, viene ricordata l’influenza della linea Pascoli-Gozzano e quella, decisiva, della poesia europea (in particolare anglosassone), studiata approfonditamente e a lungo tradotta. Le parole-chiave sotto cui l’autore pone la propria opera sono «racconto, chiarezza, lingua», che si riferiscono alle sue narrazioni in versi (per esempio Suora carmelitana) e al suo dettato nitido, altamente comunicativo; per certe raccolte, si potrà parlare anche di elegia, a patto di declinarla come «elegia dal contenuto forte, persino drammatico; magari autobiografica, ma spigolosa» (pp. 37-38).

Tra le varie trattazioni storico-teoriche3 contenute negli Strumenti, mi limito a segnalare quella sul ritmo. Va rammentato, a questo proposito, che Buffoni ha organizzato sia un convegno sulla Ritmologia, curandone gli atti, sia una mostra (Ritmo sopra a tutto), che estendeva l’indagine al campo delle arti figurative. A suo dire, «il segreto sta nel modulare il grido», cioè nel mediare l’urgenza espressiva e nel formalizzare le «tante cose da dire». Al di là della sua ricca formazione culturale, l’origine di questa estrema ricettività «sul piano formale» sarebbe individuabile in un aneddoto biografico: «sono nato in una casa con tre pianoforti […]. Io ero l’unico che non lo suonava, però li ascoltavo […]. È una questione […] di flussi».4 Il ragionamento – strettamente intrecciato al problema della traducibilità – parte dall’idea di coesione, dal “legame musaico” di cui tratta Dante nel Convivio, per poi discendere al confronto tra Capuana e Pascoli sulle «pastoie del ritmo», negli anni in cui la metrica chiusa entrava in crisi e nasceva il verso libero. Buffoni, però, risale fino a Beda il Venerabile, che postulava l’indipendenza e il primato assiologico del ritmo rispetto al metro; quest’ultimo, infatti, è un «canto costretto da una certa ragione», che «non può sussistere» senza il primo. Sulla stessa lunghezza d’onda si collocherebbe il Traité du rythme di Meschonnic e Dessons, secondo cui il ritmo non è una «forma vuota», bensì l’«elemento fondamentale» di un testo, in quanto «sintesi della sintassi, della prosodia» e dei suoi «movimenti enunciativi»: detto diversamente, è ciò che dà ordine e forma al pensiero. Mentre gli schemi metrici sono istituzioni storiche, mutevoli e arbitrarie, il ritmo, per Buffoni, sarebbe «ancestrale», legato all’apprendimento del linguaggio attraverso l’acquisizione di una certa cadenza prosodica, se non addirittura al «battito del cuore materno». A definire qualsiasi ritmo è una regolarità nel movimento, fatta di battere e levare, di pause e tempi forti: ciò accomunerebbe l’arte e la natura (le maree, i moti celesti), dimostrando l’esistenza di un livello «ben più animalesco e profondo» rispetto a quello delle convenzioni umane, come «l’espansione e l’implosione dell’universo, come il respiro primordiale […], come una vibrazione che attraversa il mondo e in varia misura il corpo umano», trascendendo la singola «soggettività poetica» (pp. 59-62, 192, 196). A mio avviso, una concezione così fisica del ritmo, non circoscritto a una «scansione […] misurata», bensì immaginato come un’ondulatoria forza «eraclitea»5 che scorre nell’intero cosmo, risulta vicina alle posizioni di Dylan Thomas, e in buona parte opposta alle teorizzazioni di Fortini (da cui pure Buffoni ha molto appreso), nella misura in cui quest’ultimo – nel suo rigetto dell’immediatezza e dell’autenticità come pericolose illusioni – non solo privilegiava la metrica, in quanto cerimoniale e ritualità collettiva, ma pure negava ogni carattere di naturalità e spontaneità al ritmo, interpretandolo come un sedimento storicamente determinato, formato da residui di precedenti istituti metrici. Secondo Buffoni, infine, esisterebbero tre principali ambiti di ricerca sul ritmo: uno più ampio, di taglio filosofico; uno più specificamente linguistico-filologico; uno inerente a tutti i processi creativi, dato che il «soggetto» proprio di un’opera, anzi la fondazione stessa del suo statuto e della sua validità artistici, sono determinati dall’incarnazione del ritmo in una «particolare», specifica «intonazione» (p. 195).

II. Vite negate

Nel 2021 Buffoni dà alle stampe Vite negate, che con Due pub, tre poeti e un desiderio (2019) e con Silvia è un anagramma (2020) forma una trilogia dedicata alla giustizia biografica, cioè volta a problematizzare quel «neutro accademico eterosessuale» (p. 124),6 ancora prevalente in Italia, che dà per scontata l’eterosessualità dei grandi protagonisti della cultura mondiale. Si tratta di volumi dal genere ibrido, che mescolano il rigore delle ricerche archivistiche con un impianto militante-pamphlettistico, i ricordi autobiografici del personal essay con elementi sapientemente romanzati, da docufiction o biofiction,7 non senza un gusto classicheggiante per le vite esemplarmente parallele (all’omofobia e alla presunta omosessualità repressa di Eliot e Montale8 si contrappongono, per esempio, il coraggio di Auden e lo «spirito irregolare» di Rebora). L’operazione è rilevante, in quanto da un lato sistematizza e divulga presso un pubblico relativamente ampio – raggiunto grazie a una scrittura godibile ed elegante – alcuni spunti già noti in certi ambiti;9 dall’altro, contribuisce a introdurre in Italia – per quanto con grande affabilità e senza velleità teoriche – il pensiero dei maggiori esponenti di gender studies.10 A ben guardare, però, in Vite negate ci si concentra prevalentemente sul campo, più ristretto e specifico, dei gay studies, non dedicando tantissimo spazio alla bisessualità o alle identità gender fluid (un’eccezione è l’Eliogabalo di arbasiniana memoria). Mancano, poi, le autrici lesbiche, per un auto-dichiarato limite dell’immaginario autoriale. Inoltre, pur dando per scontata l’ampia libertà con cui ognuno dovrebbe poter vivere la propria sessualità, Buffoni sembra più che altro caldeggiare la conquista di una perfetta eguaglianza di diritti nell’ambito di istituti giuridico-familiari relativamente tradizionali. Mi spiego meglio: piuttosto che adottare una visione anarchico-sovversiva dell’eros, Buffoni investe il proprio prestigio intellettuale per promuovere il matrimonio paritario, l’accesso alle adozioni, la gestazione per altri; la vera «rivoluzione», per lui, non ha nulla di sessantottesco o psicanalitico-marcusiano: più che con la disseminazione delle zone erogene, o con la pansessualità elogiata da Mario Mieli, coincide con la «fecondazione in vitro», giusta la massima «Per Scientiam ad Justitiam» (p. 209).

Se l’intento ultimo di Vite negate è nobile e sicuramente condivisibile (soprattutto se esteso a una ricerca sui modelli di virilità e di rappresentazione del desiderio, in relazione all’insegnamento scolastico e universitario), si potrebbe però discutere a lungo sui dubbi metodologici posti da questo tipo di approccio al closet, al nascondimento coatto degli autori omosessuali, con la conseguente scarsità di prove eclatanti, così come sul delicato bilanciamento tra pietas per le vittime, storicizzazione dei costumi e dell’etica, determinazione delle responsabilità individuali (problema spinosissimo e già manzoniano). Il cuore della questione – che non è possibile approfondire ora, e che il tasso di finzionalità dovuto all’intersezione tra genres risolve solo in parte11 – è il rapporto tra biografia e opera, su cui ci si interroga dai tempi dell’intentional e della biographical fallacy a quelli della critica psicanalitica (è pericoloso, si sa, mettere sul lettino uno scrittore defunto), dagli anni della mort de l’auteur a quelli della sua resurrezione, grazie alla ricezione dei saggi di Anscombe, Bourdieu, Ricœur12 o Bloom. Mi sembra, comunque, difficile sostenere che la condizione di omosessuale, almeno per le epoche in cui ciò coincide con l’appartenenza a un gruppo discriminato e perseguitato, sia un fattore trascurabile, se non del tutto inutile ai fini di un’accurata interpretazione del corpus di un dato scrittore. Ciò avverrà, forse, soltanto se e quando subentrerà, in tutto il mondo, quella «quarta fase […] post-gay» in cui l’omosessualità non sarà più percepita come scarto da una norma (da reprimere, curare o tollerare; e quindi, per reazione, da esibire e rivendicare fieramente), bensì come una naturalissima variabile della sessualità umana, priva del benché minimo «stigma sociale» (p. 14).

Finora, invece, la drammatica storia delle minoranze omosessuali è stata segnata da una feroce violenza fisica e simbolica, di cui Vite negate dà conto con implacabile precisione: dalla macchina del fango alla censura dei «nipoti», fino al rogo di libri; dal carcere (Wilde, ma anche Braibanti, unico caso di condanna per “plagio” di un maggiorenne, su cui è appena uscito nelle sale Il signore delle formiche di G. Amelio) alla fuga in esilio; dalle sedute di elettroshock, così forti da ridurre i “pazienti” allo stato vegetativo, a rapimenti e pestaggi organizzati dai familiari stessi; da spedizioni punitive con catene, mazze da baseball e «stivali a punta metallica» a suicidi più o meno direttamente indotti (Mieli che mette «la testa nel forno, come Sylvia Plath»); dal dileggio allo stupro, fino alle morti per impalamento, rogo, trauma cranico, o per sbranamento nei lager nazisti. Come affermato dal pugile Griffith, ridotto «sulla carrozzina» da un «agguato» (riconducibile, però, a una vicenda più complessa), se si uccide un uomo «tante persone capiscono» e «perdonano»; se invece si ama una persona del proprio sesso, «per molti questo resta un crimine imperdonabile» (p. 200). Colpisce, in particolare, il sadismo con cui un giovane ragazzo, Luca Varani, è stato torturato e assassinato nel 2016 (come narrato da Lagioia in La città dei vivi), sia perché ciò dimostra (nelle parole di Giartosio) che l’«odio» e il «disprezzo contro gay e trans» può essere assimilato e «agito» persino da «gay e trans», sia perché il raccapricciante particolare delle «corde vocali tagliate», affinché egli «non gridasse» (p. 224), si carica inevitabilmente di una terribile potenza allegorica. Non per nulla, già in Guerra trovavamo immagini simili: «Il dolore se ne usciva tra le griglie / Il grido no. Perché le corde vocali / Erano state tagliate» (dalla sezione Torture al foglio); «Fu impiccato a Ponte Sant’Angelo / Il compilatore di avvisi Annibale Cappello / Ma il boia prima gli mozzò una mano / E strappò all’uso vaticano / La lingua al gazzettiere» (dalla sezione Per il potere di sciogliere e legare).13 Buffoni, insomma, vuol dare benjaminianamente voce ai vinti, a coloro che sono stati ridotti al silenzio, oppressi e uccisi, nonché rimossi dalla storiografia dei vincitori, abili a sublimare e legittimare la propria sopraffazione. Ad ogni modo, il libro si chiude con una luce di speranza, legata al recente coming out di alcuni sportivi, che hanno scelto di sconfiggere la “negazione”, di mettere fine alla menzogna, alla doppia vita cui erano costretti dalla paura, abbandonando finalmente il closet, e perciò sfidando non solo i propri compagni di squadra, ma tutta la società a cambiare, a superare pregiudizi e stereotipi. D’altronde, il Buffoni poeta si è dedicato, negli ultimi decenni, sia a ritrarre con agghiacciante freddezza l’«orrore» storico-zoologico che pervade il mondo, sia a «cogliere il decoro e la gentilezza della realtà»,14 preservando la grazia di cui siamo capaci: «Si erano scambiate un’effusione / Un abbraccio stretto, un bacio sulle labbra»; «Giovani puliti timidi e raggianti / Dritti sulle sedie col menù sfogliavano / E si scambiavano opinioni / Discretamente. / Lessi una dignità in quel gesto educato / Al cameriere, una felicità» (Gay pride).15

Al di là dell’indignazione suscitata dalle tragiche vicende biografiche appena menzionate, risultano di grande interesse soprattutto le conseguenze artistiche, le ricadute tematiche, strutturali e formali di questi fenomeni di edu-castrazione, interdizione e marginalizzazione.16 In altre parole, questo indicibile tabù, questo magnete che insieme attrae e respinge, impone varie strategie di denegazione e (auto)censura, induce alla diffrazione e alla vaga allusività. La (celata) infrazione dell’irreggimentazione, di un disciplinamento sociale che parte da famiglia e scuola, può comportare una spiccata abilità imitatoria, un rispetto iper-correttivo, o sottilmente parodico, di una norma stilistica tradizionale, ma può anche spingere ad assumere una postura scandalistica e provocatoria: si pensi alle differenze di stile e destino intercorrenti tra Wilde, Saba e Penna. Ecco, allora, alcuni di questi tratti (a mio avviso, certo, spiegabili anche alla luce di altri fattori): i motivi della recita e dell’ipocrisia, della maschera e del doppio, in Beerbohm, Gide e Gozzano; la scelta di una narratrice, di un punto di vista femminile sull’uomo desiderato (Palazzeschi); la costruzione di personaggi gentili e sensibili, morti giovani (Pater) o suicidi, oppure di trame risolte dal loro innamoramento finale per la sorella/gemella dell’amato; il ricorso all’anonimato, a pseudonimi ed eteronimi (Pessoa); l’accortezza nelle espunzioni e nella variantistica (Palazzeschi); la pubblicazione postuma delle opere più direttamente confessionali (Saba, Forster); l’adozione di un dottissimo codice per iniziati (Bankes) o di un ermetismo particolarmente cifrato (De Libero); l’esasperazione dell’eccentricità (Swinburne); l’annacquamento dei passaggi più scoperti nell’innocua ridondanza di centinaia di altri versi (Wilde). Palazzeschi, poi, nell’impossibilità di proporre una lirica omoerotica, avrebbe optato per una leggerezza funambolica e giocosa, per una comicità proteiforme e irridente; da questo modello sarebbero discesi i romanzi, ben più espliciti, di Arbasino, Busi e Tondelli.

Peraltro, il ricorrere del nome di Palazzeschi è rivelatore, in considerazione del fatto che le prime prove di Buffoni vennero ascritte (anzitutto da Raboni) a una linea ludica e fumiste. Buffoni stesso ha in seguito ammesso di aver usato «la cultura e l’ironia» come uno «schermo dietro cui trincerarsi», come «un modo per fuggire da ciò che si è»:17 per questo, dopo il suo coming out letterario, il tasso di reticenza e persiflage si abbassa nettamente. Le raccolte giovanili, viceversa, si ponevano all’insegna del trucco e della finzione, di un «divertito e canzonatorio nascondimento, di natura insieme difensiva e offensiva».18 Il Buffoni di Suora carmelitana cassava ancora, nella versione inviata a Erba, la scioccante sovrapposizione (che chiaramente turbò Luzi) tra il movimento delle mani nel parlatoio e il fist-fucking; nel Profilo del Rosa, poi, l’autore rifletteva sull’omofobia introiettata da adolescente, quando aveva scritto (con una scelta lessicale ritenuta «descrittiva», denotativa): «Dietro un muretto due invertiti smaniano».19 In Noi e loro, invece, Buffoni tocca volutamente «le sue vette liriche»,20 aprendo la poesia italiana a versi di corporeo ed esplicito omoerotismo,21 immergendosi in una Tunisia inebriante e sensuale, quasi favolistica, ma anche problematizzando il proprio turistico orientalismo:22

Ti bacerò questa sera ragazzaccio
Bacerò
Le tue labbra miele birra
Di focaccia
E una croce di Sant’Andrea
Sarà il tuo corpo disteso supino,
In penombra la faccia.
23

Buffoni, insomma, si batte affinché non ci siano più “vite negate”, militando a favore dei diritti civili e pubblicando – in sedi editoriali differenti per dimensioni e pubblico di riferimento – le proprie prose di docufiction, ma forse anche scrivendo questi musicalissimi versi dal sapore penniano.

Note

1 Il titolo forse vuole anche riecheggiare Gli strumenti umani di Sereni.

2 Non sarebbe solo una casualità biografica, insomma, che Buffoni, nato a Gallarate, risieda da vari decenni a Roma, pur con frequenti ritorni in terra insubre.

3 Buffoni predilige, però, la nozione di “poetica” rispetto a quella di “teoria della letteratura”.

4 F. Buffoni, Dichiarazione di poetica, in «Atelier», XVI, 62, 2011, p. 25.

5 F. Buffoni, Quello che avevo dentro era poesia, intervista a cura di R. Fiorito, in «Menabò. Quadrimestrale di cultura poetica», 10, 2022, pp. 46-48.

6 Cfr. E. Pinzuti, Closet, ma con vista. I queer studies e l’Italianistica, in «Cahiers d’études italiennes», 16, 2013.

7 Cfr. R. Castellana, Finzioni biografiche. Teoria e storia di un genere ibrido, Roma, Carocci, 2019.

8 Se Montale rimane, per Buffoni, un grande modello poetico, sul piano umano le riserve sono molte, come dimostrato anche da F. Buffoni, La linea del cielo, Milano, Garzanti, 2018, pp. 145-149.

9 Sulla relazione Leopardi-Ranieri, cfr. G. Dall’Orto, Sempre caro mi fu, in «Babilonia», 141, 1996, pp. 68-70, e Id., Tutta un’altra storia. L’omosessualità dall’antichità al secondo dopoguerra, Milano, il Saggiatore, 2015.

10 Sebbene in assenza di note e di una trattazione accademica, la bibliografia è prestigiosa e aggiornata: da Foucault a Preciado, passando per Butler, Haraway e Wittig.

11 Il rischio che comporta questa ibridazione tra generi – i capitoletti di Vite negate devono cioè essere fruiti come brevi saggi critici o piuttosto come biofictions in miniatura? – potrebbe, infatti, ricordare quello corso da Pasolini con le Ceneri, su cui Fortini aveva acutamente riflettuto: «Pasolini poeta non beneficia di indulti lukacsiani quando teorizza le proprie posizioni. Non può dunque rimandarci ai suoi versi […]. Chi contestasse […] non sul piano della riuscita poetica ma su quello meramente storico-politico la validità dei discorsi […] di Pasolini poeta […] dovrebbe […] prendere alla lettera le Ceneri di Gramsci, leggerle come articoli» (F. Fortini, L’ospite ingrato. Primo e secondo, Casale Monferrato, Marietti, 1985, ora in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. 881).

12 Cfr. R. Talamo, Intenzione e iniziativa. Teorie della letteratura dagli anni Venti a oggi, Bari, Progedit, 2013.

13 F. Buffoni, Guerra, Milano, Mondadori, 2005, pp. 91, 161.

14 D. Frasca, recensione a F. Buffoni, Poesie 1975-2012, in «allegoria», 65-66, gennaio/dicembre 2012, p. 315.

15 F. Buffoni, Noi e loro, Roma, Donzelli, 2008, p. 107.

16 Al riguardo, cfr. T. Giartosio, Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo, Milano, Feltrinelli, 2004; Id., Non aver mai finito di dire. Classici gay, letture queer, Macerata, Quodlibet, 2017.

17 T. Lisa, Intervista a Franco Buffoni, in «Apostrofo», VI, 18, settembre 2002, p. 8. Cfr. F. Buffoni, Jucci, Milano, Mondadori, 2014, p. 120.

18 U. Motta, In margine alla poesia di Buffoni, in «Galleria», XXXIV, 1, gennaio-aprile 1994, p. 43.

19 F. Buffoni, Il profilo del Rosa, Milano, Mondadori, 2000, p. 102.

20 M. Gezzi, Introduzione. La poesia di Franco Buffoni, in F. Buffoni, Poesie 1975-2012, Milano, Mondadori, 2012, p. XVII.

21 Cfr. F. Buffoni, Noi e loro cit., pp. 20, 30, 39 (si noti, in molti casi, il passo endecasillabico): «Meraviglia nel cielo la mattina»; «Abbatte schiaccia giù nervi di baci» (con scontro d’arsi 6a-7a); «Odorano di frutta le sue mani»; «Il sesso è sempre una vocale / E in arabo lui grida adesso grida» (con epanalessi).

22 Vd. questi versi anti-pasoliniani: «Della mia coscienza siete la contraddizione, / Ma non vi assomigliate tutti, ve lo giuro, / Labbra tenere e mani dure, / Non siete intercambiabili, non posso / Acquistare senz’anima dei corpi» (ivi, p. 72).

23 Ivi, p. 31.