Paolo Nori,
Sanguina ancora
Giovanni Maccari

Paolo Nori, Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij, Milano, Mondadori, 2021.

L’incredibile vita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij è il sottotitolo parlante dell’ultimo romanzo di Paolo Nori, Sanguina ancora, dedicato al grande scrittore russo nell’anno in cui si è celebrato il bicentenario della nascita, avvenuta a Mosca nel 1821. Il titolo offre la chiave tematica del testo, originata in parte da un’immagine di Vasilij Rozanov, che descrive Dostoevskij «come un arciere nel deserto con una faretra piena di frecce che, se ti colpiscono, esce il sangue» (p. 9). Alla domanda formulata in apertura: «Che senso ha oggi, nel 2021, leggere Dostoevskij?», Nori risponde infatti che si tratta di un autore capace di aprire ferite che non rimarginano facilmente, ossia di incidere in profondità nella vita, modificare le abitudini e gli atteggiamenti di chi viene raggiunto da uno dei suoi dardi. Questa capacità, che presuppone una forma di autolesionismo, una sorta di piacere della disperazione in chi si espone di proposito a una simile esperienza, è del resto comune a gran parte della letteratura russa, ai romanzi di Tolstoj e alle poesie di Chlebnikov, all’Onegin di Puškin, ai racconti di Čechov, alle liriche di Achmatova ecc. Il rapporto con la vita nel suo aspetto più arruffato, disarmato e verrebbe da dire creaturale è in effetti il carattere che distingue il letterato russo dai suoi colleghi europei: per ragioni politiche, storiche, sociali, per le forme del potere e per gli eventi drammatici che hanno coinvolto quella straordinaria civiltà letteraria, più un ingrediente indefinibile che si potrebbe chiamare inconciliabilità, per cui tutti o quasi tutti gli scrittori che contano in Russia hanno finito per essere in una qualche misura “maledetti”. Dostoevskij è un esponente emblematico di questa situazione: non soltanto i suoi romanzi presentano dilemmi irrimediabili, mettono in dubbio la realtà e tutti i valori, pongono le domande che la gente comune non osa pronunciare, ma la sua biografia è un groviglio di fatti faticosi, difficili, di avventure e catastrofi in cui il tragico si mescola al grottesco e gli slanci ideali s’impastano con le miserie della vita quotidiana.

Arrivato a Pietroburgo nel 1837 per studiare alla scuola di ingegneria militare, conduce la vita del raznočinez, dell’intellettuale proletario, fino a quando il suo primo romanzo, Povera gente (1846), ottiene un successo clamoroso e gli procura una fama improvvisa presso il circolo di Vissarion Belinskij, il critico più influente del tempo, che lo addita come «il nuovo Gogol’». Sembrerebbe l’inizio di una brillante carriera ma qualcosa va storto: il secondo romanzo, uscito nello stesso anno (Il sosia) non incontra altrettanto favore e Dostoevskij, come scrive Nabokov, «si comporta da stupido» a causa del suo orgoglio smodato e si aliena i favori della società letteraria. Nel frattempo frequenta il gruppo clandestino di Michajl Petraševskij, che propugna idee proibite e a quanto sembra progetta la rivoluzione. Arrestato insieme agli altri membri nel 1849, Fëdor Michajlovič conosce la terribile esperienza della condanna a morte commutata in extremis, quando i primi compagni sono già incappucciati e posti davanti al plotone di esecuzione, in quattro anni di lavori forzati e dieci anni di confino in Siberia. L’episodio segna uno spartiacque e taglia in due l’esistenza e la produzione letteraria dell’autore. «Quella testa che creava» scrive al fratello «che viveva la vita superiore dell’arte, che era consapevole e abituata alle nobili necessità dell’anima, quella testa è già stata tagliata dalle mie spalle» (p. 124). Allo scrittore di «romanzi qualsiasi» che Dostoevskij stava diventando prima dell’arresto subentra «un signore senza testa» i cui libri «non sono più (solo) testimonianze letterarie» (p. 130). Nasce insomma il “vero” Dostoevskij, l’inventore dell’uomo del sottosuolo, lo strepitoso narratore di Delitto e castigo (1866), L’idiota (1869) I demoni (1871), I fratelli Karamazov (1880), illustrati da Bachtin secondo la teoria della «plurivocità», dove ciascun personaggio è il soggetto della propria parola e non l’oggetto della parola dell’autore. Innovatore nella forma, conturbante e profetico nelle formulazioni, capace di descrivere con pari intensità la depravazione più sordida e la più angelica innocenza, Dostoevskij diventa a poco a poco il gigante che è nella considerazione dei posteri. Ma la sua vita non smette tanto presto di essere contrastata, con un primo matrimonio infelice (con Marija Isaeva, morta nel 1864), i problemi economici, i debiti, il vizio del gioco, i contratti capestro con editori spietati, che lo costringono a lavorare a ritmi impossibili. Nel 1866, per consegnare in tempo Il giocatore, assume una stenografa di vent’anni, Anna Grigor’evna Snitkina, che diverrà la sua seconda moglie e riuscirà a prezzo di sforzi sovrumani a mettere un po’ di ordine nella sua vita, a dargli qualche anno di felicità familiare.

Tutte queste vicende (e molte altre) costituiscono il “girato” del libro di Nori e vengono sottoposte a pratiche di montaggio che rimandano alla scuola formalista, con un impiego sistematico della dislocazione e dello straniamento. Se come dice Šklovskij l’arte consiste nel procedimento, e il suo compito nel rendere, attraverso di esso, «visibile il visibile», ovvero ciò che abbiamo davanti tutti i giorni, il romanzo di Nori è un tentativo di rendere visibile Dostoevskij, anche a quella «stragrande maggioranza della popolazione» che non è laureata in letteratura russa (p. 57). Secondo la tesi per cui «la verità» contenuta nei suoi grandi romanzi «è alla portata di tutti», dato che non consiste (detto semplificando) nel loro contenuto intellettuale ma in un gesto più semplice e specifico dell’arte narrativa. Dostoevskij cioè, come ogni grande artista: «Ha preso l’imballaggio che avvolge le nostre giornate, i nostri gesti quotidiani, e ha tolto le nostre giornate, i nostri gesti quotidiani, dall’imballaggio che li avvolgeva, e noi, adesso, li vediamo» (p. 131).