Dal Sud si vede l’Italia
L’eredità politica e culturale di Alessandro Leogrande
Marco Gatto

In questi giorni di forte disorientamento politico, escono a distanza ravvicinata due libri che, attraversando l’arco della nostra storia repubblicana, fra loro paiono parlarsi e allestire un dialogo ideale e proficuo. Il primo risponde al nome dell’etnologo più rappresentativo del Novecento italiano, Ernesto de Martino. La «Collana di pensiero radicale» diretta da Goffredo Fofi per e/o, con il titolo di Oltre Eboli. Tre saggi, ripresenta infatti una triade di scritti «apparentemente lontani ma imparentati tra loro […] che […] ci riguardano molto da vicino», come sostiene nell’Introduzione il curatore, Stefano De Matteis. Si tratta di Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, uscito su «Società» nel settembre del 1949, capace di produrre un dibattito di dimensioni notevoli, al quale parteciparono, fra gli altri, Cesare Luporini, Giuseppe Petronio e Franco Fortini; e si tratta delle Note lucane, presentate l’anno dopo sempre su «Società», nelle quali de Martino raccontava il primo incontro con la Ràbata, il quartiere povero di Tricarico, conosciuto attraverso le mediazione di Rocco Scotellaro e di sua madre, Francesca Armento, e formulava in modo assai netto il suo impegno meridionalistico a favore delle plebi oltre Eboli: anche in tal caso, un testo dalla ricezione problematica, che venne poi ripreso, con qualche variazione interessante, in un libro successivo, Furore Simbolo Valore (1962), ma che dovrebbe leggersi assieme ai tanti interventi di taglio breve che l’etnologo in quegli anni pubblica su piccoli e grandi periodici (dal «Calendario del Popolo» a «La Lapa», da «Lucania» a «Il Contemporaneo») svolgendo il tema del “folklore progressivo”, che accompagna il suo ingresso nel Partito comunista italiano, datato 1953; il terzo scritto, Il problema della fine del mondo, è più tardo – risale al 1964 – e riconsegna il de Martino delle apocalissi culturali, ma con un fondamentale rimando alla precedente esperienza meridionalista. Tre testi, insomma, che pongono al centro due temi all’ordine del giorno, di cui tematizzano, se vogliamo, il legame stringente: la condizione degli oppressi e il senso della fine, gli invisibili e la necessità di una difesa dalle catastrofi, la parte di mondo che può curarsi e la parte di mondo senza nome. Il modo in cui intendere questi nessi è tutto politico. Il richiamo a una loro lezione legittima l’idea di pensarli al presente, nonostante il rischio di isolarli da un contesto, da un dibattito, da una visione complessa dei rapporti culturali, che andrebbero considerati in modo specifico.

Il de Martino degli anni Cinquanta sta assorbendo il pensiero di Gramsci ed è convinto che il marxismo possa dare un contributo sostanziale all’allargamento della coscienza umanistica e occidentale. Da Gramsci eredita l’attenzione non paternalistica nei confronti degli oppressi. Le Osservazioni sul folclore, pubblicate da Einaudi nel 1950 in Letteratura e vita nazionale, restituiscono il senso profondo di questo interesse, specie se lette accanto alle riflessioni che il pensatore sardo formula sulla possibile crescita culturale dei subalterni, sul passaggio da un conformista “senso comune” a un’avvertita e coerente consapevolezza critica: le concezioni di vita dei “dimenticati” non sono un frammento astorico irrelato da tutto il resto, non sono un residuo da catalogare come esotismo pittoresco, ma risultano reciprocamente legate alla condizione mai nettamente pervasiva della cultura egemonica; di quest’ultima sono anzi il “limite”, ne certificano l’impossibilità di una totale signoria, così come l’esistenza di una cultura altra e percepita come arcaica rivela la parzialità del sapere borghese e del suo storicismo “ristretto” (come lo chiamò Alberto M. Cirese). Il meridionalismo di de Martino portava alle estreme conseguenze il suo tentativo di allargare i confini storici e teorici della scuola crociana, nella quale si era formato. Il contenuto dell’esclusione era del resto lì davanti agli occhi di de Martino e non occorreva spostarsi di molto. Le “plebi rustiche del Mezzogiorno” segnalavano, al pari di uno scandalo, il deficit di universalismo dell’emancipazione moderna, l’esistenza di una storia che era stata esclusa perché letta con le lenti gerarchizzanti e naturalistiche di un sapere occidentale in tutto e per tutto autocelebrativo.

È questa tensione militante che va rimarcata e che appare come un monito al disimpegno generalizzato dei nostri tempi, al quietismo di cui siamo interpreti di fronte ai conflitti e alle contraddizioni sociali, in pacifico ossequio all’inevitabile filtro mediatico che si frappone fra “noi” spettatori e “loro” osservati. Incontrando gli uomini e le donne del quartiere povero di Tricarico, de Martino aveva constatato non solo la povertà e l’oppressione, ma aveva colto, con mirabile spirito autocritico, il suo problema, «il problema dell’intellettuale piccolo-borghese del Mezzogiorno, con una certa tradizione culturale e una certa “civiltà assorbita nella scuola, […] che si incontrava con questi uomini ed era costretto per ciò stesso a un esame di coscienza, a diventare per così dire l’etnologo di se stesso». Potremmo oggi vedere in questo lavoro autoriflesso una salvifica pratica di decolonizzazione del proprio immaginario o una salutare oggettivazione delle precondizioni categoriali del pensare: resteremmo tuttavia implicati nel problema di una soggettività fortemente indebolita e nello stesso tempo prigioniera di sé; e resteremmo impigliati nelle maglie di una teoria culturale parimenti sfibrata, quando non autoreferenziale. Il punto è che in una prospettiva umanistica allargata, oggi in svendita, il massimo grado di coinvolgimento del soggetto dovrebbe rovesciarsi in consapevolezza politica generalizzata. E costui dovrebbe essere parte di tale movimento dialettico, dovrebbe farsi assorbire da esso: parafrasando Jean Paul-Sartre, chi fa la dialettica, allo stesso tempo la subisce, nel segno di una demistificazione continua del suo astratto assolutismo mentale. Ma l’uso del condizionale è qui una confessione di incapacità.

Terminata la stagione delle lotte contadine e liquidata la questione meridionale, il passo di de Martino potrebbe essere letto come il relitto filosofico di un tempo andato (ed è la sensazione che si prova, del resto, nel leggere con una certa nostalgia le pagine culturali di quegli anni, a fronte dell’odierno e conformistico, talora surreale, “monologo collettivo” – un’espressione ancora valida di Günther Anders – cui assistiamo nel dibattito contemporaneo). Ma quello shock dovuto all’incontro etnografico, che assume il valore di un’interrogazione critica sulla sua postura di umanista, è forse un momento costitutivo di certe coscienze irrequiete. Lo ritrovo, a distanza di decenni, nell’epilogo di un libro di Alessandro Leogrande, La frontiera (Feltrinelli, 2015), il testamento intellettuale del migliore fra i nostri più recenti meridionalisti. Di fronte al male del mondo, alle contraddizioni sociali e alle vecchie e nuove guerre favorite dall’interesse economico, alle vittime della sperequazione permanente del sistema in cui viviamo, di fronte all’oppressione e alla violenza, l’intellettuale – ma l’uso di questa parola, che descrive la degradazione da funzione civile a ruolo amministrato, suona già limitante – si trova nella posizione di Caravaggio nel suo Martirio di San Matteo. Dipingendo se stesso nell’atto di guardare l’incipiente mattanza, l’artista inscena una «riflessione incandescente sulla violenza del mondo, e sul rapporto che instaura con essa chi la osserva». Il suo sguardo, il suo corpo, come nota Leogrande, è interno alla rappresentazione, «manifestamente accanto alle cose, non fuori»: ne è demiurgo, certo, ma l’auto-collocarsi compromissorio sulla scena del delitto coincide con l’ammissione di impotenza. Non potrà «cambiare il corso delle cose»; l’uomo anziano morirà comunque. Scrive dunque Leogrande: «mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufragi, dei viaggi dei migranti e soprattutto della violenza politica o economica che li genera. […] Non appena osserviamo il mondo con gli stessi occhi di Caravaggio, esso si rivela come un universo di violenza ferina. Tuttavia, non è la violenza a sgomentarci. Ma il fatto che, anche quando comprendiamo pienamente le sue leggi, non riusciamo ad arrestarle».

Nel leggere Gli anni dello Straniero. Italia 1998-2017, la raccolta di scritti di Leogrande curata da Nicola Villa per le Edizioni dell’Asino, le parole appena citate trovano un’ulteriore conferma e si collegano a quelle, più lontane nel tempo, di de Martino e di altri intellettuali-politici. Ad emergere è non solo la viva tensione militante dell’autore, il suo profilo mai pacificato di meridionalista alle prese con la complessità del mondo globale, la capacità di volgere l’inchiesta sociale in un affresco della contingenza, la maestria nello stabilire nessi, collegamenti, contrapposizioni, l’intelligenza nel leggere l’intera cultura del nostro tempo come manifestazione di interessi ideologici in conflitto; ad emergere è anzitutto, io credo, la trasparenza del suo agire politico: il non dover giustificare o ribadire la necessità di stare dalla parte dei più deboli – una misura etico-politica conquistata sul campo, a partire dal bisogno di un’esperienza diretta dei conflitti. Dall’osservatorio de «Lo Straniero», di cui Leogrande fu straordinario animatore insieme al già menzionato Fofi, le sue analisi restituiscono le tensioni fondamentali della storia italiana, ma non si fermano alla ricerca dell’oggettività: rimandano sempre al “che fare?”, si pongono il problema dell’azione, individuano una strategia pratica.

Come scrive Villa nelle pagine introduttive, la selezione di questi testi – gli editoriali di un ventennio di attivismo – attraversa un campo eterogeneo di interessi, eppure insiste su quei temi che Leogrande riteneva fondamentali per la comprensione dell’Italia contemporanea. Ne individuerei, per brevità, due, pur facendo torto alla ricchezza del volume. Il primo: il berlusconismo come egemonia culturale, figlio di una malattia italiana che affonda le radici nei primi vagiti della storia repubblicana, in quel continuismo irrisolto della politica (di cui il trasformismo non è certo una mera appendice) incapace di provocare reali fratture, cambi di paradigma e posizioni nette, e invece teso a inglobare, ammorbidire, neutralizzare, attenuare i conflitti: «A uscire vincitore – scrive Leogrande in un articolo del 2013 sull’egemonia berlusconiana – è l’italico rimanere sempre in piedi, impassibile a ogni scossa o sconquasso, capace di mutare le maschere come se nulla fosse, perché tanto non c’è alcun passato e non c’è alcun giudizio storico. Solo un continuo presente, senza tragedia, e in fondo senza politica». Da qui il precoce interesse del tarantino Leogrande per il qualunquismo di Cito e per il fenomeno populistico dei sindaci-leader (ora, in qualche caso, governatori), che va di pari passo con una critica dell’«estremo politicismo» della sinistra e del suo tatticismo esasperato. E da qui una linea di pensiero che si colloca in una tradizione socialista e libertaria (da Carlo Levi a Gaetano Salvemini) a trazione laica, ma in dialogo con le proposte del cattolicesimo sociale, e che però sente, specie nella contingenza politica dei primi anni del nuovo millennio, la necessità di una spinta più radicale e anticapitalistica, verso istanze di rinnovamento che sappiano comprendere e trasformare il conflitto di classe. Ecco dunque il secondo tema: il mondo degli oppressi, dei subalterni. E in tal caso i modelli vanno cercati nel filone dell’inchiesta sociale, di cui Leogrande è stato un maestro. Rocco Scotellaro, Danilo Montaldi, Giovanni Russo, Corrado Stajano: esiste un piccolo canone dell’inchiesta sociale ancora da studiare in modo adeguato e di cui si dovrebbe rilevare la spiccata dimensione letteraria. Leogrande ne è il punto di arrivo.

Si prenda ad esempio lo splendido scritto del 2012 sul nuovo bracciantato, che andrebbe letto accanto a uno dei suoi libri migliori, Uomini e caporali (Mondadori, 2008; poi Feltrinelli, 2016): in poche battute, e senza tinte nostalgiche e meridiane, senza nessun cedimento sentimentalistico (altra sua cifra da evidenziare), Leogrande descrive la trasformazione antropologica, sociale e culturale del Sud contadino e rurale in un nuovo e diverso spazio di conflitti, segnato dall’evolversi di un sistema economico-imprenditoriale di stampo globale non meno violento e oppressivo. «La scomparsa della civiltà contadina per come è stata narrata dal meridionalismo storico – egli scrive – non coincide con la fine della violenza e dello sfruttamento nelle campagne». Nel segno di un nuovo continuismo, l’oppressione permane unendo il vecchio e il nuovo, in una sintesi di temporalità storiche differenti che Leogrande è abile a restituire in parole semplici: «La giornata di un bracciante africano o rumeno di oggi è incredibilmente simile a quella di un bracciante pugliese o siciliano di un secolo fa». E di questa gattopardesca mutazione l’autore non si limita a constatare l’esistenza. Ne offre invece una storia. Segnala l’emergere, dopo la sconfitta della riforma agraria e l’emigrazione della forza-lavoro meridionale al Nord, di un «revanscismo individuale» in virtù del quale i braccianti di ieri, «che per tutta una vita non hanno sognato altro che diventare come i loro padroni», si sono convertiti all’idea neo-egoistica di «un sistema di impresa», ideologicamente gestito dalle organizzazioni di categoria, «che sfrutta sovente altre braccia e altri corpi: quelle e quelli dei nuovi braccianti stranieri che hanno popolato le nostre compagne, cambiando la loro struttura». I nuovi braccianti non sono gli italiani che Levi dipinse nelle mirabili pagine del Cristo. Vengono da altre latitudini. Per un apparente paradosso – oppressi dagli eredi di una storica oppressione –, essi rappresentano il contraltare sociale (e globalizzato) di quel bracciantato (locale) in movimento che già nei primi anni Cinquanta, come aveva mostrato Scotellaro nei ritratti di Contadini del Sud, andava definendosi verso altre direzioni, più torbide, meno scontate, certo lontane dalla rivoluzione rurale, socialista ed egualitaria da alcuni sognata. Mulieri, il contadino-simbolo di quella mutazione in atto, rivive in queste contraddizioni, che, come dice Leogrande, descrivono sia la conversione contadina a un mercato eterodiretto, sia l’esistenza di un «sotto-mondo impermeabile» fatto di sfruttamento, di reclusione persino concentrazionaria, di condizioni aberranti, di «dominio dell’uomo sull’uomo». Da una parte il bracciantato straniero, i nuovi oppressi; dall’altro, «un sistema agricolo spesso pulviscolare, a sua volta asfissiato dalle logiche dell’agro-industria e dalle aziende di trasformazione», e spesso incensato da improbabili campagne mediatiche e buoniste. Da che parte stare? «[…] sto (ho deciso di stare) – scrive Leogrande – dalla parte dei nuovi braccianti. E dirò di più. Sono anche convinto che le logiche dell’agro-industria possano essere ribaltate da una nuova alleanza tra braccianti e contadini poveri […], ma a patto che la variabile indipendente di questa nuova alleanza siano i braccianti, non i contadini», ovvero gli oppressi e non coloro che partecipano del sistema, e a patto «si parli di lotta strutturale al caporalato, alla schiavitù, al lavoro nero prima che di resistenza contadina, diversificazione colturale, creazione di nuove filiere».

Al pari di tanti scrittori di inchiesta Leogrande era capace di stare nelle cose. La sua cifra distintiva risiedeva però nella sintesi di conoscenza e stile. Negli editoriali de «Lo Straniero», specie in quelli degli ultimi anni, questa specificità trovava forse una sua forma compiuta. Leggere Leogrande nell’Italia degli anni Dieci del Duemila significava trovare un orientamento. Significava inoltre praticare una benefica distanza da un consolidato narcisismo giornalistico e dalla statutaria nebulosità dei grilli parlanti, irriducibilmente legati alla propria posa. Per questo, nel ricordarlo e nello studiarne la produzione, l’epiteto novecentesco di “intellettuale militante” trova ancora una sua forza, non per ossequio alla biografia, alle opere e ai giorni, ma perché quei due termini, esito di una storia da riattraversare costantemente, in Leogrande accedono a una costante verifica di senso. Ugualmente, per sottrazione dalla norma, il suo meridionalismo, lontano dagli inganni dell’autonomismo, lontano dalla «valorizzazione di un pensiero del tutto proprio» (come egli scrive, giovanissimo, sul finire del secolo scorso), distante dal culto del particolare e dalle spinte pre-politiche dell’identitarismo culturale, ristabilisce l’idea che la questione meridionale sia una questione nazionale, internazionale e globale. In tempi di populismo aggressivo, di neoborbonismo, di piccoli e nuovi capi carismatici, di affievolimento della sinistra e del pensiero critico, è bene ribadire questo insegnamento, che fu già di Gramsci. Per questo, e per molto altro, è bene leggere e rileggere, come scrive Fofi nel suo ricordo, le pagine «del compagno Alessandro».