Mito ed interferenza:
strutture spazio/temporali
in Miti a bassa intensità
di Peppino Ortoleva
Carlo Serra

I. Precipitare verso

Esistono testi che fanno entrare immediatamente nel vivo di un problema, giocando a carte scoperte: il lettore di Miti a bassa intensità scopre subito che la potenza descrittiva della nozione di campo è maggiore di quella, più neutrale, di spazio.

L’idea attorno a cui si costruiscono le innervazioni del testo è semplice e profonda: le narrazioni, e la loro diffusione, creano campi di forze, attraversati in ogni punto da tendenze capaci di sollecitare implacabilmente verso una direzione, anche laddove i vettori tendano a trovare un equilibrio di tipo statico.

Tale tesi ne sottintende un’altra più impegnativa, che ha come oggetto i modi di essere dell’umano, e che enunceremmo così: l’immaginario agisce attivamente in ogni costituzione del reale, lo modifica, e ne cambia la ricezione, in grazia delle forme narrative nelle quali l’uomo è costantemente immerso.

Così, ogni pratica del racconto, ogni categoria che medi fra uomo e mondo, riverbera in un conflitto trasformativo, che tende a animarla plasticamente, a smascherare la traccia che il passaggio da forma narrativa a medium implacabilmente sollecita: anche laddove si veda costituirsi una costellazione di generi, dove i confini sembrino arrestati come contenitori, essi non sono fermi, ma vivono in un equilibrio precario, dove gli orli saranno attraversati da una tensione che ne tende i profili, li individua, ma non può impedirne trasformazioni osmotiche.

Leggendo il libro, si avverte che l’immersione nella bassa intensità delle forme mitologiche ne determini un destino morfologico caratteristico: quanto vediamo collocato in una posizione, è costantemente animato dalla tensione allo spostamento, riplasmandosi dall’interno, passando, continuamente, dal piano della forma a quello della configurazione. Le storie cadono in bracieri, i media, che ne modellano la narrazione, e nel mutare dei contenitori (poema epico, tragedia, romanzo, film, serie televisiva) contenuti narratologici e forme di ricezione si influenzano reciprocamente, mantenendo però una spinta conservativa, una identità della trascendenza dell’immaginativo, che si modifica, si altera, ma non si cancella, pena la perdita del senso della narrazione.

Così, nel conflitto, o nella mediazione, quanto viene a modificarsi è proprio l’essere dell’uomo, il tessuto che ne sostiene le convenzioni, e i modi delle forme culturali: naturalmente, la trasformazione non è cancellazione, perché in un ambiente possono modificarsi luoghi, alterarsi personaggi, ma non si cancellano mai le forze i vettori direzionali.

I recinti che proteggono tempo e spazio mitico sono percorsi da turbamenti di confine, che impediscono loro di far morire i contenuti che proteggono: difficilmente si è pensato con tale radicalità il movimento degli orli, delle membrane che proteggono i nuclei mitologici, perché se il mondo dei media crea interferenze, che riplasmano modi di vita e valori, gli attriti, spesso benefici, fra livelli narrativi si muovono attraverso processi, fasi, che devono inglobare e conservare, spesso spostando il senso delle posizioni d’essere giocate nella storia. Ciò che prima era posto aldilà dell’umano torna a incarnarsi nell’umano in un’altra forma, il mistero diventa il giallo, l’utopia dell’altrove tocca rivoluzioni, forme sentimentali, abbassando apparentemente soglie e finestre temporali, in nome di una fruibilità in cui il valore mitologico continua a brillare.

Forse la differenza più radicale fra questo testo, e gran parte della tradizione sociologica ancora legata al mondo francofortese sta nella rivalutazione dell’incontro fra uomo e medium, in grazia dell’apparente degradazione del mito: chi segua l’avventura delle modificazioni di senso dell’universo mitologico, non vede più le luccicanze e i brillii falsificatori, che Adorno delibava con scrupoloso moralismo, ma autentiche forme del valore, vividamente sentite, che radicano in dimensioni piccole e insostituibili dell’affettivo, palpitando nella tensione ascensionale, e quindi modificando l’ambiente in cui prendono forme le mediazioni, che ne segnano il passaggio da alta a bassa intensità. Nella caduta, esse modificano l’ambiente in cui viviamo, lo fanno vedere secondo i precipitati immaginativi del racconto, creando un vero rovesciamento valoriale della forma di vita. Così, il mito, come il mondo in cui si forma, non è né vero, né falso, ma si rivela potente configuratore di esperienza, stringendo assieme mondo fuggente dell’umano, contenuti, e articolazione del medium, dove ciò che sta in alto e ciò che sta in basso scambiano polarità, per riconoscersi.

Tale processo culturale parte però da un aspetto indifeso dell’umano: un sintomo degli aspetti affettivi nel gioco autonarrativo della nostra specie è la continua ricerca di cerimoniali, che diano il senso delle proiezioni di senso dell’uomo sul mondo, producendo credenze, paure, speranze, feste. Sorridiamo quando incontriamo uno sconosciuto per accogliere: la convenzione si appoggia su una struttura di comportamento ritualizzata, ed ha funzione narrativa. Non stupisce quindi che uno degli aspetti più preziosi di Miti a bassa intensità sia legato alla scelta di descrivere il riverbero del dislivello di intensità nel doppio movimento di attrazione e repulsione nei confronti di narrazioni differenti, nelle quali si continuino a far sentire, il meraviglioso, la sacralità, l’altrove.1

La bassa intensità rende il mito un vettore pervasivo che si modifica nella narrazione, proiettandosi sulle forme della nostra esistenza.2 Ecco esemplificarsi il campo di forze di cui parlavamo all’inizio, lo scontro vettoriale, fra una tendenza alla deintensificazione, alla fruibilità, alla messa in scena immediata della forza del mito, e la persistente attrazione di modelli mitici di origine più antica, che si rispecchiano nella forza del racconto, isolato e al tempo stesso soggetto alla interazioni di un sistema di generi, in cui alto e basso si scambiano le parti, si mascherano reciprocamente, convergono per differenziarsi, secondo una prospettiva eraclitea che innerva i punti salienti di un libro che vorrebbe mostrare, più che dire. Ma la complessità del sistema, impone anche un altro modello di spinta propulsiva, che tocca i nodi interni della narrazione, e la loro individuazione storico-culturale nel travaso: nel processo si creano continuamente raccordi narrativi, che devono proteggere il valore mitologico della storia, della sua forma, dei suoi personaggi, da quello empirico-fattuale della diffusione mediologica. I raccordi non possono trapassare dall’immaginario all’empirico.

Sollecitati da questa doppia tensione, i contenuti narrativi vedono modificare implacabilmente il senso di ciò che proteggono, verso una spinta periferica, di consumo nel mondo, senza mai poterci cadere completamente dentro. Le membrane, che si deformano, per proteggere il valore trascendente del mitologico, lo dislocano in uno spazio-tempo, tutto sotto la presa della logica narrativa dell’immaginazione, della sua capacità di mettere tra parentesi il piano empirico della individuazione storica, attraverso una sfocatura che crea frontiere solidissime. Si legga questo bellissimo passo sulla elusività spazio-temporale nella individuazione immaginativa del mondo del western:

Il fatto è che il West, il mondo aldilà della frontiera, sembra appartenere a un passato storico, databile con precisione, ma resta in realtà parte di un cronotopo mai pienamente definito. Un mondo liminale, di soglia: di frontiera, appunto. Qui sta uno dei segreti del genere, e della mitologia che lo accompagna. Prima di tutto perché colloca queste storie non nello stesso spazio in cui abita ora il loro pubblico e in un passato concreto da cui lo separano poche generazioni, ma in un’età sfocata, dai contorni cronologici mai del tutto precisati, e in un territorio che è, e insieme non è, quello degli odierni Stati Uniti. In secondo luogo, perché il West non ha futuro, e così non hanno futuro i suoi personaggi.3

La mancanza di futuro impedisce lo sfociare nello storico: l’eroe è rovina piranesiana, che modifica il senso del contesto in cui è inserito, un fossile per differenza, capace di ricreare continuamente la bolla narrativa in cui vive, senza logorarsi. Una trascendenza che ci modifica, come una divinità della soglia che muta un contesto, diffondendosi attorno.

II. Forme mimetiche e aperture dell’immaginario

Nel regime di trasformazione, e di transizione fra contenitori, le formazioni fantastiche dello spazio narrativo si trasformano in un ambiente, qualcosa che reagisce alla trasformazione che il medium esercita sul contenuto narrativo, e sull’identità di chi ne usufruisce.

Se la degradazione apparente è riplasmazione della dimensione cosmologica del mitologico nelle pieghe più nascoste e fuggenti del quotidiano, in un gioco di specchi che modifica la stessa consistenza del mezzo, diventa difficile non pensare ad una sistematizzazione del concetto di scambio fra sensibilità fra pelli di cui si è occupato Maurice Merleau-Ponty. Il contatto modifica perché trasmette, e si fa ora fattore culturale: la dimensione di attese del grande racconto, si riempie di aspettative che partecipano, proiettano fuori il nostro modo di essere nel ruolo ora di affabulatori, ora di affabulati, in una armonizzazione di opposti.

Un lungo passo sui rapporti fra catastrofe e industria culturale spiega le interazioni fra questi livelli:

Se il mito è un racconto che fa da ponte tra il vissuto e il cosmo e conferma (proprio mentre le connette) la sproporzione che esiste tra queste due dimensioni, la catastrofe nel suo stesso manifestarsi fa precipitare violentemente l’uno nell’altro il cosmo e il mondo ordinario. L’evento disastroso sconvolge l’equilibrio degli elementi, li fa piombare sulla terra in modo devastante (il vento degli uragani, l’acqua dei diluvi, il fuoco delle folgori e delle eruzioni vulcaniche), o mette in movimento la stessa terra, fino a sfidare l’affidabilità del suolo in cui viviamo […]. Le devastazioni self made della guerra moderna hanno cominciato con l’imitare, attraverso gli esplosivi, l’azione delle folgori e degli uragani, mentre le armi chimiche e batteriologiche, sempre «al bando» e sempre in agguato, imitano e sfidano altre forme di distruzione possibile, dalla pestilenza all’avvelenamento generale. Finché le armi nucleari si sono messe direttamente in competizione con la fine del mondo profetizzata dai miti nordici.4

Le guerre non sono pura narrazione, né forme puramente mimetiche, come il testo spiega bene ma, di fatto, l’innesto di un piano narrativo, dell’immaginario, infine del mitologico, lavora su terreni che vengono dissodati, pre-figurati, all’interno di un incessante scambio di prospettiva, di un dislocamento, che produce ibridazioni, che ora agiscono direttamente nel terreno dell’esperienza, come configurazioni immaginative di tipo progettuale.

Esse investono ugualmente non soltanto il soggetto storicamente determinato, ma anche la capacità di configurazione fantastica del narrare, come accade nel Dracula di Bram Stoker. Non è casuale che tali varianze emergano proprio da una serie di osservazioni notevoli sul vampiro: esse possono essere integrate riprendendo l’orizzonte favolistico in cui viene immersa tale figura in un’opera seminale dell’immaginario musicale novecentesco.

III. Il vampiro e l’ibridazione mitologica

Il movimento di dislivello e tensione si incarna in un Bram Stoker che rivendica una etnografia dell’immaginario, narrando di aver fatto ricerche accurate sul folklore slavo e rumeno, per radicare un personaggio mitologico in un modo esotico, oscuro, irriducibile, certo non immediatamente eurocentrico.

Conte in un mondo quasi estinto, dunque solo e testimone di un tramonto, Dracula è traccia pallida e potente di un mondo perduto, e quindi carattere, nel senso più propriamente aristotelico, aspetto che Stoker enfatizza genialmente, facendolo cozzare sapientemente con indizi del piano tecnologici che parlano del moderno, e che ne circondano arrivo ed evocazione. Viaggio, telegrafo, industria immobiliare e altri elementi ancora, diventano snodi narrativi capaci di sospenderne la figura del vampiro fra due dimensioni.

Nasce così una lacerazione fra livelli ed indizi, che enfatizza la trasposizione mitologica nel moderno. Fuori dal tempo, ma ritornante, arcano più che arcaico, protetto da Castello e Bara come un paguro, e quindi ostaggio che rivive in un narrativo deformato da cinema e letteratura, il vampiro è respinto al confine dell’umano, e principe e prigioniero del regime rovesciato in cui vive.

Ibrido come il pipistrello, finestra tra specie, il vampiro sembra destinato ad essere protagonista di miti ad alta intensità, ma proprio qui emergono la funzione del racconto prima, e del medium poi, sempre che sia ancora possibile distinguerli in modo sicuro.

Per esistere, si osserva, il vampiro deve ibridarsi all’umano nel racconto, passare dal passato arcano al passato prossimo, come accade per i tempi della festa popolare, con un percorso caratteristico. In altri termini, chi lo fa entrare, siamo noi, siamo noi intesi come incontri fatali, o come personaggi che tragittano nel suo mondo, per tirarlo fuori. Ma lo snodo ineludibile è il suo annunciarsi nella nostra dimensione, nel passaggio dal buio dei Carpazi alla luce elettrica della città moderna, comunque flebile, ma capace di individuarlo come Principe delle Tenebre, essenza del demoniaco, e scheggia temporale, innervata di sinistra trascendenza, che rovescia il senso ordinario delle azioni: come la nave dell’Olandese volante, il porto, la nostra vita cambiano di colpo, e, con noi, la sua fino ai topi alla peste, alle tempeste che Nosferatu trascina, assieme alla sua passione per l’umano.

La nozione di ambiente, togliendo neutralità a spazio e tempo, opera anche sulla decontestualizzazione del vampiro, sua unica possibilità di vita. Ed è su questo reciproco spaesamento che si muovono le strutture immaginative della pietà, della compartecipazione, della comprensione.

Ora, nel passaggio, il livello si è alzato o si è abbassato? Cosa significa davvero bassa intensità, se il movimento esiste solo con una uscita dall’assoluto, dal Sacro, anche come lo intende un autore come Otto? Come le forme argomentative eraclitee, il vampiro tocca i due livelli e li congiunge, in un deflagrare di intensità, in una infiltrazione fra livelli, che apre una sezione temporale a sé, anch’essa appartenente a due mondi separati, mossi narrativamente per congiungersi. Separazione e tensione alla fusione sono tendenze estreme in un circolo che sigilla nella figura quanto è comune alle due dimensioni, attraverso la ripetizione, che attenua il carattere dialettico e rafforza l’idea di armonia fra opposti, molto più inquietante: è difficile non pensare subito ad Antigone, che appartiene al mondo dei morti, prima ancora che a quello della giustizia, e che esiste così solo nel medium letto da alta voce della Tragedia. Ma cosa accade nella transizione di un contenuto fra media che ne vengono modificati?

IV. Morsi e travasi temporali

Abbiamo detto che il vampiro, anche il residuo etno-immaginativo di Stoker, muta di consistenza nella tensione vettoriale fra i due regni, che precipitano uno nell’altro, ma deve resistere come figura, e come mediazione col Sacro, proprio perché l’evento, i due passaggi incrociati, assume forza nelle transizioni di intensità. È questo, come abbiamo detto, un convergere eracliteo dove morte, attesa e ripetizione si annullano reciprocamente, proprio perché incombenti una sull’altra, senza potersi toccare: forme di intensità coesistente e incompatibile, secondo una formula che nel libro trova moltissime figurazioni.

Dialogano due mondi, e come sappiamo, due forme temporali, una immanente e l’altra trascendente: esse passano attraverso uno sfondamento che preserva e trasporta. Potremo allora guardare a quel risucchio dell’umano nella soglia del vampiresco che è il morso, e alla propedeutica alla morte: le due cose sono liminari, partecipando in forma diversa al grande tema dell’elaborazione del lutto, come accade nella sincronicità di The Others di Amenabar (2001), giustamente citato nel libro, come forma di parallelismo. Ma questo accade anche dove vi sia un contatto diretto.

Vorremmo concentrarci sulle comunanze che il morso, l’irrompere di un discreto che rompe una continuità, e altera il senso di un intero, ha nel mondo del musicale, dove l’espressione ictus indica l’irrompere di una forma di scansione, di articolazione formale, attraverso quella sublimazione del colpo che chiamiamo accento.

L’ictus segna l’irrompere dell’accento, dell’alterazione ritmica, sul mondo del sillabico: il riferimento linguistico corre verso il morso, la lacerazione, verso, l’accensus, febbre, indicando l’animarsi dell’immenso tempo ordinario, statico in cui siamo immersi che, grazie alle metriche del musicale, viene finalmente percepito.

Come nella transizione dal tempo mitico a quello dell’esperienza, il morso connota l’immagine del prender forma di un tempo dapprima inerte, non avvertito, votato alla autoconsunzione, in linea di principio, eterno, che ora si connette e si modifica nell’ascolto musicale, nella sua valorizzazione in durate che, mentre cantiamo o balliamo, diventano percepibili, fruibili, narrabili. Si apre un’altra irruzione, e un nuovo dislivello temporale e qualitativo, che va a toccare un fattore costitutivo dell’esperienza, il fatto che il tempo musicale esista solo nei regimi immaginosi della narrazione ritmica, nel rapporto che rende il racconto, o la forma musicale, intellegibili.5

E non poteva che accadere questo, che come il ritmo laicizza o ritualizza il tempo, nel divino o nell’umano, così il vampiro, fuori di dimensione, e attratto dai regimi discordanti di alto e basso, si trasformi da alieno a figura della soglia, come le Sirene, come Caronte, essendo soglia egli stesso. E se le Sirene cantavano, immerse nell’ambiente letale dell’isola, e rimanevano alta intensità finché non mediate uditivamente da un ascoltatore eccezionale, Ulisse, il cui tendersi del corpo straziato nell’ascolto è l’immagine di una ritmicità vincolante e protettiva, così il nuovo vampiro si avvicina agli spettatori, si assimila al nostro tempo spazio, tramite la mediazione di un altro mito dialettico, l’amore.

Su questo punto la lettura di Ortoleva è illuminante, proprio nel suo voluto distacco da un piano sociologico: non importa molto che l’Ulisse scosso dal canto delle sirene sia un paradigma culturale altissimo, e il vampiro attratto dall’amore una figura della narratologia mediatica. Quanto rimane non è un parallelismo fra valori, ma l’andamento turbinoso di un sistema narrativo che investe personaggio e narrazione. Tutto questo ha conseguenza forti: nel modificarsi del vampiro Ortoleva evoca, non a caso, il romanzo di formazione, quanto cioè non potevano esperire né Senta, né L’Olandese Volante. In altre parole, nella prospettiva osmotica del passaggio da alta a bassa intensità, i vampiri vengono vampirizzati, divengono una aggiunta dell’umano, ma anche differenza da difendere, qualcosa che resta non omologabile, come un espianto mai concluso: ora sono loro a tendere verso, senza potersi lasciare riassorbire neppure dal medium.

Come le Sirene, che nel mondo greco riemergono quasi con empatia, nella elaborazione dei lutti attraverso le forme trenodiche, dando ripetitivamente consolazione nella dimensione tragicamente incompleta, ripetitiva, del lutto, capace di insegnare il dolore sempre rinascente della morte, che il canto deve temperare, così il vampiro ci viene incontro, ad esempio, nello smarrirsi del sentimento amoroso.

Sappiamo che i vampiri non si fanno assorbire, corrono verso, ma non precipitano: la resistenza è una potenza strutturale dell’immaginario a bassa intensità, che molto rivela, a mio modo di vedere, dei lati nascosti dell’umano, più che del magico. La magia sinistra non si lascia omologare, nessun happy ending cancellerà una trascendenza, che non si decompone, né si fonde completamente nell’incontro col mondo terrestre che ne ha modificato il senso: quanto a dire che la sapidità narrativa si nutre del dislivello.

Nella resistenza, nella irriducibilità del mitologico, emerge così l’attrito relazionale proprio della narrazione a bassa intensità: quando l’autore, a chiusura capitolo, cita il celebre passo aristotelico per cui si prova pietà per l’innocente e terrore per chi ci somiglia, smaschera il gioco dei vettori immaginativi, con uno specchio che non propone una visione riduttiva dell’umano, enfatizzato o trasfigurato, ma un lato del mitologico che la bassa intensità lascia esplodere nel campo di costituzione di differenze formali. Questo precipitato, che Ortoleva coglie con grande sensibilità, ci riconcilia con un’immagine dell’antropologico molto meno linguistica, molto più sfumata, vorrei dire con Wittgenstein, molto più cerimoniale del modo di essere dell’uomo, un’immagine, che emerge senza mai svelarsi completamente e che risulta carica di pietas, secondo una linea che emerge già in alcuni tratti del giovanile saggio sul cinema di Morin, e che qui prende il colore del piacere del tragico aristotelico.

V. Un’ibridazione musicale

È giunto il momento di mostrare un esempio di genesi fra intersezioni vettoriali, trattando un capolavoro paradossale del moderno: tratteniamoci sullo statuto di Il Castello di Barbablù, prodotta dall’incontro fra Béla Bartók e Bèla Balász.

Il Castello ha genesi complessa: essa fu rifiutata nel 1911 dal Ministero delle Belle Arti di Budapest, e portata a rappresentazione il 24 maggio 1918, nel breve periodo di entusiasmo che accompagna la rinascita della cultura ungherese, sotto il governo guidato da Bèla Kun. Verrà poi messa all’indice, dopo la sanguinosa guerra civile vinta dall’esercito guidato dall’ammiraglio Horthy.

L’opera ha come protagonista il Castello, che anima la danza di un Duca rassegnato al proprio vampirismo e di una Proserpina precipitantesi voluttuosamente verso il suo destino. Balász sceglie per il libretto una strana fusione fra il Maeterlinck di Ariane et Barbe-Bleue, messo splendidamente in musica nel 1907 da Paul Dukas, e il Barbe Blue seicentesco di Perrault. A dirla tutta, l’opera, pur avendo legami stretti con i due modelli, e con la drammaturgia di Christian Friederich Hebbel prende comunque una via propria, fin dalla definizione dei personaggi: nel Castello la protagonista si chiama Iudith, il nome della moglie di Barbablù rimanda immediatamente alla sconvolgente rappresentazione dell’erotismo femminile, mescolato all’estasi del funebre, e del sadico, che emerge dalla Judit di Klimt (1901), da quella Adele Bloch Bauer, che si fa icona di un desiderio che riverbera anche sulla Salome di Richard Strauss. Lo stesso accade al Duca, che non sa opporsi al rituale del proprio smascheramento, che implica la perdita dell’oggetto amoroso. Ma forse la cosa più toccante e intensa è la funziona narrativa del Castello stesso, che muove i due personaggi come pedine, e commenta con la musica, quanto accade fra le sue mura, le schegge psicologiche che i personaggi perdono, ed esibiscono assieme.

Cosa ha mai di caratteristico Il Castello, e perché riporta alla forma della bassa intensità?

La costruzione della sua macchina narrativa, in cui il Castello vive e si esprime, giace anzitutto nelle intonazioni vocali dei personaggi, rispetto agli ambienti, che sono la sedimentazione storica del Castello e di Barbablù: ma essa passa anche per scelte visive, come il bloccare la profondità della scena, che inchioda lo spettatore alla frontalità della porta chiusa, concedendo allo spazio solo l’articolazione di una scala discendente, posta in primo piano sulla scena.

L’effetto, meticolosamente pensato fin dai primi bozzetti, gioca con l’idea di una messa in ombra capace di nascondere il senso globale di volumetrie incombenti, rese innaturalmente inaccessibili. Il senso di una simile privazione, un’enfasi monodimensionale, acquisterà consistenza solo quando tutta la scena sarà aperta, una scena trafitta dal contenuto cromatico delle porte, che la inonda del proprio valore simbolico. Esso consiste nell’esplodere irrefrenabile di una sequenza di colori, che squarci il buio, mostrando il lato sinistro del gioco prefigurato fin dall’inizio, vale a dire che ciò viene tenuto ostinatamente al buio sulla scena, altro non sia se non il buio interiore dello spettatore.

Nella strategia, che si muove dal dentro al fuori, diventa essenziale farci intuire le cose terribili celate dalle porte, attraverso il regime intonativo dei protagonisti, secondo un modello che troverà la propria applicazione nelle colonne sonore o nella proiettività della funzione dei visi e dei primi piani che, dal cinema dei primordi fino al cinema di Hitchcock, troverà una forte esplicitazione nell’opera teorica del poeta ungherese.

Il medesimo intento sostiene la tecnica insistita di far tradurre nella gestualità dei personaggi, le reazioni emotive del castello, come accade per il gesto che apre la resa di conti fra Iudith e il Duca: la donna porta le mani sugli occhi, quando scopre che il castello “piange”, catturandone in sé il climax, in una possessione progressiva, che un corpo attoriale racconta come torcersi all’esterno di un’atmosfera.

L’intuizione più impressionante, tuttavia, sta nella scelta, profondamente pre-cinematotografica, di costruire l’opera attorno all’idea di una spazialità diffusa, che interagisca con i personaggi, in modo sistematico: il tema di un suono mondo, di un suono che si muove in una spazialità tutta affettivamente investita brilla nell’orchestrazione, che permette all’ambiente che circonda i protagonisti di dialogare alla pari con i personaggi che lo abitano, di fungere da filtro nel loro ascolto reciproco, creando differenti veli di consapevolezza, e si rivela sapiente nell’elaborazione di uno stile che riporta l’immediatezza del parlato nel cantato teatrale, giocando sulla sua interna mobilità ritmica.

VI. Il Castello come macchina narrativa: sentire nell’ambiente sonoro

L’ambientazione si riverbera così nella semantica determinata dal rapporto suono colore, nell’ascolto reciproco dei personaggi, persino nella mobilità affettiva dei loro gesti, ma tutto questa ricca serie di temi non esaurisce il senso di un’opera la cui portata teorica ci parla soprattutto del peso della memoria, che imprigiona desideri e destini, come accade per le belle mogli di Barbablù.

L’intreccio di tali motivi, saldamente connessi uno all’altro, spinge per essere indagato in relazione al tema della rappresentazione del tempo, e del rumore, i veri doppi della coppia che abita, da sempre, una struttura fecondata solo dal reciproco gioco di ruoli fra voce e ricordo, sangue e amore, soggetto e funzione. Iudith vive dunque fra seduzione ed afflizione, fra innocenza ed erotismo sapiente, fra malizia e purezza, lasciando emergere l’intreccio di questi lati, in una caratterizzazione vocale, che si muove fra i limiti di canto e parlato. Lo stesso accade al personaggio maschile, brutale e rassegnato, appassionato e spento, tetro e compiaciuto, tenero e boia, in una tensione fra opposti che prende forma nella reazione dialettica legata al modo reciproco di nominarsi della coppia, alla reazione a quanto si vede e a quanto non si vede, a quanto si sente, e a quanto non si sente, a quanto si chiede, senza mai poterlo raggiungere. In mezzo, ospite silente, e padrone di ogni azione, Il Castello, che dobbiamo intendere come personaggio e vero narratore, come divinità della soglia, che vive del sangue e dello sfinimento dei suoi personaggi. Basso e alto, alta intensità e bassa intensità precipitano di nuovo assieme, creando un violento conflitto vettoriale, dove il protagonista è l’ambiente, mentre la vittima dell’atto conoscitivo, dello strappare fuori dal buio, è il vampiro.

La vittima che danza ed il ritorno al tema del vampiro, i moduli simbolisti e il colore espressionista, verranno neutralizzati, nei gangli di una narrazione, che cerca il proprio senso nella celebrazione della memoria, nella riattivazione di una circolarità del tempo, di cui i due personaggi sono le semplici maschere in fuga, cardini che vorrebbero inutilmente allontanarsi dalla loro funzione, per far rovinare l’intero castello a terra. Stavolta l’incontro è vampirizzato dal motore narrativo, che lo soffoca al suo interno, imponendo ai personaggi il destino eterno di suoi narratori.

Di fronte ad una costruzione così bizzarra, lontana dalle forme canoniche del simbolismo, viene spontaneo chiedersi in che senso l’opera parli del mito, e del ricordo, evidentemente inteso come ritualizzazione da cui uscire, come peso intollerabile da cui sottrarsi. Il peso è celato dalle Porte, e si esprime come luminotecnica e sconvolgente commento musicale, senza parole. Il ricordo di un tale lavorio semantico tornerà in Balász, quando il teorico del cinema riaffronterà il tema della ricostruzione dell’esperienza, sollecitato dal fatto che nuovi mezzi di comunicazione tematizzano aspetti della sensibilità arcaici, che riemergono grazie ai media, dopo lunga latenza. Sono strutture sotto traccia dell’umano, che ora riprendono la pienezza del proprio senso.

Aprendo un’opera dedicata all’avvento del sonoro nel cinema, scritta molti anni dopo il libretto di Il Castello, Il film, che raccoglie e compendia la sua teoria cinematografica, pubblicato nel 1949, incontriamo un’ampia sezione dedicata al tema de «Il Film Sonoro». Balász, memore del suo lavoro di librettista, lega assieme concetto di ambiente, e dimensione del suono: riprendendo un testo del 1921, osserva:

Se il film sonoro […] si limiterà a parlare, a far musica e a imitare rumori (come il teatro fa da secoli), rimarrà uno strumento imitativo anche nella fase più alta del suo sviluppo tecnico. In arte si può parlare di scoperta solo quando si scopre qualcosa che finora era celato dinanzi ai nostri occhi o alle nostre orecchie.6

Il cinema sonoro non deve imitare il rumore, ma scoprire qualcosa che giace inavvertito all’interno della nostra esperienza quotidiana. È uno spessore mitologico che agita il mondo simbolico dell’esperienza, e sussurra, per spremersi fuori. L’avvento del sonoro è così apertura sulla dimensione interna dell’esperienza, uno strato che il cinema permette finalmente di portare alla luce: non si tratta quindi di negare il carattere realistico che l’introduzione del suono proietta sull’immagine in movimento, ma di far esplodere sullo schermo una dimensione ancora nascosta, che lo strumento scopre (si scopre quel che già c’è), e che giace inesplorato in una regione che tocca occhi e orecchie, preannunciando una sintesi incombente fra spazio e tempo.

L’aspetto si chiarifica ulteriormente nella sezione dedicata all’Ambiente acustico, dove lo spazio appare già modificato nel nome, in un luogo pervaso di suono, di componenti atmosferiche, una dimensione che è permeata di un’affettività dialogica, che tocca le corde espressive dell’uomo in ascolto.

Tocca al film sonoro scoprire l’ambiente acustico, il “paesaggio sonoro” in cui viviamo: la parola delle cose e il recondito linguaggio della natura. Insomma, tutto ciò che in questa molteplice rivelazione della vita parla a noi al di fuori del linguaggio umano, e influisce e guida ininterrottamente i pensieri e i sentimenti dell’uomo. Tutto, dalla voce possente del mare al rumore della metropoli, dal fragore delle macchine al melanconico stillicidio della pioggia sui vetri delle finestre.

La vita e le cose parlano a noi quando in una stanza vuota il pavimento scricchiola, quando un proiettile passa sibilando vicino all’orecchio, quando i tarli rodono i vecchi mobili, quando la fonte gorgheggia nel bosco. I poeti più sensibili hanno sempre saputo avvertire e descrivere questi significativi suoni della vita. Tocca al film sonoro, adesso, farli entrare nel nostro mondo.7

Opera e Film sonoro, Castello e microfono, sono specchi che, attraverso la proiezione dei lati più intimi e sentiti dell’esperienza, raccordano la nostra esistenza al cosmo. Per narrare la svolta sonora, l’Opera ha dovuto ibridarsi col cinema, sbarrando lo sguardo, perché lo spettatore si proietti nel Castello, avvertendo nelle reazioni del personaggio che vede ciò che non può vedere, ciò che è sbarrato da una colonna di colore.

La bassa intensità crea un cortocircuito che mitologizza la tenera umanità di due figure sinistre, che possono esistere solo nel racconto, solo nel Castello, nella transizione che li sfibra e li rende mito. Nel farlo, anche la musica si adegua allo statuto atmosferico: i commenti espressivi al canto, che caratterizzano contesti sonori attraverso cui l’ascoltatore deve immaginarsi gli oggetti, gli scenari, che creano reazione emotiva sul personaggio, sono disposti sullo stesso livello di importanza delle intonazioni vocali, che ci fanno entrare dentro al personaggio.

Sono colonna sonora, ma nel senso in cui lo intende la seconda citazione: che il materiale dell’Opera sia tratto dal mondo a bassa intensità della canzone popolare, che per il compositore ungherese indica l’accesso alla via mitica, chiude il senso del nostro problema. L’implodere della bassa intensità con la alta ha dato vita all’intreccio che sostiene la vita dei tre personaggi, della macchina narrante, il Castello, e di Iudith e Barbablù, che vivono eternamente sospesi, guardando nella finestra delle nostre interferenze.

Note

1 P. Ortoleva, Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana, Torino, Einaudi, 2019, p. 166.

2 Mi è difficile non ricordare la bella discussione sulla funzione narrativa del cerimoniale e della festa, che Piana intesse partendo dai commenti di Ludwig Wittgenstein attorno al Ramo d’oro di Frazer, quando si osserva, andando oltre la posizione del filosofo austriaco, che l’«ipotesi» sull’origine della festa mitica non è altro che la presentazione degli stessi nessi strutturali dell’evento nella forma di un processo, un processo, diremmo noi, narrativo. Ed è perciò in generale pensabile che si produca una divaricazione tra origine storica effettiva e struttura attuale della simbolizzazione. Potremmo così ipotizzare una origine futile per la «sinistra» festa di Beltane; ma se alla sua forma attuale inerisce una dimensione di «profondità», questa non verrebbe tolta dalla verità dell’ipotesi sulla futilità della sua origine. Cfr. G. Piana, Wittgenstein lettore di Frazer [1976], p. 11.

3 Ortoleva, Miti a bassa intensità, cit., p. 180.

4 Ivi, p. 243.

5 Il passaggio dal sacro al profano viene ben rilevato nel Par 2. «Venuto da un mondo di morti: il tempo/spazio del vampiro». Ivi, pp. 171-173.

6 B. Balász, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, trad. it. di G. e F. Giammatteo, Torino, Einaudi, 2002, p. 210.

7 Ivi, pp. 210-211.