Per un nuovo inizio
Giancarlo Gaeta

«Di che scrivo? Si parla solo di Covid. La politica è morta». Comincio da questa desolata constatazione di Emanuele Macaluso al termine di una lunga vita interamente segnata dalla lotta politica. La riferiva Peppe Provenzano nella partecipata memoria di lui al funerale nel giorno in cui ricorreva altresì il centenario della nascita del partito comunista. Da tempo il Pci è diventato altra cosa e da altrettanto tempo Macaluso aveva scelto di condurre la lotta in prima persona sul terreno della cultura politica, sentendo forte il dovere di «far vivere le idee sulla giustizia sociale quanto più la realtà della politica e della sinistra gli sembrava pessima» (Provenzano). Non cadde perciò nell’errore del dopo l’89 che, giustamente ci ricorda Giorgio Ardeni, «non fu quello di cambiare nome al partito, ma di perdere di vista un obiettivo, mutuando quello liberale».

Da allora è cresciuto un vuoto, che a sinistra si è cercato di riempire con materiali spuri, avviluppandosi in contraddizioni sempre meno superabili in mancanza del convincimento – che fu di tanti della generazione di Macaluso – per cui la ricerca della libertà è inseparabile dal perseguimento della giustizia e dell’uguaglianza. Certo, venuto meno il confronto geopolitico con le ragioni ideologiche che lo sostenevano, in questi trent’anni è mutata in profondità la cultura sociale del dopoguerra: nel pensiero e nella pragmatica della comunicazione, dunque nei fondamenti del linguaggio che sostanzia le forme delle relazioni, i modi di sentire gli altri, in specie l’altro, lo straniero, e di conseguenza la concezione stessa dell’azione politica, ridotta oramai a tattica. Ma proprio a fronte di una siffatta criticità la sinistra avrebbe dovuto avvertire l’obbligo di un ripensamento del proprio ruolo, vale a dire un nuovo inizio senza abbandonare il luogo che è stato la sua stessa ragion d’essere, quello delle grandi battaglie sociali, sindacali, popolari.

Così non è stato. Si è voluto concorrere alla gestione del potere nell’ambito del pensiero politico unico. Tra le molte conseguenze negative ce n’è una che tocca la sensibilità morale degli individui, vale a dire l’esigenza imprescindibile di qualcosa che eccede il soddisfacimento dei fondamentali bisogni fisici; un orizzonte comune di senso entro il quale riconoscere valore ad esigenze altrettanto vitali quali la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, il rispetto, la responsabilità, la sicurezza, la verità. In mancanza del quale inevitabilmente le relazioni reciproche s’indeboliscono e cresce in compenso l’attaccamento a falsi bisogni facilmente manipolabili da parte del connubio mercato-politica. In questo sta, mi sembra, la causa che rende più acuta e difficilmente sormontabile una criticità di cui molto si parla, ma della cui gravità non sembra esserci reale consapevolezza, cosa che rende incapace la classe politica di emergere dai traffici di un gioco di potere fine a se stesso.

Ancora una volta l’instabilità sociopolitica e il deterioramento dei quadri di riferimento disegnano l’orizzonte di una criticità i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti, ma che raramente vengono letti nei loro nessi; si preferisce, e non soltanto da parte dei politici, considerarli separatamente e strumentalmente con l’effetto, poco importa se involontario, di creare quel massimo d’instabilità e confusione che favorisce l’emersione di assetti socio-politici non ancora definiti ma certo altri rispetto a quelli per i quali la parola democrazia ha senso. Ecco dunque una situazione storica in cui urgerebbe una forza di carattere e di pensiero in grado di lottare per avere ragione di una congiuntura di minacce alimentata dal disordine delle cose. Vale a dire una capacità di lettura complessiva della realtà a cui consegua una progettualità socio-politica in grado di suscitare energie e ispirare comportamenti costruttivi, come successo in altri passaggi storici decisivi fino a quello del dopoguerra rimasto purtroppo incompiuto.

Che è quanto, sul versante della vita spirituale, sta tentando Bergoglio con piena consapevolezza della drammaticità di una congiuntura che non permette più di tenere distinto lo stato delle cose della religione da quello socio-politico, a tal punto le tendenze del mondo attuale gli appaiono impedienti lo sviluppo dello spirito di fraternità. In questo egli rappresenta un caso oramai raro di figura capace di farsi carico di «mostrare al pubblico cose da lodare, da ammirare, da sperare, da ricercare, da chiedere», che Simone Weil preconizzava come necessarie a riattivare le energie morali e spirituali di popoli precipitati nell’abisso della violenza.

In queste condizioni, il compito politico prioritario dovrebbe essere quello di circoscrivere lo spazio di un ricominciamento e definire i metodi di una costruzione decisamente orientata a proteggere gli individui da tutto ciò che nella vita contemporanea li schiaccia sotto l’ingiustizia, la menzogna e la bruttezza. Si tratta di ricreare luoghi in cui tornare a ordinare i frammenti dispersi del passato e del presente (una vera coscienza storica); in cui ridare forma a un parlare comune, a un linguaggio della relazione (parlare e ascoltare) opposto alla Babele della comunicazione mediatica; in cui maturare un voler fare, un agire che manifesti una nuova maniera di procedere a partire da punti strategici definiti in rapporto alla congiuntura. Vale a dire luoghi (gruppi o reti di associazioni) che pongano le condizioni per informare la vita democratica ad una ragione politica che prenda il posto di quella sfatta, illeggibile in cui siamo immersi.

Non c’è dubbio che nella situazione attuale un siffatto compito può essere assunto solo dalle nuove generazioni, se e nella misura in cui abbiano coscienza della drammaticità del momento e abbiano la volontà di perseguire un nuovo inizio.