Per Lukács
Marco Gatto

Si è da poco chiuso un anno lukacsiano. Il cinquantesimo anniversario della morte ha visto sorgere, anche nel nostro paese, più di un’iniziativa di commemorazione (convegni, seminari, libri). Simili ricorrenze si portano dietro sempre un sentimento di nostalgia. Nel caso del più grande critico letterario marxista del Novecento, si aggiungono il disappunto di vederlo spesso ridotto a figura vetusta di un secolo ormai lontano e l’amarezza per l’oblio a cui è destinato anzitutto nella “sua” Ungheria.

Aveva probabilmente ragione un sibillino Cesare Cases, che nel 1985 (a cento anni dalla nascita dell’autore di Teoria del romanzo), introducendo le pagine di Su Lukács. Vicende di un’interpretazione, confessava:

Ha luogo oggi un processo esattamente inverso a quella «appropriazione dell’eredità» di cui parlava Lukács (qui del resto in armonia con l’ufficialità socialista). Non c’è nessuna eredità, tutto è morto ma si disseppellisce periodicamente e si rianima con una trasfusione di sangue (sintetico, naturalmente) perché l’umanità abbia uno spettacolo in più, attinto a un passato che aveva di meglio da offrire. Forse nel 2018 si realizzerà il comunismo per festeggiare il secondo centenario della nascita di Marx, ma durerà un anno solo perché poi ricorrerà quello di qualche reazionario. Così temo che dopo una ventina di congressi e una cinquantina di pubblicazioni si tornerà a non parlare più di Lukács.1

Difficile dargli torto, in un’era in cui i presunti filosofi “radicali” rifanno valere, senza esplicitarla, ma in forme ovviamente libertarie, e in una coesistenza che non è più contraddizione, né paradosso, l’origine heideggeriana del proprio credo (per tacere di altri gerghi dell’autenticità, che riaffiorano inevitabilmente in tempo di crisi). Difficile non essere d’accordo, aggiungendo che l’attuale mercato editoriale ha destinato all’oblio una cospicua parte dei testi di Lukács, alcuni dei quali ormai introvabili.

Mi limito pertanto a segnalare tre contributi – ma è solo un campione – usciti nel ristretto fazzoletto di tempo del biennio 2020-2021, con l’auspicio essi tengano viva l’attenzione su Lukács al di là della mera occasione commemorativa. Hanno difatti il merito di ripresentare – in un momento in cui le ricostruzioni sono più necessarie d’altro – i nodi centrali di un pensiero composito e articolato,2 che solo in un senso assai riduttivo può essere riassunto dalla sua segmentazione in “fasi” (con l’inevitabile e fazioso accento riposto sulle ricusazioni).

In questo senso, è da salutare la riproposizione, curata con intelligenza da Lelio La Porta, di alcune pagine di Giuseppe Prestipino (in maggioranza tratte da un libro importante come Realismo e utopia, in origine uscito nel 2002), sotto il titolo di Su Lukács. Frammenti di un discorso etico-politico3 e con un ricco scritto in appendice, a firma di Velio Abati. Il percorso che va da Storia e coscienza di classe sino alla poderosa Ontologia è riletto da Prestipino con un occhio sempre rivolto al tentativo lukacsiano di rinnovare il marxismo nel momento della sua annunciata dissoluzione. Così come è da segnalare, sempre a cura dell’instancabile La Porta, un utile Lukács chi? Dicono di lui,4 che raccoglie scritti di varia natura sul pensatore ungherese (alcuni di rilevanza storica: da Palmiro Togliatti a Ernesto Che Guevara), nonché il carteggio con Elsa Morante ed Enrico Berlinguer.

Rappresenta una novità di spicco la traduzione nella nostra lingua dei saggi politico-letterari che Lukács scrisse tra il 1946 e il 1948 nel tentativo di partecipare attivamente alla costruzione socialista della società ungherese. Per la cura e traduzione di Antonino Infranca, è possibile leggere questi contributi – accanto ad altri, precedenti o successivi, chiaramente indispensabili per contestualizzare il pensiero dell’intellettuale marxista dopo gli anni a Mosca; e accanto al dibattito che ne scaturì e che sancì l’allontanamento di Lukács dal suo paese – nell’antologia Letteratura e democrazia. Il «dibattito Lukács» (1946-1949) e altri saggi.5 Come scrive il curatore nelle pagine introduttive, «La lotta» ingaggiata dal filosofo «contro le tendenze reazionarie, fasciste e feudali, ancora presenti nella società e nella cultura ungherese del secondo dopoguerra, sia contro le tendenze staliniste interne al partito comunista ungherese»,6 si gioca sia sull’analisi della struttura di classe, sia su uno studio della cultura letteraria coeva, letta come ampio riflesso dell’intera condizione sociale.

Nella preferenza che Lukács accorda al modello del grande realismo borghese, da opporre alle retrive deformazioni di un oggettivismo artisticamente meccanico, riaffiorano senza dubbio le tesi dei grandi saggi degli anni Trenta dedicati a Balzac, Stendhal, Zola, Flaubert e alla letteratura russa (il noto Narrare o descrivere?, ad esempio), che il pubblico italiano ha imparato a conoscere, dagli anni Cinquanta del secolo scorso, grazie alle traduzioni di Cases. I Saggi sul realismo e Il marxismo e la critica letteraria uscirono per Einaudi nel 1950 e nel 1953, incontrandosi con le rinate pagine gramsciane di Letteratura e Vita Nazionale e dando respiro a una ricezione non poco problematica, su cui si dovrebbe tornare a riflettere anche grazie alle pagine, decisive in tal senso, di Fortini.7 Nei contributi di Letteratura e democrazia avremmo, se ce ne fosse bisogno, la conferma della capacità, tutta lukacsiana, di instaurare un percorso dialettico tra fenomeni culturali e condizioni storico-materiali, tra specificità estetica ed eteronomia del campo artistico, insomma tra particolare e universale. Anche e soprattutto alla luce della vera “ossessione” tragica di Lukács: quel tracollo della totalità che, da sinonimo di decadenza ideologica, si fa cartina al tornasole di un più generale cedimento alla logica dell’irrazionalismo (e del particolarismo). I cui esiti, in forma aggravata (e lungi dalla retorica della ricorsività), non sono certo affare del passato.

Eppure, quella tragicità, che permea gli scritti di Lukács sin dai suoi esordi, e che fatalmente oggi lo vedrebbe recuperato tra le schiere degli apocalittici (insieme al “mito” della sua gioventù kierkegaardiana e pre-marxista), non è tutto. Lo ricordava già Fortini, riflettendo sul dibattito con Adorno e sui limiti di una certa lettura del modernismo europeo. E da lì bisognerebbe ripartire ancora una volta:

la categoria della decadenza ha indubbiamente in Lukács un preciso significato storico: ed è legittimo e doveroso approfondirlo, spogliarlo di ogni connotazione moralistica, e (soprattutto criticando l’idea lukacsiana di «personaggio») valutare tutte le grandi opere del decadentismo nelle quali la conflittualità è rappresentata, senza dare eccessiva importanza alla nozione-salvagente di realismo critico, la meno felice di Lukács. Ma al tempo stesso sarà necessario, in un certo senso, ripercorrere a ritroso, per comprenderlo e trarne tutti gli insegnamenti possibili, l’itinerario spirituale di Lukács e chiedersi se per caso il suo risultato non sia invero, pur nelle sue conversioni, quello da Goethe auspicato come la più profonda felicità della personalità: di «condurre a maturazione, al vertice della vita, le tendenze dell’inizio»: che in lui erano la coscienza violenta della opposizione di «vita» e «non vita». Se cioè la totalità e la parzialità, l’alienazione e l’integrità, il realismo e l’antirealismo non siano tuttora componenti obiettive della nostra esistenza e non ci venga richiesto, anzitutto, di non mediarle facilmente, di non mascherarle, di non disporle nella ottimistica «geometria piana» del riformismo.8

Note

1 C. Cases, Su Lukács. Vicende di un’interpretazione, Torino, Einaudi, 1985, pp. XII-XIII.

2 Il più recente bilancio dell’interesse lukacsiano nel nostro paese è costituito dal ricco numero di «Moderna» (nn. 1-2, 2016) curato da Mario Domenichelli e Margherita Ganeri, cui si rimanda.

3 G. Prestipino, Su Lukács. Frammenti di un discorso etico-politico, a cura di L. La Porta, Roma, Editori Riuniti, 2020.

4 L. La Porta (a cura di), Lukács chi? Dicono di lui, Roma, Bordeaux, 2021.

5 G. Lukács, Letteratura e democrazia. Il «dibattito Lukács» (1946-1949) e altri saggi, a cura di A. Infranca, Milano, Punto Rosso, 2021.

6 Ivi, p. 13.

7 F. Fortini, Lukács in Italia [1959], ora in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, pp. 234-267. Sarebbe utile – fosse solo un esercizio di straniamento, certi che non lo sia – rileggere, di questo saggio, un passo assai incisivo: «Noi non abbiamo il diritto di dire “socialismo” come dice Lukács, che nei paesi del socialismo ci vive, bene o male, da venticinque anni; a noi tocca formular di nuovo il come e il dove del socialismo; per questo il momento “ascetico” o “tragico” di Lukács ci tocca tanto, e per questo, pronti a subir ogni accusa di metafisica, non siamo disposti a barattarlo né con le angosce integrate dell’ultima avanguardia né con la neoilluministica pazienza dell’attuale riformismo letterario italiano» (p. 249).

8 Ivi, p. 263.