
Studiare il rapporto multiforme che Franco Fortini intrattenne con la scuola, dentro e fuori di essa, significa prima di tutto approfondire la sua esperienza di insegnante e la parallela riflessione sull’educazione. A questi due aspetti è dedicato il ricco e denso volume di Lorenzo Tommasini Educazione e utopia. Franco Fortini docente a scuola e all’università, edito nel 2023 da Quodlibet.
Anche se la sua primissima esperienza di insegnante è stata quella del 1939 come supplente in un istituto tecnico di Civitanova Marche, in realtà Fortini arriva a scuola abbastanza tardi, a quasi cinquant’anni, nel 1964 a Lecco, dove gli viene affidato l’insegnamento della Letteratura italiana e della Storia. Da poco tempo si era interrotto sia il suo legame professionale con l’Einaudi,1 presso la quale era stato consulente editoriale dagli anni Cinquanta (la rottura avvenne dopo alcuni duri scontri personali e ideologici all’interno della redazione), sia quello con l’Olivetti, che durava dal settembre 1947: nei giorni che seguirono l’attentato a Togliatti, Adriano Olivetti aveva infatti trasferito Fortini da Ivrea a Milano quando quest’ultimo si era schierato pubblicamente a favore della rivolta (nel capoluogo lombardo Fortini rimase fino al 1963, condividendo con Giovanni Giudici l’ufficio che si occupava della pubblicità).
Nel 1963 Fortini è quindi disoccupato e si ritrova, come racconterà poi in un’intervista del 1984 a «Il Messaggero», con alcuni debiti e con una bambina piccolissima da mantenere. Ma la soluzione è già a portata di mano: «Mi ricordai che molti anni prima [nel 1943] avevo vinto un concorso come professore». Comincia così l’esperienza negli istituti tecnici di Lecco, poi di Monza e successivamente di Milano, fino al 1971, anno in cui inizia a insegnare all’Università di Siena, la cui facoltà di Lettere e Filosofia era stata istituita soltanto l’anno prima.
La cattedra, sia quella scolastica sia quella universitaria, diventa per Fortini prima di tutto «luogo di osservazione privilegiata della società, di elaborazione di prassi intellettuali, cartina di tornasole dello stato dell’istituzione letteraria e dei rapporti tra cultura e politica» (p. 100). Si capisce che l’arrivo a scuola coincise con una vera e propria rivelazione, e questo per almeno tre motivi, analizzati con accuratezza da Tommasini in vari capitoli e sottocapitoli: la possibilità di lavorare con i giovani immersi nel loro tempo («Fu una grande regressione sociale e una promozione morale. Conobbi i ragazzi delle periferie, le manifestazioni, gli scontri»), l’occasione di poter affrontare con prudenza e da una particolare prospettiva il ’68 (Conformismo e contestazione) e l’opportunità di riflettere su alcuni determinanti temi educativi.
Quest’ultimo è certamente l’aspetto più articolato perché abbraccia varie dimensioni: l’azione concreta in classe (Testimonianze di prassi didattica), il rapporto con l’autorità e la necessaria differenza tra autorità e autoritarismo (Didattica e autorità), la scuola e il suo inscindibile nesso insegnamento-apprendimento nella società capitalista di massa e dei consumi fondata sul primato dei profitti (Per un’ecologia della parola), il senso della tradizione, la relazione tra i giovani e la tradizione, la rottura di una memoria condivisa (Gioventù, eredità, tradizione), il concetto di ri-uso e quello «antiecologico» di pre-uso (Usi didattici), il confronto con figure impegnate in altri contesti educativi (L’interesse «critico» di Fortini per Milani), l’attenzione ai testi didattici tanto dal punto di vista teorico quanto da quello pratico (La riflessione su antologie e manuali e Fortini antologista).
Ben presto ci si accorge che in questa vicenda intellettuale alcuni elementi ricorrono come motivi conduttori; individuarli significa sia dare una forma coerente alla figura dell’insegnante Fortini sia cogliere l’organicità dello studio di Tommasini.
Primo fra tutti è il compito sociale dell’insegnante, che coincide con quello dell’intellettuale nel preciso momento in cui mette «la propria capacità linguistica al servizio della comunicazione» (p. 29). Non è un caso che, come fa notare Tommasini, le riflessioni sulla scuola si intersecano con quelle che negli stessi anni Fortini stava portando avanti sulla figura dell’intellettuale. L’idea fondamentale è quella «di fare “chiarezza”, di capire che l’atteggiamento che si ha nei confronti del mondo non è mai indifferente, è sempre un modo per posizionarsi, utile per obbligare una scelta di campo» (p. 29); si tratta della necessaria e non più rimandabile ripresa concreta «della riflessione sul linguaggio, di un’analisi dei linguaggi specialistici e di quelli della comunicazione quotidiana usati dall’informazione» (p. 58). La possibilità di insegnare permette a Fortini di partecipare in prima persona e dall’interno a quella battaglia per una nuova cultura intellettuale che riteneva indispensabile combattere per giungere a una nuova società, nella quale l’istruzione gioca un ruolo chiave: l’intellettuale-insegnante deve sempre tendere «verso la maggior realizzazione delle potenzialità della condizione umana» (p. 60), verso «un diverso stato delle cose» (p. 61).
Fortini sostiene marxianamente che «agire per una nuova cultura intellettuale […] equivale a lottare per una nuova società e quindi anche per la modificazione della sua struttura economica, premessa di ogni altra» (i corsivi sono di Fortini stesso); la trasformazione radicale dei rapporti di produzione e di proprietà è coerente con i classici del pensiero di sinistra, ai quali Fortini «dichiara, senza pentimento, di aver attinto e di continuare ad attingere per imparare a insegnare» (p. 63). Se si conoscono Fortini e il suo cammino politico-culturale è inevitabile concludere, come fa Tommasini, che «nel suo pensiero insegnamento e militanza politica trovano un’unione considerata necessaria e intrinseca» (p. 48).
Il secondo aspetto riguarda la postura di Fortini, che decise con forza di non sottrarsi mai al confronto. Sicuramente non si è mai sottratto alle responsabilità che provenirono dal rapporto dialogico con gli studenti: «Non si sottrae al confronto, spesso fuori dalla classe, cerca di stabilire un rapporto che potesse andare anche al di là delle formalità istituzionali» (p. 31); questo è possibile soltanto a una condizione, quella di avere una «grande disposizione a prendere sul serio gli scritti e gli atteggiamenti dei suoi allievi, fermando la propria attenzione e discutendo anche sui dettagli» (p. 30). Ma Fortini non si è sottratto nemmeno al tentativo di scovare dialetticamente le contraddizioni del capitalismo; l’antinomia più importante è evidentemente quella – ancora oggi purtroppo presente – insita nel ruolo sociale attribuito alla scuola, «a cui si chiede da una parte una formazione “spendibile” professionalmente, ma poi dall’altra si riconosce un fondamento legato all’idea di Bildung complessiva che si sottrae all’idea di impiego immediato e di profitto» (p. 41). L’intento è «rivendicare il carattere sociale della letteratura e scommettere sul futuro, rifiutare l’educazione fondata sul primato del profitto e del potere e riprendere un’azione politica» nel suo senso più ampio, non grossolanamente partitico (p. 61).
Il terzo elemento è una sorta di «etica della scelta» (p. 30), vale a dire un’ecologia della parola che è principio formatore della sua attività in tre differenti campi: la critica alla società dei consumi, il rapporto con la tradizione e la pratica delle antologie scolastiche. Davanti alla prepotenza dello spreco, alla manipolazione sfrenata e al liberismo culturale del profitto, Fortini non vede altra via praticabile che quella di una riduzione dei consumi, di una «minore dissipazione», di una «diminuzione delle sollecitazioni» e di un conseguente aumento dell’attenzione (p. 56; anche perché «noi, nel giro di cinquant’anni, abbiamo dimezzata la nostra capacità di attenzione», p. 60). Cosa si può fare a questo proposito come atto di resistenza? «Insegnare nelle scuole e nei gruppi politici, nella conversazione e nella persuasione, a risparmiare parole, informazioni e stampe; a respingere l’immediatezza, l’improvvisazione, l’abbondanza. Chiamatelo pure classicismo» (p. 59). I toni di Fortini sono anche provocatori: «Meglio un’energica riduzione dell’insegnamento delle patrie lettere. Non so che cosa si aspetti a farla finita, ma sul serio, con Dante, per esempio. […] il silenzio e l’ignoranza vera sono sempre preferibili alla pratica corrente del “tutto e male”, ossia della ignoranza falsa. […] Un’educazione all’immaginario non può essere oggi se non una ecologia dell’immaginario» (p. 59).
Per quanto riguarda il rapporto con la tradizione e la pratica dei testi scolastici, Fortini ha le idee molto chiare: «non si deve scambiare la tradizione con la volontà di conservare tutto, atteggiamento che dimostra incapacità di scelta e dunque di azione; è invece necessario effettuare una scelta, mettere in prospettiva, combattere per un’interpretazione degli avvenimenti» (p. 68). Inserirsi in una tradizione implica anche una precisa scelta di valori e, di conseguenza, un’idea di società, intorno alla quale può riconoscersi un soggetto plurale. Le antologie scolastiche, da questo punto di vista, nascono dalla «feconda riflessione su cosa c’è da salvare dell’esperienza del passato» (p. 41) e, proprio perché si basano su consapevoli criteri di scelta, «costituiscono sempre delle proposte di visione del mondo con rilevanti risvolti politici» (p. 100): questa necessaria selezione implica anche, sul lato opposto della stessa medaglia, «un necessario oblio, una perdita “controllata” su cui si gioca la lotta per il passato che è lotta per il futuro» (p. 68).
In questo quadro il docente, che esercita costitutivamente la funzione del mediatore e del traduttore, «deve farsi promotore di un’educazione che riproponga il ricordo e la storia, unico strumento sui cui si può basare un “patto” tra generazioni in grado di creare una tradizione ed uno stare al mondo non solo individuale, presupposto indispensabile per creare le condizioni di un riscatto più ampio che passa necessariamente attraverso la crescita e il raggiungimento della maturità» (p. 79). L’educazione, allora, si configura allo stesso tempo come responsabilità verso la storia, «cioè come riaffermazione dell’importanza del momento storico e costruzione di un legame umano tra passato e futuro» (p. 80), e come strumento fondamentale di cui può e deve disporre «la quasi totalità dei nostri concittadini per razionalizzare la propria esperienza» (p. 105).
Anche per quanto riguarda la pratica della progettazione di corsi universitari, tra il 1971 e il 1988, la didattica può essere intesa come la considerazione di un rapporto che lega in varie forme docenti e discenti. Qui l’applicazione di alcuni strumenti didattici della scuola tradizionale può vivere «all’interno di una visione dialettica della cultura e dell’insegnamento» (p. 154), facendosi al contempo «mezzo di verifica e di maggior comprensione» della realtà. Se l’obiettivo di metodo è, come suggerisce Lenzini, nei suoi «andirivieni dal generale al particolare e dal passato al presente […] un modello ermeneutico e la prova di uno stile intellettuale inaccessibili alle fitte schiere degli specialisti»,2 allora didatticamente l’interesse è «di sfuggire sia alle ebrezze ideologiche delle grandi sintesi sia a quelle altrettanto pericolose delle tranquillanti analisi corredate di boria scientifica» (p. 154). Così come poteva avvenire per l’apprendimento scolastico, la scelta e la preparazione dei corsi servono insomma a «riflettere sulla natura del sapere, sulla responsabilità che investe inevitabilmente chi ha a che fare con esso e per stimolare gli studenti a compiere una scelta di campo» (p. 171). E mentre, come già si è sottolineato, gli argomenti riflettono complessivamente gli interessi passati e presenti del Fortini critico, il loro riaffiorare nella pratica didattica risponde ad un ordine molteplice di ragioni che non possono riflettere né un «atteggiamento eterno-goliardico […], né la pacifica accettazione dell’establishment scientifico-universitario […] e della banda informazional-semantica».3
La riflessione su Auerbach negli anni Settanta, ad esempio, attraverso la categoria del realismo, permette a Fortini, come suggerisce Tommasini, di confrontarsi con un metodo di interpretazione che incrocia aspetti stilistici e sociologici, e riflette la necessità dell’operazione critica di costituirsi come riflessione sulla «catastrofica esperienza del rapporto tra espressioni artistico-letterarie e forze politico-rivoluzionarie» (p. 186). Nel percorso complessivo di Mimesis, del resto, e in una volontà che, nell’epoca della distruzione del senso della totalità, «si rifugia nel frammento cercando di individuare in questo le caratteristiche dell’universale» (p. 189), Fortini si sforza di ricavare una pratica capace di reagire con il presente e con il passato, perché «la letteratura è una metafora della vita, e nell’isola deserta o nel mondo semidistrutto dalla violenza e dalla barbarie, dei frammenti sono sufficienti a ricostruire lo schema della civiltà e della sua evoluzione» (p. 189). Ecco che quindi il lavoro didattico diventa ancora un banco di prova essenziale che coinvolge, oltre alle logiche di produzione e riproduzione del fatto letterario, anche una domanda che precorre e percorre il lavoro in classe su «lo statuto e l’utilità della letteratura, del linguaggio letterario e il costituirsi […] delle istituzioni letterarie considerate nel loro legame con la vita quotidiana delle facoltà di lettere» (p. 193).
Una parte ulteriore dei corsi degli anni Settanta è poi dedicata alle difformi esperienze espressive dei simbolisti e dei vociani, che convergono verso il grande tema rappresentato dal corso su «Ordine e disordine». I vociani, dal canto loro, saranno anzitutto strumento di dialogo e punto d’accesso a una visione dialettica della realtà che trasformerà profondamente Fortini nel clima ermetico dell’anteguerra. L’attraversamento di alcune delle esperienze de «La Voce» permette infatti a Tommasini di riflettere sul senso di un passato dove da una parte i casi di Boine e Jahier arriveranno a tracciare il solco di una formazione religiosa, ma verranno fatti dall’altra oggetto di tutta una serie di tentativi di attualizzazione. Almeno da un punto di vista particolare, autori come Jahier o Michelstaedter sembrano perdere progressivamente i connotati esistenzialisti per essere recuperati da Fortini nella loro qualità di critici della società borghese, e per essere ricollocati in forme che spesso preluderanno a futuri lavori critici. È il caso, tra gli altri, di Rebora, che diventerà oggetto di un importante saggio nella prima metà degli anni Novanta, ma che negli anni di preparazione del corso diventa la testimonianza più evidente della stretta commistione tra tensioni espressive, rinnovamento formale e contenuti etico-critici da proiettare verso la realtà sociale. E se, almeno storicamente, «essi furono la voce più diretta e autentica della grande crisi […] sopra il piano tanto più vasto e responsabile della generale coscienza nazionale» (p. 225), l’attenzione ai fenomeni formali è utile per valutare, in maniera parzialmente inedita, l’entità e la tenuta delle scritture vociane nella tradizione poetica del Novecento letterario italiano. Questa immissione è utile per ricavare un orizzonte sperimentale nel primo Novecento incapace di ridursi alle posizioni avanguardistiche dei futuristi, in modo da contestualizzare le esperienze difformi di Campana e Sbarbaro, e proiettare nel futuro la prospettiva «di una unità di letteratura e esistenza, di parola scritta e presenza al mondo» (p. 227).
Anche nella valutazione e nell’utilizzazione didattica del concetto di simbolo la preoccupazione di Fortini ha prima di tutto radici individuabili nella sua azione critica, secondo una logica che lo vede ritornare di continuo su precisi temi e determinate questioni, grazie allo stimolo dell’esperienza universitaria. Identificare nel simbolismo, sulla scorta della lettura di Hugo Friedrich, un movimento che trova alcuni dei suoi costituenti essenziali nei valori formali che discendono dal romanticismo e supporre un’influenza diretta nell’elaborazione di quelle teorie del verso che possono dimostrare «una certa vicinanza all’ermetismo» (p. 239), sono le operazioni preliminari per un discorso «sull’evoluzione della letteratura e dei movimenti e delle tendenze che a loro volta sono inevitabilmente collegati ai contesti e alle evoluzioni sociali» (p. 239). Nella consueta dialettica tra presente e passato, insomma, il simbolismo merita di essere discusso accanto ad una realtà, come quella capitalista, che fa della degradazione sociale dell’uomo e della sua reificazione un obiettivo costante. Ciò che in altri contesti il simbolismo aveva mostrato di reazionario in quanto distacco dalla cultura borghese dominante, può adesso avere nuovi significati. Significati che sono legati ad un’idea centrale dell’estetica fortiniana: «quell’integrità, a più riprese promessa nel corso della storia umana, e finora negata, che […] non si stanca di indicare come meta» (p. 243).
Ripercorrendo quindi idee già attraversate, e verificando, proprio in aula, la necessità di nuove contestualizzazioni, diventa possibile fare riferimento «agli idealismi, umanesimi, spiritualismi, esistenzialismi di oggi»,4 non considerandoli solo come «cultura non sufficientemente critica verso se stessa e perciò sterile e regressiva».5 Oggi semmai queste esperienze costituiscono un «insostituibile esempio di avvenire».6 E come l’uso del linguaggio letterario propone schemi di ordinamento dell’esistenza che vengono consumati in figura di fantasma, la sua validità può essere interrogata non solo nella sua qualità di segnatura del tempo storico ma anche e soprattutto come strumento di lettura del e per il presente. Questo è il caso del movimento surrealista, individuato da Fortini tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta come dispositivo di interrogazione «dei concreti problemi di organizzazione culturale che quasi tutti i movimenti socialisti e comunisti dell’Occidente» (p. 244) si trovano ad avere nel dopoguerra. In questo contesto il movimento si traduce in una lente con cui leggere le rivoluzioni psico-antropologiche indotte dal presente tecnologico: «al livello delle percezioni sensibili e del codice delle immaginazioni e dei desideri […] i comportamenti mentali mentali e linguistici che il Surrealismo ha indicato come valori ed ha organizzato (automatismi psichici e verbali, sovvertimento dei rapporti spazio-temporali, esaltazione dell’arbitrio eccetera) sono penetrati nella generalità dei nostri contemporanei soprattutto attraverso le strumentazioni dominanti, visive e verbali, del secolo; cioè la televisione e la pubblicità» (p. 247).
Il punto d’arrivo del volume, poi, che coincide anche con la fine dell’attività didattica analizzabile, è costituito da una serie di corsi monografici dedicati ai grandi scrittori italiani. Lo studio di Tasso, Manzoni, della critica dantesca e leopardiana si inserisce nel contesto di una serie di riflessioni sull’importanza dei classici in generale e su quella di alcuni autori in particolare ma è, al pari del resto, un’occasione «di ripensamento e verifica delle stesse considerazioni fortiniane su tali argomenti» (p. 257). Sempre secondo una logica di progressiva e consapevole ibridazione delle tensioni sottese alla sua scrittura, anche le sistemazioni didattiche riflettono uno stato di cose che, come suggerisce Piergiorgio Bellocchio, è sostanziale al suo lavoro: «nessuno dei diversi generi praticati da Fortini può essere considerato di maggiore o minore importanza […]. Non c’è sua poesia o pagina critica che prescindano dalle sue idee e scelte politiche, non c’è scritto ideologico che non rientri in una misura letteraria».7
Anche per questa ragione nella riflessione di Fortini sul discorso indiretto della forma letteraria ha avuto un peso determinante, oltre all’educazione compiuta sui classici, un modello estetico, un sistema di valori e una capacità di analisi che ne sono il naturale prodotto. La forma del classico è infatti il luogo nel quale «si pongono in evidenza la struttura intima ed al tempo stesso le apparenze fenomeniche in una reciproca dipendenza dialettica»,8 e la sua lettura, per essere fruibile nel mondo moderno, non dovrà limitarsi a riprodurre «la fenomenologia delle preghiere di una religione senza fede»,9 ma favorire un’operazione interpretativa utile «per creare aria, silenzio, tempo, intorno alla parola scritta».10 Sono parole degli anni Cinquanta che continuano comunque ad essere significative dal momento in cui l’esigenza di riflettere su autori canonici della letteratura italiana sembra incontrarsi con l’esigenza contraddittoria di verificare l’utilità della letteratura per il presente. Il classico del resto è considerato portatore di un’idea di vitalità e inattualità: «Tale vitalità consiste se intesa correttamente, nella riattivazione o “richiamo” di cui possono godere singole parti di un’opera, opere intere o interi periodi letterari per una coincidenza tra taluni strumenti e metodi di interpretazione e le domande di una specifica categoria di destinatari […]. Ma un’altra funzione positiva dei classici risiede in ciò che si oppone alla loro permanente vitalità. […] L’inattualità diventa, nei classici, un potente additivo di significazione».11
Riallacciando i fili di una riflessione che attraversa quasi quarant’anni di storia intellettuale, Fortini, come dimostra Tommasini, interroga dietro «alla questione della “traducibilità”delle opere letterarie» (p. 273) la sopravvivenza di un’idea di classico «messa in crisi negli ultimi anni dall’affermazione delle moderne forme imperialistiche» (p. 273). L’aula universitaria diventa ancora un luogo in cui perfezionare, attualizzare e rivedere una proposta di attenzione che implica «il ripensare la storia collettiva, rompendo il muro di isolamento in cui altrimenti i grandi autori di solito sono avvolti per metterli in contatto con questioni vive e reali» (p. 275). Nel caso di Manzoni, oggetto di una lunga fedeltà critica, il tentativo è quello di approfondire didatticamente, tra anni Settanta e Ottanta, il rapporto fra necessità storica e libertà, fra determinismo e dovere, estrapolando il tema essenziale del rapporto fra necessità storica e libertà, per indirizzarlo verso un Novecento dove «la moralità che Manzoni esige dai suoi giudici […] la esige da gente che vive come Birkenau o a Treblinka […] fra il sangue e la sete, le allucinazioni, le delazioni, la paura» (p. 274). Dove Manzoni permette di accedere, in opposizione all’utilizzo materialistico della figura di Leopardi, ad «una profonda rispondenza tra letteratura e spirito nazional-popolare» (p. 277), Tasso e Dante perfezionano l’occasione critica realizzabile in un «moto di attualizzazione e respingimento nel passato» (p. 279). Quanto accade dentro l’aula quindi merita di essere inteso e proiettato al di fuori, come esercizio di costruzione e umanità, di coercizione e libertà in un presente dove ci si sforza di far accadere «qualcosa che somiglia a quanto […] son venuti comprendendo i contestatori dei nostri anni: che la trasformazione della società passa attraverso un’ininterrotta attività pedagogica, in un discorso che è psicanalisi collettiva».12
1 Per una descrizione dell’attività di consulenza editoriale svolta da Franco Fortini per Einaudi è utile la lettura di: F. Fortini, Pareri editoriali per Einaudi, a cura di R. Deiana e F. Masci, Macerata, Quodlibet, 2023.
2 L. Lenzini, Premessa, in F. Fortini, Lezioni sulla traduzione, Macerata, Quodlibet, 2011, pp. 7-8.
3 «Parlare di tutto», un’idea della critica. Il carteggio Baldacci-Fortini, a cura di M. Villa, Firenze, Firenze University Press, 2023, p. 42.
4 F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. 1236.
5 Ibidem.
6 Ivi, p. 385.
7 P. Bellocchio, Diario del ‘900, Milano, il Saggiatore, 2022, p. 145.
8 F. Fortini, Dieci inverni 1947-1957, a cura di S. Peluso, Macerata, Quodlibet, 2018, p. 91.
9 Ivi, p. 96.
10 Ibidem.
11 F. Fortini, Nuovi saggi italiani, II, Milano, Garzanti, 1987, p. 269.
12 Allora comincerò… Franco Fortini nel ricordo dei suoi studenti, a cura di L. D’angelo, P. Massari, L. Pallini, Roma, Bordeaux, 2024, p. 53.