
Le terre dell’estremo nord-est d’Italia, quelle che Ascoli aveva indicato con il nome di Venezia Giulia, nel periodo a cavallo tra la fine Ottocento e l’inizio Novecento sono state da più parti individuate come un territorio particolare dal punto di vista culturale. Ciò è dovuto al fatto che in questi luoghi si trovavano a convivere diverse idiomi e popolazioni. La maggioranza degli abitanti era di lingua italiana ma il territorio apparteneva politicamente all’Impero austro-ungarico e vedeva la presenza di nutrite comunità slave e tedesche. La situazione comportava una serie di attriti etnici, sfruttati dalla propaganda irredentista dell’epoca, ma anche forme di convivenza e reciproca curiosità per cui questi luoghi venivano ad essere la naturale cerniera tra la cultura dell’Europa centro-settentrionale e quella della penisola. Non è un caso che grazie all’opera di Edoardo Weiss fu proprio a Trieste che venne accolta la psicanalisi prima che nel resto d’Italia, oppure che proprio con il contributo di importanti personalità intellettuali provenienti da queste zone fossero diffusi nella penisola autori e opere della letteratura d’oltralpe come quelle di Friedrich Hebbel o Otto Weininger.
Tra gli altri autori che intrattengono un rapporto privilegiato con queste terre e che di qui transitano lasciando una particolare impronta culturale va annoverato sicuramente Henrik Ibsen. Tale rapporto privilegiato era determinato dalla possibilità di una più diretta ricezione della sua opera da parte degli intellettuali giuliani dal momento che potevano avvalersi delle affidabili traduzioni tedesche. Gli studiosi del Regno invece spesso dovevano accontentarsi di quelle francesi o addirittura di quelle italiane in cui i traduttori non si peritavano di operare tagli e aggiustamenti al testo per venire incontro a quelli che ritenevano essere i gusti del pubblico.
Nonostante l’importanza dell’autore e nonostante la riconosciuta centralità della Venezia Giulia nella ricezione del drammaturgo, mancava finora uno studio che mettesse a fuoco in maniera organica tale questione. A questa lacuna si propone di sopperire il nuovo saggio di Paolo Quazzolo dedicato al rapporto tra Ibsen e il capoluogo giuliano.
Il libro è concepito come un insieme di capitoli monografici che affrontano il lavoro che alcuni intellettuali originari di questi luoghi compiono su Ibsen. Troviamo affrontati, nell’ordine, Silvio Benco, Alberto Boccardi, Carlo Michelstaedter, Scipio Slataper e Federico Sternberg. Il tutto incorniciato da tre capitoli, due introduttivi ed uno conclusivo: nei primi si tratteggia L’avvio del dibattito sul drammaturgo norvegese che alla fine dell’Ottocento aveva suscitato grandi polemiche a Trieste e in Italia; nell’altro viene dato conto della ricezione “tarda” nelle terre giuliane, ovvero quella succeduta all’epoca del grande dibattito tra favorevoli e contrari all’opera di Ibsen.
In realtà la prima reazione alle opere del drammaturgo norvegese del pubblico triestino non fu molto difforme da quella registrata dalle cronache teatrali in altre città italiane caratterizzate dal rifiuto delle novità da parte della tipica mentalità borghese. Le differenze subentrarono in un secondo momento «con una più rapida accettazione […] del teatro ibseniano e una mancanza di clamorose cadute e vivaci contestazioni» (p. 45). Chi recepì con grande favore fin da subito la novità di Ibsen a Trieste fu invece un gruppo di intellettuali, che poteva contare su una differente preparazione culturale, piuttosto ristretto ma fermo nelle proprie convinzioni e alquanto acceso nella polemica. Il loro interesse non era dovuto a semplice curiosità, quanto al «desiderio di comprendere a fondo motivazioni e contenuti di un lavoro giudicato rivoluzionario» (p. 46). Furono questi i pionieri della comprensione di Ibsen prima a Trieste e poi nel resto d’Italia.
Il volume presenta poi una precisa e puntuale rassegna delle prime rappresentazioni ibseniane proposte a Trieste con interpreti d’eccezione come Eleonora Duse – che scelse proprio i palchi giuliani per la prima di Rosmersholm – Ermete Zacconi o Emma Gramatica, corredata da una interessante disamina del dibattito che suscitarono basata sugli articoli e le recensioni che uscirono sui principali quotidiani cittadini.
Quazzolo approfondisce quindi il contributo di Silvio Benco che dalle pagine dell’«Indipendente» aveva intrapreso una vera e propria campagna a favore di Ibsen, soprattutto in contrapposizione ai recensori del «Piccolo» che, in linea con la mentalità della ricca borghesia commerciale, erano inizialmente più freddi – quando non ostili – al drammaturgo norvegese. È proprio sulle pagine dell’«Indipendente» che è possibile apprezzare all’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento, «l’acquisizione di un nuovo punto di vista da parte della critica la quale, per la prima volta, ammette l’inadeguatezza, nei confronti del teatro ibseniano, dei vecchi metodi» (p. 62), cioè quelli che di norma erano utilizzati per interpretare in teatro naturalista.
Se è Benco il primo a rivendicare con forza l’importanza e la novità di Ibsen sulle colonne dei giornali triestini, il primo a compiere una riflessione più ampia è Alberto Boccardi che tiene a Trieste e Gorizia una conferenza dal titolo La donna nell’opera di Henrik Ibsen, poi pubblicata nel 1893. È l’occasione per «il primo tentativo di formulare un giudizio complessivo sul teatro di Ibsen attraverso una prospettiva culturale italiana, evidentemente diversa da quella adottata in altri paesi» (p. 108). Per la prima volta uno studioso italiano non propone una recensione legata a una precisa rappresentazione scenica, ma offre una analisi più ampia e più meditata del percorso e delle opere di Ibsen. Boccardi approfondisce la dimensione simbolica dei personaggi rifiutando le critiche di chi vedeva in essi, e nelle donne in particolare, solamente dei caratteri patologici, mostruosi e poco credibili. Uno degli indubbi meriti che vanno riconosciuti a Quazzolo, che già aveva curato nel 1999 una riedizione del saggio di Boccardi, è proprio quello di aver ridato il ruolo che gli spetta a questo autore e studioso pressoché sconosciuto fuori dal capoluogo giuliano, ma che ha svolto un importante ruolo nella storia della ricezione ibseniana e all’interno del mondo intellettuale triestino dell’epoca.
Un’operazione simile viene compiuta anche con Federico Sternberg, studioso giuliano praticamente sconosciuto sia a Trieste che altrove, che in questo libro viene opportunamente riscoperto e valorizzato. Sternberg tenne un corso su Ibsen nel 1922-23 all’Istituto Superiore di studi commerciali di Trieste, poi pubblicato nel 1931 e da allora non più ristampato. L’elemento di novità di questo saggio è l’insistenza sull’umorismo di Ibsen, «un riso sommerso che accompagna e sottolinea i punti salienti della parabola del dolore» (p. 173) che permette di cogliere in profondità i moti dell’anima dei personaggi, rivelandone la profonda umanità.
I nomi più noti affrontati da Quazzolo sono invece quelli di Michelstaedter, di cui si ripercorrono gli articoli ibseniani cercando di mettere in evidenza i legami con la restante produzione, e soprattutto Scipio Slataper a cui viene dedicato il più lungo capitolo del libro. Quazzolo prende in esame la lettera giovanile A Guido e Marcello che chiedono il significato di “Quando noi, morti, ci destiamo” di Enrico Ibsen scritta nel 1907, l’articolo Brand apparso sulla «Voce» nel 1911 e il saggio Ibsen, ricavato dalla tesi di laurea e pubblicato postumo nel 1916. Tale lavoro è sicuramente il più importante contributo che gli autori giuliani hanno dato alla comprensione del teatro ibseniano e, ponendo le basi per tutti gli studi successivi, costituisce un punto di svolta nella storia della ricezione del drammaturgo per l’Italia intera. Slataper infatti non influisce solo sugli ambienti giuliani, ma in virtù della sua partecipazione alla rivista di Prezzolini ha l’occasione di proporre le sue riflessioni ad un pubblico più vasto. E bene fa Quazzolo, per definire meglio il significato di Ibsen per Slataper e il suo gruppo di amici, a cercare di vedere questo interesse in chiave diacronica sottolineando gli elementi di continuità e di innovazione che legano i vari scritti presi in esame. In particolare è Brand l’opera su cui ci si sofferma per misurare l’evoluzione slataperiana: se nell’articolo vociano viene visto come il dramma della volontà e della rinuncia, nel saggio postumo viene letto in ottica kantiana approfondendo le riflessioni sui rapporti tra il volere e l’etica che poi serviranno da punto di partenza anche per l’analisi di altre opere. Proprio per il grande interesse dell’argomento e la sua rilevanza nell’architettura del volume però si sarebbe forse potuto approfondire maggiormente lo studio delle modifiche intercorse tra la tesi di laurea e il testo giunto alle stampe, giovandosi dei materiali d’archivio disponibili. Per lo stesso motivo sarebbe stato interessante anche arricchire la descrizione dell’evoluzione del rapporto di Slataper con Ibsen inserendolo all’interno della più ampia riflessione sul genere teatrale condotta dall’autore del Mio Carso durante gli anni fiorentini collocandola all’interno del progetto di rinnovamento del teatro tentato nell’ambito della «Voce».
Tra gli altri elementi messi in rilievo da Slataper, Quazzolo si sofferma in particolare sull’importanza del passato dei singoli personaggi in cui viene individuato il motore dei drammi della maturità; sulla questione del verismo, interpretato come «una nuova convinzione morale, un “grado d’idealità”» (p. 157) e sulla riflessione legata al simbolo che troverà una concreta applicazione anche nelle opere slataperiane. Il simbolo ibseniano «non invia a qualcosa che sta al di fuori dell’opera, ma diviene l’elemento in cui tutti i personaggi si riconoscono» (p. 162) e dunque l’elemento interpretativo per eccellenza e il fulcro da cui si dipana e verso cui converge la narrazione drammatica.
Infine il volume si conclude con qualche breve notazione sul rapporto di Svevo, Joyce e Falco Marin con Ibsen.
Si tratta dunque di un volume che comincia a colmare una evidente lacuna bibliografica con particolareggiate descrizioni delle opere prese in esame che permettono anche ai non specialisti di orientarsi facilmente, costituendo un punto di partenza per ulteriori, necessari, studi sull’argomento. Vanno ancora infatti meglio indagati i riflessi che questa ricezione ebbe su alcuni giovani triestini dell’epoca e su alcune significative riviste. Per esempio sarebbe interessante approfondire il ruolo dell’esperienza del «Palvese», da più parti indicato come un importante luogo di riflessione su Ibsen, a cui ebbero modo di partecipare alcuni dei più promettenti intellettuali giuliani dell’epoca. Su questi argomenti Quazzolo non si sofferma, ma sono linee di ricerca che sarebbe auspicabile in futuro venissero tentate sia per il loro interesse intrinseco, sia per descrivere più compiutamente il milieu culturale della Trieste dell’epoca e il ruolo che Ibsen ebbe in esso.
Sempre guardando al futuro, infine va detto che la bibliografia che viene usata in questo saggio non è sempre quella più aggiornata o quella di riferimento. Per fare un solo esempio l’edizione dell’Epistolario di Michelstaedter citata è quella del 1983, quando esiste ormai da tempo una nuova edizione riveduta e ampliata con l’inclusione di nuove lettere risalente al 2010. Certo si tratta di casi non così diffusi nel corso del volume, tuttavia chi vorrà proseguire sulla strada tracciata da Quazzolo, approfondendo ed ampliando il discorso, dovrà tenere conto anche delle nuove edizioni dei testi e delle nuove e più aggiornate interpretazioni critiche.