Procurati sapere, tu che hai freddo!
Affamato, impugna il libro: è come un’arma.
Devi esser tu la guida!
Non aver timore di chiedere, compagno!
Non far credito a nulla,
guarda tu stesso!
Quello che non sai di tua scienza
in realtà non lo sai.
Verifica il conto:
sei tu che lo paghi.
Poni il tuo dito su ogni voce
e chiedi: perché questa, qui?
Devi esser tu la guida.
(Bertolt Brecht, Elogio dell’imparare)
Ma il fenomeno ha un’estensione sociale e cronologica ben più ampia dell’ambito intellettuale e politico appena indicato. Di mio nonno paterno, Lorenzo, nato nel 1901, rammento con precisione i racconti della sua auto-alfabetizzazione, perché, “garzone” già in età scolare, non aveva mai frequentato un giorno di scuola. È grazie a quei racconti, alle parole di mio padre «se non sai parlare, non ti difendi», che vedevo maneggiare con fatica la penna, se ho stretto i denti e sono andato al liceo.
«La scuola è meglio della merda», scrivevano i ragazzi di don Milani a Barbiana; «la penna è più leggera della zappa» (p. 137) ripete don Sardelli. Il primo merito della ricca intervista di Massimiliano Fiorucci è proprio nell’evidenziare questo punto politico-sociale e, vorrei dire, umano di un’intera epoca storica. Ferita che l’opera dei due preti, con altri, mostra in tutta la sua portata drammatica, in tutta la sua urgenza, ben evidenziata dalla severa postura anticotestamentaria dei due religiosi.
Come si è detto, il legame tra subalternità sociale e necessità dello studio non è certo chiaro solo a uno sguardo cristiano, ma sarebbe interessante interrogarci perché in quei decenni di accesso alla modernità, in pieno boom economico, siano stati alcuni austeri preti a coltivare con più intensità questo terreno. Credo che qui conti il primato dell’esempio, di lunghissima tradizione cristiana, anche in esplicito disprezzo del teorizzare. Ma penso che si debba cercare anche nel come e nel perché di modificazioni intervenute nel campo politico della sinistra.
Le discrete sollecitazioni di Fiorucci fanno riemergere, insieme con la passione e l’impazienza che sentiamo vibrare nelle parole, le situazioni, le persone, le scelte, le penurie materiali, le conquiste e le sconfitte che intensamente hanno stretto emarginazione sociale e apprendimento, studio. Una necessità così lacerante che chiamava a niente di meno che a una scelta totale. Davvero dobbiamo dire che verbum caro factum est, che la parola lì si è fatta carne fisica e sociale, affinché questa potesse accedere alla parola. La libertà della ripetizione, che l’intervista in qualche modo mantiene dall’oralità, asseconda l’urgenza ancora viva nel vecchio don Sardelli, che così regala al suo lettore numerosi esempi e prove assolutamente convincenti del legame inscindibile tra sfruttamento sociale e studio, affinché il bisogno diventi diritto consapevole e agito. C’è, nella vicenda ripercorsa da don Sardelli, un momento topico. Il vescovo vicario, saputo della lettera che gli scolari della “Scuola 725” stanno scrivendo al sindaco di Roma, chiede al prete di essere lui ad andare a parlare con il sindaco. Il rifiuto energico, al limite della disubbidienza ecclesiastica, nasce dalla lucida consapevolezza che il gesto avrebbe vanificato l’azione pedagogica la quale, prima che nelle parole scritte, è nell’atto stesso del parlare, garanzia, questa, che il bisogno si faccia diritto e non retroceda a favore. Lettera, appunto, ora al sindaco, così come pochissimi anni prima era stata con don Milani Lettera a una professoressa. È per eccellenza il genere del discorso agito in prima persona, in cui il soggetto prende corpo e parola senza intermediazioni. Il genere ha lunga e prestigiosa tradizione cristiana, sia neotestamentaria che patristica, ma certo travalica tanto verso la letteratura latina quanto verso la tradizione moderna.
A più riprese, anche per impulso di Fiorucci, don Sardelli, in sede di sguardo retrospettivo, esprime il rammarico che la propria esperienza didattica non sia diventata sistema. Adduce ora la mancanza di tempo, ora l’impellenza delle domande dei ragazzi, ma una lettura appena accorta non tarda ad accorgersi che l’impedimento era più profondo, originario direi. L’insofferenza e anche la rudezza con cui allontanava gli studenti universitari o coloro che cercavano di unirsi a lui nell’opera educativa e di “coscientizzazione” indica che quel contributo veniva sentito come una corruzione del rapporto esclusivo tra lui e i discenti. Credo che una radice della mancata capacità egemonica di quelle esperienze vada cercata proprio nell’assolutezza del primato dell’esempio. Come indica il più volte ricordato insegnamento ricevuto da don Milani – «stai zitto!» – quell’assolutezza dell’esempio è la risposta obbligata del divieto insuperabile imposto dalla gerarchia. Al contempo è stata la condizione che ha permesso la dedizione totale, la sua mirabile radicalità. Ma il prezzo è la sua amputazione: il fiero proclama del manuale scritto dai ragazzi della “Scuola 725”, Non tacere, ha la sua possibilità nell’accettazione dello «stai zitto!». Sarebbe interessante, su un piano di documentazione storica più piena, conoscere i risultati di medio, lungo periodo di quella e di altre esperienze analoghe, attraverso la raccolta sistematica dei dati sui percorsi successivi degli allievi.
Non c’è dubbio, tuttavia, che al di là dei singoli esiti e della medesima particolarità storica non facilmente riproducibile, se non in contesti socio-culturali di analoga emarginazione e deprivazione, l’esperienza didattica della “Scuola 725” dell’Acquedotto Felice mette bene a fuoco una questione generale, decisiva dell’azione pedagogica, ben sottolineata anche da Fiorucci: l’inscindibilità tra condizione concreta di vita e progetto didattico. Tale legame comporta conseguenze su due diversi aspetti. Uno è interno alla pratica didattica. Non si attiva l’interesse a sopportare la fatica dello studio, non si fa affiorare alla consapevolezza il bisogno, se non si parte dalle concrete condizioni materiali, affettive e spirituali del discente; questo mancando, la pura imposizione istituzionale e d’autorità, ove sia presente, può tutt’al più costringere a un addestramento esteriore, che non diviene patrimonio posseduto: è la situazione che nel gergo didattico viene detta apprendimento meccanico. Condizione ben illustrata dall’esempio, testimoniato da un mio vecchio compagno, di un ragazzo che studiava a scuola la nascita e la propagazione di certi parassiti delle piante, mentre nella pratica della sua vita di contadino continuava ad aderire alla convinzione tradizionale della nascita spontanea.
Un altro aspetto riguarda invece la natura profonda, intima e ineliminabile di qualsiasi progetto educativo e didattico. Ogni apprendimento, anche quello più tecnico, sia è esso stesso trasformazione del soggetto, riorientandone capacità d’interazione nel mondo e visione di esso, sia è in vista di un’azione sul mondo, ossia prefigura una certa trasformazione materiale e sociale. Dunque, come con tutta l’energia e lo scandalo possibile grida più volte don Sardelli, ogni azione didattica è azione politica. Anzi tanto più è politica, nel senso peggiore di nascondimento e passivizzazione, quanto più essa si pretende distante dalla politica e dall’ideologia. Qui tocchiamo uno dei punti più fertili dell’ampio ragionamento dell’intervistato e dell’intervistatore, perché quel grido torna oggi attualissimo, non solo contro i nuovi e crescenti reietti della migrazione dai sud del mondo, ma direttamente contro la violenta restaurazione compiuta dal quarantennale dominio neoliberista verso la scolarizzazione di massa e le sue aperture metodologiche, di cui la “Scuola 725” è parte. Misure politiche, direttive europee, pratiche sindacali, letteratura di settore, pensiero dominante, gettato con disprezzo nel fango ogni domanda su quale cittadino e cittadina, per quale società, hanno proclamato l’arretratezza della scuola rispetto alla società e i suoi costi e i suoi sprechi, gridando che è la società, quella esistente ben inteso, a essere nel giusto, a essere il metro, a dover dettare alla scuola temi, metodi e fini, perpetuando così, anche in via teorica, rendendolo naturale, anzi accentuando il dominio e lo sfruttamento, lo sfregio dell’umano.
Se guardiamo più nel dettaglio alla scuola di don Sardelli, ai suoi contenuti, salta agli occhi il valore anticonformista e la forza contestativa della cronaca – con la lettura del giornale – e della storia contemporanea, con la lettura di saggi, che aprivano ai ragazzi la realtà nazionale e internazionale di cui erano parte eppure sottratta al loro sguardo quotidiano. È la rivendicazione contro il conformismo antideologico e passatista della scuola, che la “Scuola 725” condivideva con l’assai più ampio movimento contestativo degli studenti del cosiddetto Sessantotto. Per la verità, anche per altri aspetti la didattica di don Sardelli confluiva nella più generale pressione che giovani, studenti, donne, immigrati, lavoratori portavano nella scuola, nella famiglia, nei consumi culturali, nelle istituzioni con spirito di rivolta antiautoritaria, antirepressiva e antiqualunquista. La rivendicazione del presente sul passato veniva sentita ed era un disvelamento. Credo che un giovane lettore odierno faccia fatica a comprendere. Abbiamo anzi quotidiana esperienza della saturazione del presente e della “globalizzazione” come oggi si dice, al punto che lo smarrimento del sé e il soffocamento di chi non sa vedere vie d’uscita non nascono dall’oppressione del passato, ma dalla nausea del presente. Oggi il presente, il globale non è la soluzione, ma il problema, non lo sguardo di Athena, ma la testa di Medusa. Oggi si deve educare alla disciplina di forare la crosta del presente per dissotterrarne le vene che lo nutrono dal passato e portare alla luce il futuro che solo gli dà senso. Allo stesso modo, la falsa contemporaneità della globalizzazione sottrae allo sguardo sfruttamenti, differenze di classe, di orizzonti mentali e insieme i legami che invece li nutrono, producendo il doppio accecamento di chi, non vedendo le differenze, la esalta come il migliore dei mondi e di chi, non vedendo i legami, rivendica come diritto il razzismo e la violenza di sangue e terra.
Si trattava, dice don Sardelli, di «rompere questo muro di silenzio che circondava» (p. 137) i ragazzi, parimenti celebre è la pagina della Lettera a una professoressa dove viene affermato che la timidezza dei ragazzi di Barbiana non è del carattere, ma della loro condizione di classe subalterna. Anche per questo aspetto si fa fatica a riconoscervisi oggi, quando la difficoltà a parlare è mascherata dall’urlo facile sulla tastiera.
Il pregio dell’intervista di Fiorucci, avvenendo dopo tanti anni, costituendo anzi un testamento, è anche nel permettere al protagonista una distanza che dà modo d’indicare il mutamento. «Quando qualche grande – dice don Sardelli – osava dirmi “Ma stasera c’è Mina alla televisione”. “Stasera faccio la riunione! Io sono superiore a Mina, perbacco! Che me ne frega a me! Stasera faccio la riunione!”. Oggi non avrei più questa forza, mi manderebbe a quel paese. Allora io lo facevo e mi obbedivano» (p. 137). Portato dall’intervistatore a confrontare quella stagione con il presente, il prete sembra chiudere il suo testamento su una nota disperata: «L’esperienza nostra è stata una fase non digerita […] Perché ha vinto un modo di vedere i rapporti scolastici opposto. Quando mi chiamano dico: “Che mi chiamate a fare? Devo fare il pezzo da museo?”» (p. 148).
Ma l’esperienza didattica di don Sardelli, come quella di don Milani o di altri del medesimo periodo storico non è oggetto museale, è brace viva nella trama del presente a mostrare, a chi non sia cieco per interesse, che sempre la scuola è politica e ad additare un’urgenza insopprimibile: nessun discorso, nessun movimento per una scuola diversa può principiare, se non prende corpo una politica che pensi e voglia diversa la società, cosa questa possibile solo se essa chiede protagoniste le classi subalterne.
1 F. Avanzati, Il seme sotto la terra, Milano, La Pietra, 1996, p. 46.