Per un destinatario
Su La locanda cinese II, ovvero come finisce l’Ospite ingrato*
Sabatino Peluso

L’ospite ingrato. Primo e secondo1 si chiude con un breve testo in prosa dal titolo La locanda cinese II.2 È preceduto da una poesia (Dopo il temporale, OI2, p. 233), sorta di intermezzo che lo separa da un altro testo in prosa: La locanda cinese I. Entrambi i frammenti erano già stati pubblicati sul «Messaggero»3 nel 1981, e vengono poi divisi e ripubblicati da Fortini con alcune modifiche e tagli. A una prima lettura, ciò pare indicare la stessa parziale autonomia dei singoli testi che possiamo attribuire a ogni testo dell’opera; vi è però un senso unitario che non sfugge, sia per via dei titoli, sia per un legame tematico abbastanza evidente – e che il testo originale consente di ricostruire appieno.4

Ci troviamo nella coda del volume, e forse vale la pena osservare che l’atmosfera che Fortini costruisce in queste ultime pagine del libro è ben più grave e accorata rispetto ad altre parti dell’opera – che alterna infatti una varietà di toni: dall’ironico al satirico, e via dicendo. Assieme alla poesia citata poco sopra, infatti, ritengo che anche la lunga poesia dal titolo La realtà (OI2, pp. 230-231) sia da considerare in linea con questa direzione; e una lettura di quei versi non può che confermare tale osservazione. Ne è intanto utile prova il finale del testo: «Parli al plurale solo per ammonire / i figli a non inciampare nei gradini. Tutto è / tremendo ma non ancora irrimediabile».

È insomma soltanto partendo da questi presupposti che credo possibile cogliere il senso e la direzione di un finale come quello dell’Ospite ingrato. Quel qualcosa di «tremendo ma non ancora irrimediabile», a cui allude l’autore poco prima, prende infatti forma in maniera veramente esplicita con l’incipit di La locanda cinese II. E, vista la brevità del frammento, e per evitare continue ma necessarie citazioni che spezzerebbero il discorso, trascrivo qui l’intero brano per consentire una migliore comprensione del commento che seguirà. I corsivi presenti sono del testo.

Quando l’oppressione si pianifica per diecimila anni, o anche solo per cento e tutti i pubblici maestri si affannano a spiegare che negli ultimi secoli tutti i tentativi di scuotere l’oppressione non hanno fatto che rafforzarla, si può perfettamente vivere «come se», chiamare questa vita «condizione umana», pensare che l’innocenza, la modestia, l’allegria, la benevolenza possano fiorire sotto qualsiasi tirannia, politica o sociale. Ed è verissimo. Mi hanno detto che, non so dove, Puškin parla della «libertà segreta» di cui avrebbe goduto il contadino russo, una libertà inattingibile al potere. Gli oppressori si sono sempre consolati così: è verissimo che ci sono tesori che la ruggine non consuma, amori insensibili ai lager, gioie artistiche che nulla può contaminare, virtù sconosciute che consolano i deserti col loro profumo, celle e torture invisibili, scapolari di poesia…

Che altri, come me, rifiutando la libertà segreta, porti il lutto per la occlusione o la rovina di una via comune, è, se non giusto, almeno comprensibile; almeno (spero) perdonabile. La fedeltà è una virtù, certo; a condizione di sapere che il mondo non procede secondo virtù e che la virtù non avrà premio, né in terra né in cielo. E allora, se saremo attenti e curiosi, possibilisti, pronti a contraddirci, inflessibili solo con noi stessi e non con gli altri, potrà darsi non un premio, ma un caso benevolo. Col loro catalogo di nostre inadempienze, di occasioni mancate e di imprecisioni, agli anni polverosi che stiamo vivendo può accadere quel che si augura l’autore di una memorabile poesia cinese scritta sul muro della locanda: che un giorno un colto viaggiatore degni di togliere la polvere con la sua manica di seta e riceva il messaggio. (OI2, p. 234)

Si tratta di un frammento densissimo sia sul piano intertestuale, sia per i rimandi e le micro-citazioni in esso contenute che per il livello di compressione del piano storico e teorico considerato da Fortini. Un testo stratificato, si potrebbe dire, e per certi versi cifrato; e questo sin dalle prime parole dell’incipit.5 Ma si tratta di elementi tipici della scrittura di Fortini, che consentono di cogliere subito tanto l’assertività formale del discorso, quanto lo spessore e la complessità del messaggio.

A un primo livello, è chiaro che a Fortini interessa, come ha osservato più volte Luca Lenzini, proporsi al lettore (anche a quello solo di passaggio) come «pietra d’inciampo»;6 urtare, scuotere, provocare il ragionamento spingendolo ad osservare le contraddizioni. Ma, a un secondo livello, a questo è richiesto poi un approccio critico alla lettera; e ciò può realizzarsi se si scende rasoterra sulla pagina, risalendo ai riferimenti cifrati e, da questi, al piano teorico-critico del discorso di Fortini.

Sul piano dei rimandi intertestuali, colpisce innanzitutto l’immagine della «libertà segreta»7 di cui discorre nel primo capoverso. Fortini non sa (o non vuole) dire con precisione da dove l’ha tratta. Seguendo una serie di indizi, è probabile che Fortini – che attribuisce la formula a Puškin – alluda a quella condizione «che egli [il poeta russo] aveva celebrata già nel 1819 nella poesia Risposta alla richiesta di scriver versi in onore della sovrana imperatrice Elizaveta Alekséevna».8 Senza però la certezza che Fortini abbia letto quest’opera del poeta moscovita, è difficile affermarlo in maniera definitiva. Vista però la familiarità di Fortini con l’opera di un altro autore russo come Aleksandr Blok, è probabile che questa sia una citazione di “seconda mano”. Infatti, sono due i luoghi della sua opera che vale la pena prendere in considerazione. Il primo è una quartina che Blok dedica a Puškin: «Puškin, la libertà segreta / abbiamo cantato sulle tue orme! / Dacci la mano nel temporale, / aiutaci nella lotta muta!».9 Ma oltre a questi versi – che colpiscono per l’affinità sul piano tematico con il ragionamento al centro del testo di Fortini – vale la pena ripercorrere anche il discorso pronunciato sempre da Blok in occasione dell’ottantaquattresimo anniversario della morte di Puškin; di cui cito alcuni passaggi:

È arrivato il momento del terzo compito del poeta: portare nel mondo i suoni accolti nell’anima e ricondotti nell’armonia. A questo punto avviene il famoso conflitto tra poeta e plebe […].

Per plebe Puškin intendeva pressappoco ciò che intendiamo noi. Egli spesso accostava a tale sostantivo l’epiteto «mondana», dando un nome collettivo a quella nobiltà ereditiera di corte, cui nulla rimaneva nell’anima all’infuori dei titoli nobiliari; ma già sotto gli occhi di Puškin la burocrazia andava prendendo rapidamente il posto della nobiltà ereditaria. La nostra plebe è costituita appunto da funzionari; la plebe di ieri e di oggi; non aristocrazia e non popolo; non bestie, non zolle di terra, non brandelli di nebbia […].

La plebe, come del resto tutti gli altri ceti, progredisce lentissimamente. Così, ad esempio, benché negli ultimi secoli il cervello umano si sia ingrossato a detrimento di tutte le altre funzioni dell’organismo, gli uomini hanno saputo far emergere dallo Stato soltanto un unico organo, la censura, per la salvaguardia dell’ordine del loro mondo, organizzato nelle forme statali. In tal modo hanno messo un ostacolo sulla terza via del poeta, quella dell’introduzione dell’armonia nel mondo […].

L’opera del poeta, come abbiamo visto, è tuttavia incommensurabile con l’ordine del mondo esterno. I compiti del poeta, come si usa dire da noi, sono di cultura generale; la sua è un’opera storica. Il poeta ha dunque il diritto di ripetere insieme a Puškin:

E non mi cale se liberamente
la stampa disorienta i cretini
o vigile e pronta la censura
ostacola cronisti intraprendenti.

Così dicendo, Puškin affermava il diritto della plebe di istituire la censura, poiché riteneva che il numero dei cretini non sarebbe diminuito.

Non è affatto compito del poeta farsi sentire da tutti i cretini; piuttosto, l’armonia da lui conquistata li selezionerà, allo scopo di estrarre dall’ammasso di scorie umane qualcosa di più interessante della media. Prima o poi la vera armonia raggiungerà questo fine; nessuna censura al mondo potrà ostacolare quest’opera fondamentale della poesia.

Non vogliamo discutere oggi, nel giorno dedicato alla memoria di Puškin, se questi abbia avuto ragione o torto nel separare la libertà che noi chiamiamo personale da quella che chiamiamo politica. Sappiamo che egli esigeva una libertà «diversa», «segreta». Per noi questa libertà è la libertà «personale»; ma per il poeta non è soltanto questo:

…Non rendere ragione a nessuno;
servire te, te solo compiacere;
dinanzi al potere, alla divisa
il collo, i pensieri non piegare;
errare qua e là a piacer tuo,
della beltà divina ammirato
della natura e dell’opera d’arte,
commuoversi, sentirsi inebriato:
felicità suprema! Tuo diritto…

Questo disse prima di morire. Nella sua giovinezza Puškin aveva detto la stessa cosa:

Amore e segreta libertà
al cuore dettano un inno schietto.10

A quale tipo di libertà stia alludendo Fortini era forse già abbastanza evidente dal passo stesso di La locanda cinese II. Ma ciò che mi interessa mettere in luce è il peso della scelta lessicale e di senso compiuta, poiché è da scelte come queste che è possibile intendere la stratificazione del discorso portato avanti. La problematicità degli assunti di fondo che Fortini porta con sé a partire da qui, in linea con la sua prospettiva, fa comprendere quanto egli attinga per le sue analisi da un bagaglio di riferimenti e da una “biblioteca interiore” che non fa che attivare cortocircuiti di senso, chiaramente prolifici per caricare in maniera ancor più decisiva (in senso etico, politico e anche letterario) le immagini e il messaggio di fondo.

È necessario ora soffermarci sulla seconda potente immagine con cui si conclude La locanda cinese II. Diciamo subito che l’antica poesia cinese che Fortini cita è la poesia Il poema sul muro, di Po Chü-i (anche noto come Bay Juri, 772-846), versi che risalgono all’antica dinastia Tang. Ciò che è certo, è che Fortini aveva letto questa poesia nella raccolta Liriche cinesi (1753 a.C. – 1278 d.C.), a cura di Giorgia Valensin e aperta da una prefazione di Eugenio Montale.11 Proprio nella prefazione al volume, Montale presentava l’autore cinese citando questi versi. E vale la pena citarli per intero, riproducendo anche parte dell’introduzione di Montale:

Po Chü-i, vissuto dal 772 all’846 d.C., è il Goethe del mondo sinico, e probabilmente di tutto il mondo orientale. È anche, quando si trastulla coi bambini, quel savio che Hugo, stanco di suonar la tromba, tentò di diventare nell’Art d’être grand-pére. Poeta fecondo, vasto e familiare, possedette tutte le corde possibili a un uomo del suo tempo e del suo emisfero. Ciò che Giorgia Valensin ci dice intorno ai suoi scrupoli di feng e di ya (il doppio intento, satirico e normativo, ch’egli ritenne essenziale alla poesia) non lo isola affatto, per un lettore europeo d’oggi, dalla comune dei poeti cinesi. Fu anch’egli (e la sua novità sarà stata di esserlo in misura e proporzioni fino allora nuove) un formidabile «amico» e un uomo più che umano nella inestinguibile passione del suo canto. La poesia e l’amicizia sono le forze ispiratrici di questo illuminato che ha conosciuto il favore e il disfavore dei potenti, senza legarsi mai a nessun bene di quaggiù. Cantava per tutti, lontano da ogni arte d’iniziazione o mandarinismo poetico; e pur vedetelo quando Yuan Chen scopre la poesia da lui scritta sul muro di una locanda!

Il mio goffo poema sul muro della locanda
Nessuno finora s’era curato di leggere.
Muschio e tracce d’uccelli ne avean cancellato i caratteri.
Poi giunse un avventore dal cuore così traboccante,
Che, benché fosse Paggio al trono dell’Imperatore,
Si degnò con un lembo del suo ricamato mantello
Di spazzar via la polvere e di leggere.12

Montale subito dopo chioserà: «(L’opera è giunta a destinazione, ha trovato finalmente il suo lettore)». Ed è questo un dettaglio che non è certo sfuggito all’autore dell’Ospite ingrato.

Andando verso la conclusione, possiamo dire che l’immagine delle parole coperte dalla polvere, incise ora nella pagina di Fortini – anche per il modo in cui vi arriva – sta a indicare la possibilità di realizzazione di un passamano lungo millenni. Negli anni in cui Fortini scrive la possibilità di una «via comune», diversa da quella che propone il Capitale per la società, è ormai tramontata; e, con essa, la possibilità di costruire – gramscianamente – un nuovo senso comune. Dall’interno di questo paesaggio, quello dell’oppressione, insomma, a cui allude Fortini all’inizio del frammento, esiste però la possibilità di comprendere che il lavoro da compiere sia quello di lasciare tracce per un destinatario.

È infine interessante tornare brevemente al frammento appena precedente, La locanda cinese I (p. 232), di cui si accennava all’inizio. Fortini qui racconta di un suo viaggio a Mosca avvenuto nel 1955. Interno dell’Hotel Metropol:

Cosciente di quel che, con la storia del comunismo internazionale, era passato per quelle stanze, non so bene perché mi misi a sfilare uno dopo l’altro i cassetti di un vecchio pesante tavolo bureau […] All’interno di uno di quei cassetti, proprio in fondo, quasi invisibile fuori che all’angelo custode, lessi, scritto a matita: «Nicolas Guillén, Nochebuena 1954».

Il cubano era dunque stato in quella stanza la notte di Natale dell’anno prima. Facile immaginare quale disperazione o speranza avessero potuto spingerlo a quel gesto, a quella firma nascosta. Aggiunsi il mio nome e la data, richiusi il cassetto.

Esiste dunque un nesso, che a questo punto possiamo cogliere meglio, tra la firma nascosta del poeta cubano «di amare strofe popolaresche e politiche contro l’oppressione yankee del suo paese», quella di Fortini, e infine la poesia sul muro della locanda. E si attiva quando si mettono in collegamento i livelli che Fortini ci fa attraversare ritornando sul suo testo. In un momento in cui gli intellettuali perdono definitivamente il «mandato sociale» e la cultura – anche quella che si ritiene di opposizione – si trasforma in intrattenimento o si rende interamente strumentale al sistema che tenta di abolire, Fortini prova a portare avanti, anche nella contraddizione, una funzione di servizio da una posizione di frontiera;13 di indicare una serie di rovine, di macerie della storia, tra le quali troviamo anche le sue opere.14 E vale la pena ricordare che solo cinque anni dopo Fortini pubblicherà un libro sul «buon uso delle rovine»: Extrema ratio.15

C’è, e si avverte, un certo senso di sconforto nel tono con cui parla del presente e di chi dovrà a un certo punto fare i conti con questa storia e le sue macerie. Ma non un passo indietro sul piano della prassi intellettuale e politica, ricorrendo anche – specialmente attraverso L’ospite ingrato – a quel lavoro di «talpa» che consente la letteratura. La prospettiva, si diceva poco sopra, è quella di lasciare segni leggibili, anche se questi potranno apparire sempre più come fossili appartenenti a ere lontane; ma, per questo stesso motivo, anche come testimonianza di una forma di azione che l’oppressione non può del tutto nascondere sotto i detriti della Storia.

Note

* Il testo che segue è il primo di una serie di appunti, concepiti come anticipazione del lavoro di cura del libro di Franco Fortini, L’ospite ingrato. Primo e secondo, edito prossimamente dalla casa editrice Quodlibet. Vi propongo alcuni risultati e commenti, frutto di un lavoro di ricerca compiuto negli ultimi anni: una parte di questi saranno inclusi nella nuova edizione del libro di Fortini – fornendo così al lettore d’oggi un’agile guida ai testi –, mentre un’altra e più corposa parte andrà a comporre un lavoro di carattere più unitario, che ha lo scopo di approfondire alcuni temi al centro dei quasi duecento componimenti, tra epigrammi e frammenti dell’Ospite. Approssimandomi alla scelta del testo o questione del libro da cui partire, ho scelto la fine. I motivi sono molteplici, ma per ora mi preme accennare soltanto che ciò vuole rappresentare il tentativo di offrire innanzitutto al lettore un qualche sense of an ending, un senso alla fine. Partire dal fondo consente inoltre di tentare una parziale sintesi, che potrò anche via via rivedere. Come in quei lavori che ci paiono interminabili per aderenza alla funzione di servizio a cui ci dedichiamo – o per l’ambizione alla totalità di una visione da restituire – ho imparato che a volte è bene arrendersi e provare ad offrire soltanto qualche dato, spero proficuo per future letture, anche mie. Piccola consolazione davanti alla complessità del compito che si ha davanti. Ringrazio «L’ospite ingrato», rivista che prende il nome da questo stesso libro di Fortini, per aver accolto queste pagine. E, tra i nomi di tanti vicini e distanti, non posso non ringraziare chi ha seguito il mio lavoro su questo e altro materiale fortiniano di volta in volta; per questo faccio il nome di Luca Lenzini, a cui va la mia profonda gratitudine.

1 F. Fortini, L’ospite ingrato. Primo e secondo, Casale Monferrato, Marietti, 1985, d’ora in avanti OI2. Il libro include, con alcune rilevanti modifiche, una prima parte già edita (è la sezione dal titolo L’ospite ingrato primo), pubblicata in F. Fortini, L’ospite ingrato. Testi e note per versi ironici, Bari, De Donato, 1966; a questa segue la sezione dal titolo L’ospite ingrato secondo, che raccoglie epigrammi e frammenti che appartengono al periodo che va dal 1966 al 1985. Successivamente raccolto in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, pp. 856-1127, arricchito da una sezione di note a cura di E. Nencini. Tutti i riferimenti alle citazioni che si trovano all’interno del saggio sono tratte dall’edizione Marietti 1985, indicati con il numero di pagina tra parentesi tonde. Quando in nota, invece, sono abbreviati con la sigla OI2, seguiti dal numero di pagina.

2 Per permettere di seguire meglio il mio discorso, citerò i titoli dei testi dell’Ospite ingrato a cui faccio riferimento tagliando la numerazione e i segni tipografici presenti nell’opera, che hanno funzione principalmente di servizio. Ad esempio, il titolo originale del frammento è 184. [La locanda cinese, II].

3 F. Fortini, Alle firme segrete, in «Il Messaggero», 30 giugno 1981, p. 3. Il ritaglio dell’articolo – fotocopia conservata nell’Archivio Franco Fortini dell’Università di Siena (da ora in poi indicato con la sigla AFF) – presenta alcuni segni manoscritti degli interventi apportati da Fortini durante la fase preparatoria dell’Ospite.

4 L’articolo da cui sono tratti questi due frammenti dell’Ospite è un testo di tono autobiografico-saggistico che, partendo da una divagazione sulla situazione culturale dei teatri italiani e sulla fruizione del pubblico, propone un ampio discorso sul tema dell’oppressione sociale. Va innanzitutto osservato che i due frammenti che confluiscono nell’Ospite vengono invertiti nell’ordine rispetto a come erano stati scritti a monte. Dalla prima parte dell’articolo, quella che dunque precede quella che confluirà in La locanda cinese II, era stato tagliato l’incipit, che vale la pena riportare per intero: «Leggo che a Roma si può scegliere su oltre quaranta spettacoli teatrali ogni sera. Non vado quasi mai a teatro. La gente della mia età ha perduto l’appuntamento col teatro, dopo averne per vent’anni lamentata l’assenza o la monotonia. Fossero anche poche decine di persone gli assistenti a quelli spettacoli, essi sono un pubblico. Sono una società che di fatto accetta i propri fondamenti pubblici. La barbarie quotidiana non lede la vitalità anzi la fortifica. | Il teatro, si sa, è causa ed effetto di vitalità. La partecipazione teatrale prova che la gente può vivere una verità all’interno di una menzogna ossia una coesione, una implicazione, una comunanza di linguaggio all’interno della alienazione politica, della espropriazione culturale e della manipolazione delle coscienze. Non solo bisogna smentire il proverbio, secondo il quale il teatro non potrebbe vivere in regime di oppressione; ma bisogna dire anzi che un regime di oppressione, purché sufficientemente esteso e crudele, può perfettamente favorire, oltre a tutte le altre arti, anche il teatro. E non nel senso della evasione. Anzi, il teatro, come la letteratura, può oggi portare le più aguzze, le più spietate e feroci critiche allo stato di cose esistente senza che i gestori di quest’ultimo, se appena siano un poco intelligenti, se ne debbano risentire» (F. Fortini, Alle firme segrete cit.).

5 Già il motivo dei «diecimila anni» è un rimando alla poesia di Bertolt Brecht, Lode della dialettica: «L’ingiustizia oggi cammina con passo sicuro. / Gli oppressori si fondano su diecimila anni. / La violenza garantisce: com’è, così resterà», poesia peraltro tradotta da Fortini e inclusa in B. Brecht, Poesie e canzoni, a cura di R. Leiser e F. Fortini, Torino, Einaudi, 1959, p. 127. Su questo punto, si veda anche il passo finale del saggio di Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, in Id., Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Il Saggiatore, 1965, ora in F. Fortini, Saggi ed epigrammi cit., p. 163.

6 Su questo punto, si veda il saggio di L. Lenzini, Le parole della promessa, in F. Fortini, Saggi ed epigrammi cit., pp. XXXi-LXXII.

7 Fortini aveva precedentemente utilizzato questa formula, sempre attribuendola a Puškin, nel saggio Ivan Denissovic e la «libertà segreta». Alcune ipotesi, in «quaderni piacentini», II, 12, settembre-ottobre 1963, pp. 27-30, poi in Del disprezzo per Solženicyn, in Id., Questioni di frontiera. Scritti di politica e di letteratura 1965-1977, Torino, Einaudi, 1977, pp. 155-159.

8 Lo suggerisce E. Lo Gatto nel suo Puskin. Storia di un poeta e del suo eroe, Milano, Mursia, 1960, p. 321.

9 I versi sono tratti dalla versione contenuta nell’articolo di G. Herling, Naghibin e Tendriakov, in «Tempo presente», VI, 6, giugno 1961, p. 464.

10 Tratto da A. Blok, La missione del poeta, in Id., L’intelligencija e la rivoluzione, Milano, Adelphi, 1978, pp. 151-162.

11 Po Chü-i, Il poema sul muro, in Liriche cinesi (1753 a.C. – 1278 d.C.), a cura di G. Valensin, pref. di E. Montale, Torino, Einaudi, 1943, poi ed. Einaudi 1962, p. 160. Per un approfondimento sull’autore dei versi, si rimanda alla presentazione della curatrice del volume, alle pp. 145-146 dell’edizione citata.

12 Ivi, pp. XII-XIII.

13 Fondamentale ricordare che i suoi più significativi interventi politico-culturali di questo periodo (parte dei quali confluiscono nello stesso Ospite ingrato), in cui Fortini si rivolge a un pubblico ampissimo, sono quelli che nascono dalla collaborazione al «Corriere della Sera», attraverso una rubrica dal titolo, appunto, «Questioni di frontiera», come il suo libro del 1977, citato sopra.

14 Diciamo, seppur sinteticamente, che parte centrale delle rovine a cui si fa riferimento è la tradizione del marxismo di matrice dialettica e materialistica, nella quale l’opera di Fortini si inscrive. Gli anni in cui egli scrive – e che fanno da sfondo specialmente a tutto L’ospite ingrato – vedono l’affermarsi dell’egemonia culturale del paradigma teorico della differenza; ultimo significativo tentativo di contrastare quella stabilizzazione dell’ideologia neoliberale che, proprio in quegli stessi anni, sarà ormai definitiva. Oltre a Fortini, che era stato tra i principali intellettuali italiani attenti a denunciare i pericoli di tale svolta, molti sono i protagonisti del dibattito sulla crisi del marxismo e sulle strumentalizzazioni della cultura di sinistra da parte dei processi di assorbimento del Capitale. Si tratta di un dibattito molto ampio e di portata internazionale. Per quanto riguarda la situazione italiana, mi permetto intanto – anche per motivi di spazio – di rimandare ai saggi di Roberto Finelli, e in particolar modo quelli più recenti, contenuti in R. Finelli, Per un nuovo materialismo. Presupposti antropologici ed etico-politici, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018.

15 F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990.