L’esclusione e la distanza
Una riflessione a partire dal titolo del seminario
Alessandra Reccia

L’idea di dedicare un numero monografico dell’«Ospite» on line ai temi della scuola e dell’insegnamento è nata la scorsa primavera quando, trovandoci di fronte ai problemi aperti dalla didattica a distanza, ci è sembrato necessario interrogarci sulla funzione sociale del sistema di formazione e sulle sue finalità, proprio a partire dalle contraddizioni strutturali che la didattica in emergenza aveva messo drammaticamente in primo piano.
I timori, le domande, la ricerca di senso e di riferimenti politico-pedagogici hanno accompagnato la fase preparatoria del numero, che si è caratterizzata per l’individuazione di interlocutori, più che di contribuenti o collaboratori. In quest’ottica è nata l’esigenza di organizzare un seminario per aprire una discussione su alcuni dei nuclei tematici emersi: diritto allo studio; digitale e valutazione nel quadro della didattica europea delle competenze; organizzazione del sistema di istruzione.
Il titolo del seminario Scuola e università: vettori di uguaglianza o luoghi di esclusione? voleva rimandare a un nodo risultato centrale dentro la riflessione redazionale.
Fin dai primi scambi della fase preparatoria è emersa la natura bifronte del sistema di formazione italiano, che da un lato si offre come mezzo di emancipazione individuale e sociale e dall’altro finisce per funzionare come luogo di omologazione, oppressione ed esclusione.
Nonostante il dettato costituzionale, la retorica politica e, anche, gli sforzi di alcuni di quelli che vivono la scuola quotidianamente, la disuguaglianza, come ha ribadito Maria Vittoria Tirinato nel suo intervento introduttivo al seminario, è un fattore strutturale del nostro sistema formativo.
Il tema certo non è nuovo. Gli ultimi rapporti annuali, tanto dell’Istat quanto della Corte dei conti, sono concordi sia nell’indicare, per gli anni 2016-2018, un tasso di abbandono scolastico che supera il 13%, arrivando, in relazione agli indicatori adottati, anche al 14,5%, sia a collegare l’abbandono, da un lato, alla povertà economica e, dall’altro, al lavoro minorile e ai tassi di disoccupazione.1
Le cause del fenomeno sono individuate principalmente nei percorsi di studio non adeguati alle esigenze lavorative e nel ritardo scolastico, dovuto alle numerose bocciature, soprattutto alle superiori, e a una errata politica di inserimento degli alunni non italofoni nel nostro sistema formativo. Ma le colpe della dispersione non sono solo della scuola. Tuttavia il dato indica che rispetto ad essa la scuola si comporta come istituzione sistemica e che è in crisi anche la sua funzione di contenimento del disagio e della devianza.
L’esperienza della didattica a distanza, della scorsa primavera e di questo autunno, ripropone la centralità del tema, che si presenta ad insegnanti e studenti nella bruta dimensione della nuova normalità scolastica. Dalle classi virtuali spariscono alunni e compagni nell’indifferenza generata dal caos contingente. Molti altri, pur risultando presenti all’appello, restano poco più che icone sullo sfondo grigio delle piattaforme. Bisogna impegnarsi per ricordarsene, insistere per coinvolgerli nella lezione, per chiedere loro di eseguire un compito o una consegna. La distanza in questi casi pesa e costituisce un fattore di forte disgregazione relazionale.
Il lavoro necessario per tenere agganciati questi ragazzi produce spesso scarsi risultati e fatica a essere contemplato in molte delle rivendicazioni sindacali, per le quali l’attività docente continua ad essere equiparata a quella impiegatizia e i diritti degli insegnanti ad essere contrapposti a quelli degli studenti. La richiesta di una discussione in questo senso viene bollata e sminuita nel discorso offensivo sugli insegnanti missionari.2
Ma alla fine, la retorica dell’eroe non trova alternativa se non in quella del burocrate.
In questa situazione, la lotta per tenere le scuole aperte è preliminare a qualsiasi atto o riflessione educativo-formativa, vertenziale o politica. Non sappiamo quanto durerà l’emergenza sanitaria, ma certamente quella che ci viene presentata come una misura momentanea si sta rivelando essere strutturale e i danni collegati alla distanza, in termini individuali e sociali sono imponderabili.
Si è calcolato che, in Italia, da marzo a giugno dello scorso anno, durante la didattica a distanza, su un totale complessivo di circa 9 milioni di studenti, ne sono andati dispersi un milione e mezzo circa.3
La Dad è un potente fattore di emarginazione, esclusione e abbandono scolastico. Oggi, qualsiasi discorso sulla scuola non può che partire da qui.
Tuttavia, fuori dalle retoriche, parlando di formazione e istruzione bisognerebbe non perdere di vista la natura doppia della scuola: da un lato, istituzione omologante, che tende a spingere ai margini i disadattati, favorendo processi di emarginazione e devianza; dall’altro, punto di riferimento, presidio sociale, luogo di prevenzione e recupero, di partecipazione.
La questione è dirimente, perché non si tratta solo di volere le scuole aperte, ma anche di riconsiderarne in maniera complessiva il ruolo e la funzione socio-economica, individuarne i limiti, criticarne le prospettive didattico-pedagogiche strutturali e quelle dominanti, praticare alternative.
Durante il seminario il tema dell’esclusione si è venuto configurando innanzitutto come un problema di linguaggio. L’esigenza di sottoporre a critica i termini del discorso attuale sulla formazione ha accompagnato tutte le relazioni, ma è soprattutto con l’intervento di Valeria Pinto che essa è stata posta in modo strutturato nel dibattito. L’assunto di base, semplificato all’estremo, è che tutti gli individui sono funzionali al sistema di produzione e che quindi non esiste una realtà ad esso esterna. In questo senso, parlare di esclusione equivale ad affievolire la realtà dello sfruttamento e la coscienza della subordinazione e quindi del conflitto di classe. Questo discorso è certamente condivisibile in linea teorica, ma non sempre aiuta nell’osservazione dei contesti reali.
Senza dubbio, la parola inclusione fa parte del lessico chiave del linguaggio tecnocratico della scuola delle competenze, che è la formula europea della riorganizzazione del rapporto tra formazione e società nell’attuale fase di sviluppo economico.
In questo contesto, l’inclusione è un modo per marginalizzare il disagio e un tentativo di controllo della devianza, che da esso deriva. Al contrario di quanto l’ideale progressista dell’Unione europea retoricamente dichiara, includere non è il mezzo per costruire la futura società democratica dell’economia della conoscenza, ma uno strumento di omologazione sociale, in un contesto di forti differenziazioni economiche, e un dispositivo di costruzione del consenso trasversale e generalizzato ai meccanismi che reggono lo stato del mondo.
Tuttavia, la presenza quasi ossessiva di questa parola nella legislazione e nella pubblicistica corrente rivela paradossalmente la realtà del suo contrario, ovvero dell’esclusione. Gli esclusi, che certo non sono estranei o esterni ai processi produttivi, esistono proprio nella loro forma di forza necessaria al sistema, indispensabile al suo funzionamento e alla sua sopravvivenza. Essi sono tali in relazione al meccanismo di redistribuzione della ricchezza, al quale partecipano in misura marginale e residuale. In questo senso, l’esclusione non sostituisce, edulcorandolo, lo sfruttamento, ma ne costituisce una sua forma specifica.
In termini marxisti, l’esclusione è un elemento costitutivo del sistema di produzione capitalistico.
Nel saggio Le classi nel mondo moderno, Alessandro Mazzone spiegava come la marginalizzazione sia un moto tendenziale del processo di produzione capitalistico, direttamente connesso con la necessità di controllare il capitale variabile rispetto a quello fisso. Ciò si verifica nella contraddizione tra l’esigenza costante di accrescere continuamente il ritmo di accumulazione e le effettive condizioni che la determinano. Queste, infatti, non sono costanti, ma precarie e variabili. Tuttavia l’accumulazione resta lo scopo della produzione che, per essere raggiunto, spinge a controllare e sfruttare il lavoro anche mantenendo la sovrappopolazione lavoratrice.4 Questa si accresce o restringe in relazione alle aree geografiche e all’ecosistema economico di riferimento.
Come ha notato Edoarda Masi, la massa crescente di esclusi, «specchio della miseria di ciascuno di noi», totalmente assoggettata alle logiche del mercato e della cultura dominante, omologata nei gusti e nelle aspirazioni, dal punto di vista dell’ideologia capitalistica, è periferica.5
Di conseguenza, il punto è che se «il centro è – e sarà sempre più – là dove l’ideologia (o l’esorcismo) colloca il margine»,6 ci tocca spostare lo sguardo verso le periferie. Se si assume questa prospettiva in relazione al tema dell’esclusione, la scuola si caratterizza come frontiera. Trattenere i ragazzi nel sistema può allora paradossalmente rappresentare una forma di resistenza.
Le più evidenti storture venute fuori in questa seconda stagione di didattica a distanza riguardano le condizioni di lavoro di studenti e docenti in relazione all’esposizione prolungata alla luce blu e l’inclusività verso alcune particolari categorie di alunni. Le incerte soluzioni previste dai provvedimenti legislativi, dal limite di ore di lezione, alla proposta di un contratto nazionale ad hoc per i docenti, fino alla possibilità della didattica in presenza per i soli alunni con L.104, sono parziali, spesso ridicole, in alcuni casi lesive di diritti fondamentali.
Nel loro insieme questi tentativi di regolamentazione indicano il carattere escludente della didattica a distanza. Fin dal principio se ne è fatta una questione di accesso ai device, le cui difficoltà di reperimento e uso sono aggravate dalle situazioni socio-economiche, nonché dalle condizioni abitative delle famiglie. Il 6 aprile 2020 l’Istat ha pubblicato la sintesi dei dati sulla disponibilità dei computer e degli spazi abitativi, riferiti agli anni 2018-2019.7
Banalmente, si è scoperto che non tutti in questo Paese sono dotati di una connessione a giga illimitati e che avere un cellulare, qualche volta addirittura un iPhone, può servire a poco. Ad ogni modo, l’impegno del MIUR per fornire dispositivi agli alunni appare quantitativamente irrilevante, comunque incapace di far fronte all’effettivo fabbisogno. Ma il digital divide non è solo questo e ha cause molto articolate, le cui radici sono nel tessuto socio-economico del Paese.
Innanzitutto va aggiunto che il possesso dei mezzi non sempre ne garantisce una competenza d’uso e le difficoltà aumentano in relazione alle classiche direttrici della differenziazione sociale, ovvero alle fasce di reddito e ai territori di appartenenza (ricchi/poveri; Nord-Sud; centri rurali e urbani). Non si tratta, quindi, solo di fornire di device, ma di annoverare tra le nuove forme di povertà educativa anche il semi-analfabetismo digitale, da cui le nuove generazioni non sono affatto immuni.In relazione ad esso, siamo di fronte a un problema educativo-pedagogico che concerne la strutturazione di classe, perché la capacità critica d’uso delle tecnologie digitali sarà un elemento costitutivo e determinante della futura differenziazione sociale.8
Il Rapporto 2020 dell’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni (Agcom)9 sottolinea come la Pandemia mondiale abbia dato una nuova centralità economica alle tecnologie informatiche, tale per cui «l’esclusione digitale rischia di trasformarsi in esclusione economica, sociale, educativa, informativa, financo culturale».10
Si mette in evidenza come il ricorso massivo allo smart working e soprattutto all’e-learning, tanto a scuola quanto all’università, fanno della disuguaglianza digitale un acceleratore di disparità, che si aggiunge, aggravandole, alle tradizionali forme di esclusione sociale.
In Italia, l’accesso alle conoscenze e alle tecnologie informatiche, già dipendente da fattori quali l’età, il reddito e l’istruzione, oltre che da differenziazioni geografiche, ancor prima del 2019, risultava fortemente compromesso alle nuove generazioni a causa della disomogenea offerta di dotazioni, dovuta sia a condizioni geografiche, legate alla morfologia del territorio, sia alla disorganica politica di digitalizzazione scolastica. Innestatasi su questa realtà, la Dad presuppone che gli studenti dispongano privatamente delle condizioni economiche e culturali necessarie per garantirsi il diritto all’istruzione. Fare, quindi, della didattica digitale uno strumento strutturale significa compromettere con la crescita educativa di ampissimi gruppi di studenti, anche le possibilità di emancipazione socio-economiche e culturali.
Il rapporto Agcom, inoltre, individua l’accesso al digitale come una «precondizione per il godimento dei diritti sociali costituzionalmente garantiti» e valuta prioritaria una politica di interventi articolati e di investimenti per frenare e controllare le conseguenze del divario digitale, che tocca fasce sempre più ampie della popolazione.
Tuttavia, indica quali azioni politiche possibili quelle di pianificare le infrastrutture, ovvero fornire la copertura di rete, e di stimolare la capacità di spesa delle famiglie, per diffondere il più possibile i servizi. Si tratta di misure riduttive che seguono miopi scopi neoliberisti, in quanto finalizzate semplicemente a controllare la perdita di fette di mercato e dei conseguenti guadagni e non tengono minimamente conto delle questioni strutturali che pure nel Rapporto vengono messe in luce. Per non parlare del fatto che le misure adottate in questo senso, per mancanza di un piano pubblico e statale, finiscono inevitabilmente per favorire le grandi multinazionali del digitale, della telefonia e dell’elettronica. Ma, se le cause che conducono all’esclusione si annidano nel tessuto socio-culturale ed economico, è chiaro che la risposta deve riguardare quest’ultimo.
In un intervento per il Forum dell’Educazione di Porto Alegre dell’ormai lontano 2001, Pablo Gentili parla di «esclusione includente» come del processo sociale che tende a normalizzare l’esclusione e a renderla invisibile sia agli occhi di chi la pratica sia a quelli di chi la subisce, e ricorda che le politiche volte all’inclusione tendono ad intensificare questa dinamica, in quanto puntano ad agire sulla condizione piuttosto che sulle cause.
Poiché inoltre gli esclusi costituiscono una maggioranza basata sulla somma di numerose minoranze, alle molteplici situazioni di esclusione si risponde con altrettante specifiche misure, le quali non possono che rappresentare palliativi e rinforzare la frammentazione.11
I finanziamenti pubblici, infatti, sono differenziati per settore (scuola, famiglia, lavoro), all’interno dei quali si dividono in una miriade di piccoli interventi, sparpagliati poi sui territori a macchia di leopardo. La logica frammentaria induce a pensare e categorizzare l’esclusione in differenti compartimenti e a scartare l’ipotesi di una risposta politica organica, oltre che di una causa strutturale. Il fenomeno, quindi, disgregato al suo interno, si presenta come separato dal processo che l’ha generato. Senza parlare del fatto, ben denunciato da Aragno ancora una volta nel suo intervento, che queste politiche spesso si riducono, soprattutto in un contesto come quello scolastico, a vuoti atti burocratici che hanno il doppio effetto di ricondurre l’emarginato al contesto sociale che di fatto lo ha espulso, e di normalizzare l’espulsione.12
La scuola riproduce la logica generale offrendosi all’escluso come possibilità omologante.
La proposta di una integrazione del soggetto in un ambiente rigido e respingente si trasforma inevitabilmente in una fallimentare pretesa di adattamento. L’abbandono scolastico è una diretta conseguenza di questo processo. Tuttavia, nonostante il suo carattere fortemente istituzionalizzato e respingente, fosse solo per la pretesa continua e ostinata di bambini e adolescenti di misurare con loro e su loro qualsiasi discorso possibile sul mondo, la scuola può essere, e a volte riesce ad essere, nella sua dimensione concreta e quotidiana, molto più, e certamente anche qualcosa di meno, che lo specchio o uno strumento del sistema produttivo.
I ragazzi di paese erano per i bar e per le strade. Quelli di campagna nel campo. Di fronte a questa situazione il doposcuola non può mai sbagliare. È buono tutto. È buono perfino quell’aborto che voi chiamate scuola.13
1 MIUR, La dispersione scolastica nell’anno 2016-2017 e nel passaggio all’anno scolastico 2017-2018, luglio 2019, Corte dei Conti, La lotta alla dispersione scolastica: risorse e azioni intraprese per contrastare il fenomeno, luglio 2019.
2 A. Manfredi, J.Rastelli, La cattiva retorica dell’insegnante eroico e missionario, in «Il Manifesto», 21 ottobre 2010.
3 Agcom, L’impatto del corona-virus nei settori regolati. Allegato alla relazione annuale, luglio 2020.
4 A. Mazzone, Le classi nel mondo moderno. La complessità del conflitto (Seconda parte), in «Proteo», 2004-3.
5 E. Masi, Estinzione di una aristocrazia, in Tradizione, traduzione, società. Saggi per Franco Fortini, a cura di R. Luperini, Roma, Editori Riuniti, 1989, p. 371.
6 Ibidem.
7 Cfr., Istat. I dati sono commentati da C. Raimo, Chi viene lasciato indietro rischia di non tornare più a scuola, in «Internazionale», 22 aprile 2020.
8 Cfr. M. Gui, A dieta di media. Comunicazione e qualità della vita, Bologna, il Mulino, 2014.
9 L’Agcom è un ente giuridico pubblico, che attraverso il suo Osservatorio mira a fornire alle imprese informazioni e orientamenti sull’andamento dei mercati legati al settore delle comunicazioni, ci fornisce dati allarmanti sulla situazione italiana.
10 Agcom, L’impatto del coronavirus cit., p. 24.
11 P. Gentili, L’esclusione a scuola: l’apartheid educativo come politica di occultamento, in Un’altra educazione è possibile, a cura di A. Surian, Roma, Editori Riuniti, 2002, pp. 125-137.
12 A. Angelucci, G. Aragno, Le mani sulla scuola. La crisi della libertà di insegnare e di imparare, Roma, Castelnuovo, 2020, pp. 33 e sgg.
13 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa [1967], Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2010, p. 32.