A cinquant’anni dalla prima edizione, uscita da Mursia nel 1971, viene ripubblicato dall’editore Abbot di Roma il romanzo La tutta gialla di Nordio Zorzenon. Si tratta di una scelta coraggiosa e meritoria che permette ai lettori di riscoprire un libro interessante, che può essere collocato sulla scia di quella “letteratura industriale” che prese avvio in Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
La vicenda narrata si svolge a Monfalcone, presso i cui cantieri navali lavorano i protagonisti. Il filo conduttore è l’evoluzione della carriera del protagonista, Sandro Visintin, che all’inizio del libro viene promosso da operaio a capo d’arte, passando quindi dall’indossare la tuta blu a quella gialla. Eppure di tanto in tanto la narrazione abbandona il protagonista per seguire i pensieri e i ricordi dei suoi amici che ritornano a fatti vissuti, che ci permettono di capire quanto avviene nel presente, per cui si può accogliere l’idea di una «rappresentazione corale», proposta da Bruno Maier1 in una sua recensione alla prima edizione, o di una «piccola epica quotidiana», come la definisce Angelo Ferracuti nella prefazione alla nuova ristampa.2
Leggendo queste pagine con attenzione, ci si accorge tuttavia che non si può limitare a questo elemento il senso dell’opera. Va infatti riconosciuto che in realtà non è il cantiere il vero protagonista (diverse scene – e non tra le meno importanti – si svolgono al di fuori di esso), e nemmeno il rapporto di Sandro con gli “altri” che lo circondano, come pure è stato sostenuto.3 Il libro ha in realtà come oggetto il tentativo di cambiare classe sociale, di passare dallo stato di operaio a quello di capo e di mostrare le lacerazioni umane, l’«amputazione» (p. 30) che questo comporta.
Le scene che ritraggono gli operai dentro e fuori il cantiere mostrano una realtà sociale legata ancora ad una condivisione delle esperienze, dove le intenzioni del singolo si risolvono in quelle della comunità. L’improvvisa promozione rompe questa comunione di intenti e, nonostante i buoni propositi, introduce un elemento di rottura e di distanza che isola il protagonista da chi lo circonda, stabilisce un elemento di incomunicabilità con i suoi amici e con la moglie, la cui dichiarazione ritorna quasi ossessivamente.4 Questo stato viene descritto come una sorta di strabismo5 che lo porta a vedere le cose in maniera differente, a mettere al primo posto la propria «carriera» (p. 161), rinunciando a quel sentimento di solidarietà che l’aveva legato fino a quel momento ai compagni e a rinchiudersi in sé stesso. È lo stesso Sandro a percepire in questo suo comportamento un «tradimento», uno schierarsi dalla parte del «nemico» (p. 74).
Ora la sua volontà è quella di integrarsi il più possibile nella nuova classe sociale, e per far questo si affida ciecamente alla guida di Paolicchi che lo esalta e lo addita ad esempio agli altri capi, ma contemporaneamente gli dà anche delle rigide norme di comportamento, vietandogli di frequentare gli amici d’un tempo fuori dal cantiere o prescrivendogli di arrivare prima dell’orario di lavoro il giorno in cui viene organizzato uno sciopero. Sotto la sua guida Sandro acquisisce una nuova sicurezza e decide di annullare nel lavoro del cantiere tutta la sua umanità e i suoi sentimenti. Uno dei momenti chiave in questo senso lo troviamo verso la metà del libro quando, seppur inizialmente con qualche titubanza, Sandro pur di non ritardare il lavoro decide di costringere uno dei vecchi amici ad allontanarsi dalla “foghera” a cui si stava riscaldando per qualche minuto in una giornata particolarmente fredda. L’episodio gli provoca dei pensieri contrastanti, ma significativamente «rientrando in ufficio, s’era sentito inorgoglire al pensiero di come avesse saputo sacrificare i suoi sentimenti all’interesse del cantiere» (p. 136).
Tuttavia, se l’operaio è sfruttato e costretto ad un lavoro sfiancante e ripetitivo, e dunque menomato della sua pienezza umana, anche il capo, il superiore si ritrova ridotto a un simulacro umano costretto a una vita vacua e inutile, come il Direttore o l’ingegner Pittoni che esauriscono completamente se stessi nel far rispettare gli ordini e le scadenze senza senso che vengono imposti ciecamente nel cantiere seguendo l’imperativo che «il problema più urgente […] è quello di contenere il guadagno degli operai» (p. 91); o come Paolicchi, l’unico tra i dirigenti ad aver un maggior senso pratico, che per chiudere gli occhi davanti alle palesi ingiustizie compiute dichiara, indicando un cassetto della propria scrivania: «La coscienza io la chiudo a chiave qui dentro ogni mattina e me la riprendo la sera quando esco» (p. 101).
La serata a casa di Garioni e sua moglie descritta nel capitolo V della seconda parte ne è la dimostrazione. Viene mostrato l’egoismo dei due ospiti che litigano continuamente, cercano di sottrarsi la stufetta elettrica l’un l’altro e dimostrano di tenere esclusivamente alle apparenze. L’arrivo di Robertino, il figlio viziato e sguaiato ma costantemente giustificato dai genitori, fa da compendio alla scena.
È utile per una piena comprensione di questo episodio introdurre una delle più importanti caratteristiche strutturali del libro (il cui funzionamento andrà analizzato più di quanto sia possibile fare qui da chi vorrà approfondire lo studio dell’opera), cioè il fatto che il senso della narrazione venga giocato su precisi rapporti di opposizione. Nel brano appena citato si tratta del confronto tra la signora Garioni e Fausta, la moglie di Sandro, che presentano caratteristiche morali e caratteriali del tutto differenti. Mentre la seconda dimostra un sincero amore per il marito ed è pronta ad aiutarlo e a offrirgli la sua comprensione, la prima invece pensa solo ai gioielli e costringe il coniuge ad indebitarsi pur di averli, e invece che offrirgli il suo appoggio sembra quasi porsi nei suoi confronti in maniera competitiva anche quando si tratta di un semplice gioco di carte.
Un altro parallelismo, forse meno appariscente ma significativo al punto da costituire l’elemento centrale dell’evoluzione del protagonista, è quello tra Sandro e Poldo. Poldo è per lui l’amico più vicino ed è uno dei pochi che non lo rimprovera per le scelte che ha fatto. È quasi una sorta di alter ego che per certi versi rappresenta quello che sarebbe potuto essere Sandro se fosse rimasto operaio. Non è un caso che la narrazione a più riprese segua le sue vicende, come quando ricorda di come ha scelto di diventare partigiano oppure quando viene ammazzato il maiale dei Boscarol. È lui che spera fino all’ultimo nella riconciliazione con la “tuta gialla” ed è sempre attraverso di lui che viene presentato il consumarsi della rottura finale, la più dolorosa, che per Sandro significa la definitiva rinuncia ad una parte di se stesso.
Rapporti interessanti però possono essere individuati non solo tra i personaggi, ma anche tra i luoghi. Così gli spazi esterni del cantiere, rumorosi e soleggiati, si contrappongono all’interno degli uffici, ombrosi al punto che all’inizio del romanzo nel passare dagli uni all’altro Sandro crede di trovarsi nel «buio cupo», tanto da non vedere più nulla e temere di inciampare (p. 25), con un significativo rimando al tema dello strabismo e della difficoltà di vedere con chiarezza richiamato sopra.
Non può nemmeno sfuggire l’opposizione tra il Bunker, l’osteria dove si riuniscono gli operai che Sandro ritiene a lui preclusa dopo la lite con Fiore – in cui va vista una figura un po’ schematica portatrice delle istanze collettive della classe operaia piuttosto che un personaggio tout-court – e il bar cittadino frequentato da borghesi in cui entra quasi per caso, provocando imbarazzo a sé e fastidio al personale e agli avventori occupati in civetterie, subito pronti a deriderlo o ad ignorarlo.
Infine alla città nuova, costituita dai recenti grattacieli che cancellano le tracce e i ricordi del passato con una «barriera di cemento armato» (p. 33), si contrappone il Borgo, dove abitano contadini e operai, che mantiene ancora vive le tradizioni d’un tempo. Si pensi alla scena dell’uccisione del maiale nel cortile dei Boscarol, in cui può essere individuato il momento cardine di tutta la narrazione, magistralmente rappresentata con uno stile realista che non rinuncia a ben calibrate venature simboliche, dimostrando una volta di più come il romanzo non possa essere assolutamente ridotto al tema del solo cantiere. Tale brano mette in mostra una vita antica ancora scandita da ritmi contadini, ed è importante rilevare come Sandro osservi quanto avviene da dietro a una finestra oscurata da un’imposta, quasi a voler sottolineare anche fisicamente un insormontabile distacco. Le sensazioni che prova sono legate al desiderio ma anche all’impossibilità di adesione a quel che vede compiersi e a tutto ciò che ai suoi occhi questo rappresenta. Sandro ormai si è allontanato da quella classe sociale e da quella dimensione umana in cui pure sente di avere le proprie radici. Ora il paesaggio che scorge rappresenta ai suoi occhi solo un muto rimprovero per quello che ha fatto. Si tratta, dichiara, di «una testimonianza che sembrava vincolarlo tuttora a quella terra e a quelle pietre, che lo invitava a spingere in fuori gli scuri e ad uscire da quel nascondiglio oltre il quale se ne stava in colpa, quasi che il Borgo avesse già scoperto il suo tradimento» (pp. 159-160).
Sandro dunque abbandona dolorosamente la propria classe sociale e tuttavia, nonostante il primo impatto positivo, non riesce ad acclimatarsi nella nuova. Conoscendo meglio i capi e gli ingegneri può misurarne tutta la vacuità umana e la profonda ignoranza che lo portano infine ad insultare uno di loro, causa di un giorno di sospensione. Tale evento viene vissuto come una rottura definitiva che testimonia la sua impossibilità di assimilazione tra la borghesia. Nonostante questa nuova consapevolezza, i vari propositi di riavvicinamento agli amici di un tempo restano intentati o si concludono con decisivi fallimenti, perché viene trattenuto dal suo senso di colpa: «arrossiva di se stesso, di ciò in cui aveva creduto come se l’esperienza dei suoi anni non gli fosse servita a nulla e la sua mente si fosse lasciata sedurre ancora da cose superficiali, da cose di nessun conto» (p. 238).
La speranza di ricomposizione si rivela definitivamente vana quando Sandro, ispezionando la sua barca prima del varo, trova una scritta anonima, ma sicuramente di pugno di uno degli operai del Borgo: «Visintin sei un fascista». Motivo per il quale decide di non invitare gli operai al varo: «Divisi, insomma! La tuta gialla da una parte, le tutte blu dall’altra, secondo i dettami e la volontà di Paolicchi» (pp. 250-251).
Sandro va dunque incontro ad un doppio scacco: si rende conto di essere cambiato e che ormai il dialogo è impossibile sia con gli amici di un tempo che con i dirigenti del cantiere. Si trova in una sorta di limbo e vede come preferibile la condizione della moglie e di Poldo, che rimasti fedeli a se stessi gli sembrano lanciare una muta accusa nei suoi confronti.6 L’indossare la tuta gialla rappresenta per Sandro un doloroso approdo alla solitudine e all’inappartenenza sociale, che lo porta a sentirsi un «forestiero in casa propria» (p. 193). Ma anche i compagni d’un tempo piangono l’amico perduto ed infine accusano la vita del cantiere di averglielo portato via (p. 253), lasciando intendere, attraverso la voce di Fiore, come la sconfitta subita da Sandro in fin dei conti riguardi anche loro.
1 B. Maier, «La tuta gialla» di Nordio Zorzenon, in Id., Saggi sulla letteratura triestina del Novecento, Milano, Mursia, 1972, p. 306.
2 A. Ferracuti, Prefazione, in N. Zorzenon, La tuta gialla, Roma, Abbot, 2020, p. 10.
3 B. Maier, «La tuta gialla», cit., p. 305.
4 «Pur essendo molte volte sul punto di iniziare quel discorso, alla fine ci rinunciò e tenne ogni cosa per sé. Per la prima volta» (p. 38), ma anche in molti altri punti.
5 «Era come se non avesse saputo più guardare dove guardavano Poldo e gli altri» (p. 41); «Non Fiore soltanto, ma anche Poldo, Tobruk e il vecchio gli apparivano come sotto una luce diversa quasi li avesse osservati da un’altra angolazione» (p. 74).
6 «Aveva pensato lungamente a Poldo e a Fausta. […] Quel loro esser rimasti sempre se stessi davanti a lui che cambiava, che si trasformava sino a finire respinto da tutti, gli appariva come il segno di una condanna formulata quasi in segreto, intimamente, e quindi assoluta, ineluttabile» (p. 243).