Luigi Blasucci,
Nuovi studi montaliani
Michela Davo

Luigi Blasucci, Nuovi studi montaliani, a cura di N. Scaffai, Pisa, Edizioni della Normale, 2023.

Nuovi studi montaliani è un libro postumo, pubblicato a cura e con una postfazione di Niccolò Scaffai, e comprende saggi già editi che Luigi Blasucci ha dedicato a Montale tra il 2005 e il 2013, in anni successivi all’uscita di Gli oggetti di Montale (2002, ristampato nel 2010). Come dichiarato dal curatore nell’Avvertenza (p. VIII), Blasucci ha più volte espresso la volontà di lavorare a «un secondo libro montaliano». In assenza, almeno finora, di materiale effettivamente inedito, il volume risponde idealmente a questo desiderio e si situa, nelle scelte editoriali, in continuità con i lavori pubblicati dall’autore stesso: gli articoli, divisi in due sezioni sulla scia degli Oggetti di Montale, sono raccolti sotto un titolo (Nuovi studi montaliani) che riecheggia una scelta già adottata da Blasucci in precedenza, con riferimento a Leopardi, e a sua volta inserita nel solco di una tradizione novecentesca più ampia (si pensi a Studi e Nuovi studi leopardiani dell’amico Sergio Solmi, più volte menzionato nelle indagini di Blasucci).1

I nuovi saggi montaliani mostrano una fedeltà a temi e metodi (la presenza di Leopardi, la tentazione del commento e la sensibilità per la didattica), ma anche uno stile “tardo” e un’apertura al Montale del «rovescio», in particolare a quello del comico.2 In conformità con questo quadro, la prima parte del volume contiene cinque letture dagli Ossi di seppia al Quaderno di quattro anni, che fanno ordine all’interno delle proposte interpretative avanzate dalla critica e offrono nuove, fondamentali considerazioni; la seconda, invece, si sofferma sul Contini interprete di Montale, e su modi e forme del commento scolastico.

Il saggio incipitario, Spesso il male di vivere ho incontrato, dialoga con studi già noti, attraverso un’analisi di sintagmi o motivi restituisce una storia aggiornata del testo, del dialogo simmetrico tra le due quartine e dei possibili debiti d’ispirazione: al di là dei singoli rimandi a opere e autori, assumono particolare rilievo dal punto di vista interpretativo le figure di Leopardi e Schopenhauer.

Di stampo leopardiano (così per Angelo Marchese e Gianfranca Lavezzi) sarebbe l’ascendenza della tessera centrale del primo verso («il male di vivere»), che potrebbe tuttavia rifarsi anche a un romanzo di Léon Bloy (la proposta è di Tiziana Arvigo) o a un racconto di Francis Jammes, mostrando in quest’ultimo caso una più spiccata connotazione etico-esistenziale. Non meno complessa la rete di referenze dei tre «esseri sofferenti» evocati nella prima quartina. Pur trovando un antecedente linguistico-letterario nel Carducci di Presso una Certosa, «il rivo strozzato che gorgoglia» implicherebbe, in modo speculare, un’allusione ideologica a Schopenhauer, con specifico riferimento a un passo (già segnalato da Giovanni Bardazzi) di Morale e religione, antologia del 1908 con buone probabilità nota a Montale; la sostituzione in favore di «strozzato» del vocabolo precedente («ingorgato») muoverebbe, secondo Blasucci, in direzione di una maggiore umanizzazione degli elementi in campo, oltre a fornire una prova del modo di lavorare di Montale, attento a evitare l’effetto di disturbo nel testo più che a caricarlo di rimandi letterari (tra quelli suggeriti dalla critica, Blasucci menziona il Dante di Inf. VII e, con maggiore convinzione, il Croce di Poesia e non poesia, citato da Lonardi a proposito del sintagma «vita strozzata» di Arsenio). Mentre per «l’incartocciarsi della foglia» il ricordo di Pascoli (magari mediato da Mario Novaro, Sbarbaro e Ungaretti) sembra all’autore indiscutibile, «il cavallo stramazzato» potrebbe avere come fonte d’ispirazione sia Creature di Francesco Gaeta sia un episodio di Delitto e castigo: ma, al di là dei possibili rinvii, questi ultimi due sintagmi per Blasucci sono in ogni caso accomunati da una sorta di statuto ontologico, mediato dalla lingua, che ne evidenzierebbe il carattere di azione in atto. Il contrapporsi, nella seconda quartina, delle tre figure all’indifferenza degli elementi (la statua, la nuvola, il falco) potrebbe far pensare tanto al «pessimismo “cosmico”»3 di Leopardi quanto a quello schopenhaueriano del Mondo come volontà e rappresentazione, nei cui confronti l’operazione montaliana si pone, tuttavia, come momento di superamento dialettico.

Il secondo saggio riguarda il “mottetto” Non recidere, forbice, quel volto, parte del «romanzetto autobiografico» (p. 16) ispirato da Clizia e veicolato appunto dai Mottetti, seconda sezione delle Occasioni. Anche in questo caso, il discorso di Blasucci prende le mosse da un’analisi metrico-stilistica dall’interpretazione del testo, in dialogo, spesso critico, con precedenti indagini sul tema; chiarisce, a partire dallo schema metrico, ricontestualizzando il ruolo della prima redazione nella lettera a Renzo Laurano del 17 novembre 1937 e in riferimento alla suddivisione delle poesie in «due unità» (p. 22), la piena continuità del testo con il resto dei mottetti; riconduce la bipartizione di Non recidere, forbice, quel volto al racconto di fasi e tempi diversi, benché parte di un unico processo, segnati da mutamenti figurali e non referenziali. Blasucci individua poi nella corrispondenza tra le due quartine la testimonianza del «”correlativo oggettivo”» di ascendenza eliotiana, specificando l’estraneità al modulo di parte delle Occasioni: nella raccolta, gli oggetti rivestirebbero più che altro il ruolo di «barlumi» e i Mottetti assurgerebbero allo status di «canzoniere d’amore» (p. 27, n. 30), dalla struttura non lineare ma in linea con il modello petrarchesco e con quello dantesco, secondo uno schema proposto da Scaffai.4

Il terzo e il quarto saggio esaminano l’impiego dell’anafora, con specifico riferimento a due testi in questo senso esemplari: Divinità in incognito e Le stagioni.

Nel primo si invita a ridimensionare il grado dell’abbassamento di tono rintracciato da certa critica in Satura, sottolineando piuttosto gli effetti «umoristici, ironici, parodici» (p. 29) generati dalla coesistenza di lessico quotidiano e di aulicità figurale-retorica, sostenuta ad esempio dal ricorso a metri canonici. In ogni caso, uno scontro di questo tipo, sostiene Blasucci, coincide solo in parte con l’ironia gozzaniana, per due motivi: mentre quest’ultima sfocia in autoironia, in Montale le velleità ironiche ricadono anzitutto nel mondo circostante (la «realtà esterna», p. 29), portando a esiti comico-sublimi anziché ironico-elegiaci. Non sfugge a questo reticolo l’uso, in Satura, dell’anafora, già attestata nel corpus montaliano, ma sempre nel contesto di un tono lirico e non necessariamente in posizione dominante rispetto ad altre figure retoriche. Nella raccolta del 1971, invece, l’anafora è, per Blasucci, «figura di raziocinio» (p. 33), che può declinarsi in due funzioni con risultati distinti: quella catalogatoria riduce il lirismo a favore della denuncia; mentre quella asseverativa incrementa il ruolo della dimostrazione, senza necessariamente privarla di risvolti poetici. L’analisi di Divinità in incognito, condotta all’insegna di questa ricerca, consegna tre situazioni anaforiche: la prima è costituita dalla ricorrenza del verbo «dire» a inizio sequenza o al suo interno; la seconda dal susseguirsi, ai versi 17-20, di sostantivi femminili appartenenti, in senso lato, a una medesima categoria («deità», «sacerdotesse», «pizie», «numinose fantasime»); la terza dalle congiunzioni dichiarative della penultima strofa. La suddivisione del testo in quattro organismi risponde inoltre alla dialettica tipica dei dibattiti retorici, in certo modo simile alla struttura dell’ultimo elemento della prima serie di Xenia (Dicono che la mia…). Infine, per stabilire l’oggetto del principale rifiuto di Montale, Blasucci si appella alla Lettera da Albenga (che apparve nel 1963, prima di entrare a far parte di Auto da fé), in cui vede una «chiosa ante litteram a Divinità in incognito» (p. 37).

Le stagioni (il titolo per Blasucci riecheggia, in modo antifrastico, l’omonimo componimento ungarettiano) ha come modello la sestina di ascendenza provenzale e nel numero quattro (quattro le stagioni e i versi dell’ultima strofa) una chiave di lettura fondamentale. La presenza dell’anafora è dichiarata sin dal primo verso («Il mio sogno non è nelle quattro stagioni»), che metricamente funge da ritornello della ballata e, retoricamente, dichiara il concetto cardine del componimento e delle negazioni parziali che seguono («Non è nell’inverno», «non è nella primavera», «non è nell’estate», «non è nell’autunno», «non sorge mai dal grembo»). Ma l’anafora compare anche, in tono minore, in richiami più brevi alla negazione inaugurale. Il saggio, infine, si conclude con approfondimenti sul significato e sulla letterarietà di passi o vocaboli, a proposito dei quali Blasucci amplia o rettifica interpretazioni avanzate da altri; colloca il rifiuto del tempo come routine in continuità con una tendenza nota sin dagli Ossi e destinata a trovare rinforzate attestazioni nel Montale successivo a Satura (ad esempio in La pendola a carillon, nel Diario del ’71 e del ’72); evidenzia un richiamo al Medioevo letterario nella forma di «anti-plazer» (p. 53) delle Stagioni, che si tradurrebbe nell’allusione, tra gli altri, anche al genere dell’enueg.

L’educazione sentimentale, cui è dedicato l’ultimo saggio della prima sezione, si apre con due rimandi per così dire proemiali, non privi di implicazioni esistenziali, alla letteratura francese: il titolo riscrive quello del celebre romanzo di Flaubert, mentre il primo verso della poesia contiene una citazione da un verso («Ce toit tranquille où picoraient des focs!»),5 in questo caso l’ultimo, di Le cimetière marin di Valéry. Sin da subito, inoltre, è chiara l’eco dagli Ossi (il «mare che ribolle», ad esempio, può far pensare a Fine dell’infanzia, ma ciò che negli Ossi era una minaccia, è ora una condizione perenne, veicolata per mezzo di uno stile per l’appunto comico, anziché tragico) e la volontà di rievocare bersagli e credenze della temperie culturale in cui Montale si è formato, da cui è stato influenzato e verso cui ha talvolta opposto resistenza. Il testo, inseribile nella lirica comico-sublime individuata in precedenza, è di costruzione «quasi regolare» (p. 58) e si divide tematicamente in due blocchi. Il primo riprende due crucci di tipo filosofico, uno di stampo esistenziale «tra evoluzionismo e creazionismo» (p. 62, già centrale in Divinità in incognito) e l’altro relativo alla possibilità che la divinità abbia bisogno degli uomini; le radici di entrambi sarebbero da ricercare anche nell’educazione ricevuta da Montale durante l’adolescenza, di cui Blasucci analizza momenti, possibili sopravvivenze e tangenze con la maturità (il «ragazzo col ciuffo» del verso 10, dopotutto, non è indizio di una circoscritta età anagrafica). Sono da situare in continuità con il clima del periodo di ideazione e composizione della lirica dubbi successivi, come quello indirizzato ai Garanti e al sostegno dato tanto allo sviluppo tecnologico quanto a una scienza positiva che, sul piano filosofico, avrebbe polemizzato con il sistema hegeliano.

Il secondo blocco fa riferimento al campo letterario e rende conto di giovanili fascinazioni attraverso un’enumerazione, dove trovano spazio «Chimere» (D’Annunzio, Campana, ma soprattutto Gérard de Nerval), «larve di un premondo» (ancora una volta Nerval, ma anche la poesia simbolista e un certo tipo di pittura presurrealistica), «veggenti» (i voyants di Marcel Raymond e Campana), «insani» (Nerval, Campana, Nietzsche), «sapienti» (tra cui Rudolf Steiner ed Édouard Schuré) e «Santi».

Seguendo una struttura circolare, la poesia si chiude con un rovesciamento della citazione iniziale da Valéry (ora negata e manipolata), secondo un processo che Blasucci definisce a partire dalla terminologia di Roberto Orlando; e con un passaggio dal «leopardismo sui generis» di Fine dell’infanzia, più volte menzionata come ideale termine di confronto, a un finale e anti-leopardiano «pessimismo storico-epocale».

La seconda parte del volume comprende invece i saggi Di Contini su Montale e Lettura in classe e commento scolastico. Esempi da Leopardi e Montale.

Nel primo, Blasucci ripercorre gli interventi di Contini su Montale, soffermandosi su due recensioni: entrambe, una apparsa nel 1933 (Introduzione a «Ossi di seppia») e l’altra nel 1938 (Dagli «Ossi» alle «Occasioni»), avrebbero sia il pregio di circoscrivere la matrice ultima di alcune considerazioni continiane, che negli anni resteranno di fatto inalterate, sia di segnare una svolta nel rapporto tra i due, testimoniata anche dal carteggio di Montale con Irma Brandeis e Solmi.6 In ultima analisi, per Contini gli Ossi conterrebbero esempi di «poesia», tale quando caratterizzata dalla presenza di un oggetto salvifico, e di «non-poesia» (definizione distante dall’uso applicato al caso leopardiano), ossia aridamente descrittiva se priva di un «fantasma salvifico» (p. 80, in opposizione a questa concezione, Blasucci ricorda che, negli Ossi e dopo, non poco spazio è riservato all’espressione del «male di vivere» e dell’atonia):7 è a partire da queste considerazioni che la recensione del 1938 identifica nella lirica successiva agli Ossi una svolta in direzione della «poesia», suscitando in Montale un dissenso che nel 1940 trova espressione, in modo indiretto, anche in un articolo dell’amico Solmi sulle Occasioni, probabilmente concordato con il loro autore.8 Il pensiero solmiano, che, letto a posteriori, a Blasucci pare maggiormente lucido rispetto a quello pure ritenuto imprescindibile (ma inibito da resistenze “teologiche”) di Contini, assumerà poi una forma ancora più compiuta in La poesia di Montale (1956), dove il passaggio dagli Ossi alle Occasioni sarà visto come transizione dalla «poesia “universalistica” della giovinezza» all’«unicità di una storia personale» (pp. 83 e 84).

Chiude la sezione un saggio che, per molti versi, riassume le coordinate dell’intero volume, degli interessi di studio e della parabola d’insegnamento di Blasucci. Scritto a partire da una relazione tenuta all’Università di Bologna nel 2008, Lettura in classe e commento scolastico affronta compiti e difficoltà di un insegnante nelle scuole superiori. L’indagine è resa tanto più autorevole da un’esperienza personale durata diciannove anni, cui Blasucci attribuisce particolare importanza nello sviluppo di uno stile espositivo chiaro e semplice, necessario sia per veicolare agli studenti urgenza e attualità della letteratura sia per affrontare nodi critici. Il commento scolastico dovrebbe poi insistere sulla metrica, essere, alla maniera di Contini, stringato e scisso tra «cappello interpretativo e note filologiche» (p. 94), restituire i confini delle distanze tra autori ritenuti, per determinati aspetti, simili. Così, la comune nomea di «poeti del negativo» per Leopardi e Montale, entrambi oggetto del saggio e tra i più cari a Blasucci, dovrebbe insistere sullo scarto linguistico tra un autore, in questa direzione, ancora intrinsecamente petrarchesco e un altro, invece, in cui il ricorso, dantesco (ma anche pascoliano, govoniano e carducciano), a un lessico materico ha segnato una svolta nella tradizione lirica italiana.

Nella chiosa a quest’ultimo saggio, Blasucci scrive: «Io continuerei volentieri […]. Ma mi fermo qui». Proseguono invece i nuovi studi su Montale, incoraggiati e sostenuti dalle sue intuizioni.

Note

1 Sull’amicizia con Solmi si ricorda la dichiarazione fatta a Giorgio Zampa, nel 1975, da Montale, che annovera tra le prime persone cui avrebbe mostrato le proprie poesie «Cesare Lodovici, poi Solmi, nessuno di famiglia. E a Bobi, molto diffidente». L’intervista, menzionata da Blasucci (nel saggio Chiose a «L’educazione intellettuale», a p. 63), si legge, con il titolo di Ho scritto un solo libro, in E. Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano, 1996, pp. 1720-1725: pp. 1721-1722.

2 N. Scaffai, Postfazione. Luigi Blasucci montalista, pp. 101-121: p. 109 (sulla continuità con i precedenti lavori e sulle novità dei Nuovi studi cfr. le pp. 109-114; per le ascendenze della categoria di stile tardo si rinvia a p. 111).

3 Si segnala l’interessante permanere di queste categorie anche nell’ultimo Blasucci.

4 N. Scaffai, Montale e il libro di poesia, Lucca, Pacini Fazzi, 2002.

5 P. Valéry, Opere scelte, a cura di M.T. Giaveri, Mondadori, Milano, 2014, p. 150.

6 Sui rapporti tra Blasucci, Contini e Brandeis si rinvia alla Postfazione di Niccolò Scaffai, anche per qualche aneddoto finora di carattere privato o inedito (pp. 103, 114-116).

7 Su questo specifico punto cfr. ivi, pp. 112-113.

8 Nel 1940 vide la luce anche la recensione di Vittorio Sereni alle Occasioni (In margine alle «Occasioni», ora in V. Sereni, Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 2020, pp. 815-818).