György Lukács
Lo stesso Genovese, presentando sul sito de «Il Ponte» la Fondazione per la critica sociale, mette insieme due idee o se vogliamo due speranze: restituire alla critica uno statuto militante e rimettere al centro della discussione il conflitto sociale. Un programma non da poco, la cui difficoltà principale consiste nel fatto che il conflitto sociale al momento non è al centro né del discorso critico né di quello politico in generale. E se, anzi, esso è in qualche modo ravvisabile nell’insoddisfazione latente che accompagna la vita dei “nuovi giovani” e non solo, e potrebbe quindi a volte riuscire a venire alla luce, il suo corrispettivo oggettivo, ovvero il conflitto di classe, è totalmente sparito dall’orizzonte. Lo spostamento del conflitto di classe in conflitto sociale dovrebbe essere forse un punto di partenza di una discussione che si voglia critica. A quale classe o ceto o gruppo economico sociale o genere ognuno di noi appartenga e in nome di cosa e contro chi voglia indirizzare la sua attività intellettuale: sono domande, oggi più che mai, tutt’altro che scontate e che aiutano a considerarci tutti come inseriti dentro il conflitto.
Prima ancora, però, di entrare nel vivo di argomenti che richiedono un’attenzione specifica, mi pare valga la pena attenersi a un piano programmatico, enunciando subito due presupposti del ragionamento.
Il primo è che non esiste critica sociale che non sia anche politica. Il secondo è che, se è vero che per fare politica non bisogna necessariamente militare in un partito o in un sindacato, è anche vero che non si può affidare alla semplice pratica della scrittura il compito della critica. Scelta del tema e struttura dell’argomentazione sono certamente fattori rilevanti, ma solo nella misura in cui vengono inseriti in un contesto in base al quale trovano senso. Il contesto è la politica, intesa qui come un insieme di pratiche organizzate, ma anche come forma di consapevolezza del proprio ruolo, del modo e dell’ambiente in cui si opera. In ultima istanza la differenza tra intellettuale e lavoratore della cultura non sta né nella professione svolta e quindi, per estensione, nell’appartenenza a un ceto (essere professore universitario, precario della ricerca, autore più o meno inserito in un circuito editoriale, copywriter oppure insegnante, archivista, bibliotecario etc), né, tout court, nel fatto di avere una produzione scientifica (articoli, libri, recensioni, partecipazione a convegni, eventi televisivi o radiofonici). La differenza è politica, ovvero risiede nella capacità di indirizzare verso una determinata funzione il ruolo sociale che per un motivo o per l’altro si occupa.
A questo punto però non si può tacere che l’attività intellettuale, anche quando abbia esplicitamente e programmaticamente vocazione politica, resta pur sempre un’attività produttiva e come tale va considerata in relazione a quella che una volta veniva definita “l’industria culturale”, ovvero il suo specifico contesto economico-organizzativo.
Non vale la pena qui soffermarsi sul fatto che fino a qualche decennio fa esisteva una fetta del mercato culturale egemone che programmaticamente si poneva il problema di incidere nel tessuto sociale per trasformarlo. Case editrici, riviste e addirittura qualche sparuto dipartimento universitario. L’intellettualità di allora aveva dunque un punto di riferimento che costituiva non solo lo sbocco per la produzione e la remunerazione del proprio lavoro, ma anche un orizzonte di discorso con il quale misurarsi. Questo contesto non esiste più ed è inutile rimpiangerlo, dal momento che esso faceva riferimento ad un più generale modello produttivo che si è trasformato. Bisognerebbe dunque capire, nella fase attuale di sviluppo del sistema di produzione capitalistico, in questo specifico angolo di mondo occidentale, quali siano le forme praticate e praticabili di sviluppo delle attività produttive che possano o vogliano farsi carico di un discorso attualmente marginale.
D’altra parte è impossibile fare attività critica di qualsiasi tipo se non esiste un discorso, non specialistico, ma sociale in senso ampio e se non esistono contesti produttivi adeguati, in grado di sostenerne gli sforzi.
Ne deriva che l’attività praticabile in questo momento si dovrebbe indirizzare su due fronti: il primo, rintracciare i luoghi, anche i più marginali, di discussione e lotta politica, ovvero quei luoghi in cui persone concrete mettono insieme le proprie conoscenze per riflettere sulla propria e sull’altrui condizione. Si tratta di fare una mappatura dei luoghi politici e pre-politici, non per decidere di aderirvi, ma per avere chiaro il livello attuale della discussione e per inserirsi in essa. Sarà a questo punto indifferente parlare di Dante o di Lenin, ma l’uno o l’altro potranno avere un’incidenza pubblica, anche minima ma reale, solo se saranno in grado di recepire una esigenza effettiva, una domanda sociale e attuale.
Il secondo fronte su cui indirizzare gli sforzi è quello organizzativo: creare, ognuno in base al proprio ruolo e alle specifiche competenze, spazi strutturati e finanziati di riflessione e parteciparvi. Quando si parla di impegno si intende infatti partecipazione e costruzione.
Questi i margini per un programma minimo, che non cambierebbe il mondo ma sicuramente il modo di percepirlo di ognuno di quelli che decidano di aderirvi.
Scriveva Fortini nel 1992 «Ho sempre avuto bisogno (e c’è bisogno assolutamente oggi, non solo per me) di compagni, non di lettori».2
Note
1 Vd. Incontro sulla critica, Siena, 15 aprile 2016; la relativa discussione è in uscita su «Il Ponte», 11/12, 2016.
2 Lettera a Partesana, 10 gennaio 1992, AF.