
Per addentrarsi nell’ultimo libro di Marina Paino Concordanze liriche, la premessa potrebbe essere l’antica ma sempre valida definizione di «funzione poetica» del linguaggio, che fu fornita a suo tempo da Roman Jakobson: proiezione del principio d’equivalenza dall’asse della selezione (paradigmatico) a quello della combinazione (sintagmatico). Visto da questa specola il metodo critico delle concordanze appare frutto di un moto uguale e opposto a quello disegnato dall’insorgenza poetica, in quanto prova a riportare il moto della parola à rebours, alle sue scaturigini più profonde, procedendo a ritroso dal piano sintagmatico a quello paradigmatico. E ponendo i suoi intriganti risultati tutti in piena luce. I saggi del volume Concordanze liriche sono imperniati attorno a questo tipo di approccio e ne dimostrano, qualora ce ne fosse bisogno, l’indiscutibile utilità.
Il campo di studio messo sotto osservazione dalla studiosa con la consueta perizia è quello del nostro maggiore Novecento lirico. Ma quello che più impressiona è l’ampiezza dei temi posti in rapporto con l’espressione poetica: il poeta e la donna, la malattia e la morte, il viaggio ulissiaco, una certa inquietudine religiosa, il delicato intreccio tra poesia e società.
Prima di tutto va segnalata la massima apertura di compasso fra l’indagine garbatamente “intransitiva” sulla frequenza e il significato del lemma “parola” in alcune raccolte liriche, e la disamina volta a scandagliare, viceversa, il rapporto della poesia con l’altro da sé per eccellenza: i risvolti sociali della moderna estraneazione e deperimento dell’esperienza. In quest’ultimo caso si può osservare addirittura una struttura perfetta, quasi ad “anello”. Il libro parte infatti dall’analisi dello Sbarbaro flâneur di Pianissimo (1914), coi suoi occhi asciutti e i «sensi vuoti», baudelairianamente inariditi dalla reificazione cittadina, e si chiude con uno studio sul poemetto Una visita in fabbrica (1962), in cui Sereni mette alla prova i suoi strumenti di comprensione e di immedesimazione nel mondo del lavoro operaio, o meglio, come suggella questo eloquente hapax sereniano, messo in evidenza dalla Paino, nel suo doloroso «inferno».
Ma procediamo ancora lungo questo moto concentrico e a spirale. Se allo studio sull’aridità dei sensi in Sbarbaro può fare da ideale contraltare quello sull’occhio cromaticamente educato di un Quasimodo, capace di dialogare in modo fecondo con le arti figurative, a quello sulla fabbrica secondo Sereni si può “opporre” la vertiginosa mise en abîme critica sull’incidenza del lemma “parola”, sia nel Sereni di Frontiera (1941, poi 1966), sia nel corpus lirico sempre di Quasimodo. Emerge ancora una volta una divaricazione vistosa degli esiti. In quest’ultimo caso infatti la frequenza del lemma risulta tanto alta quanto semanticamente articolata, mentre nel caso di Sereni si registra una presenza minima, benché incardinata in punti salienti. Siamo di fronte a un vero e proprio «motivo in absentia», che riemerge però dai suoi silenzi in simpatetica liaison con quello dell’acqua, «sostanza privilegiata della poesia» sereniana e speculare corrispettivo dell’assenza di parola.
Il rocchetto tematico della rappresentazione poetica di figure femminili viene dipanato innanzitutto attorno al Luzi della Barca (1935). Qui tali presenze vengono connesse all’idea stessa della navigazione, come a ribadire, osserva la studiosa, «la significativa saldatura tra l’area semantica che presta il titolo alla raccolta e le centrali epifanie muliebri che la costellano». Ma non manca l’appassionata inchiesta critica sulla “misteriosa” Adelheit, che Montale sbozza dall’argilla della sua tarda stagione lirica, quella del verso. Nelle pagine dedicate a Rebora ci ritroviamo davanti all’ennesima polarità. Oscilliamo infatti tra l’esaltazione della “missione salvifica” della donna, sulla scia della Beatrice dantesca, e l’amore tutto carnale verso la «lucciola» Lidia Natus. Qui tra l’altro, dissodando con pazienza certi solchi lessicali, viene riportato alla luce un corposo episodio di petrarchismo reboriano, innescato dalla non estrinseca coincidenza tra giudizio critico sulla Laura petrarchesca, intesa da Rebora come «motivo musicale», e la musicista Lidia.
È nell’epistolario di questo autore, infine, che affiora in modo lampante, come avevano ben capito sia Carlo Bo che Prezzolini, la saldatura fra tensione poetica e vocazione religiosa. Ma la questione del rapporto col divino si allarga, seguendo la Paino, fino a Montale. Il saggio intitolato L’io lirico e l’uomo altro esplora questo colloquio lirico con un tu che non sa e che «ha comunque in qualche modo a che fare con la distante alterità della divinità». Questo enigma della distanza ci viene mostrato come fatto tangibile, e soprattutto di lunga durata, a partire dagli Ossi di seppia, con i Limoni, fino almeno alla Bufera, con Vento sulla Mezzaluna. E fatalmente qui si fa strada tra i pensieri dell’umile lettore quell’adagio spinoziano, che sarà reso celebre in seguito da Goethe, per cui chi ama Dio non può pretendere di essere da Lui riamato.
Si confermano dunque plurime, e sottilmente sfaccettate, le chiavi di lettura aperte dalle pagine di Concordanze liriche, il che contribuisce a testimoniare ulteriormente la qualità della ricerca che ad esse è sottesa.