Le grandi dimissioni
Un dibattito a partire dal libro di Francesca Coin (IV)
Angelo Morales

Le grandi dimissioni di Francesca Coin mette in evidenza, attraverso una grande quantità di dati, frutto di una ricerca accurata, un fenomeno che a prima vista appare singolare. Nonostante vi sia un po’ dovunque nel mondo una grave crisi occupazionale, molte persone lasciano il lavoro senza avere nell’immediato altre prospettive, affrontando il rischio di un lungo periodo di disoccupazione. La disaffezione al lavoro viene puntualmente analizzata in diversi settori d’impiego cogliendone l’elemento comune: l’alienazione, lo sfruttamento, la mancanza di prospettive, la perdita della propria dignità.

Il rifiuto del lavoro è difficile da comprendere nell’ottica tradizionale del Movimento Operaio. Essa si è formata nell’epoca dell’operaio di mestiere, quando, anche se lavoravi alle dipendenze di altri, conservavi e dovevi usare le tue competenze, ricavandone potere contrattuale e dignità. La “rivoluzione” taylorista-fordista ha cambiato radicalmente quel mondo. L’operaio/massa addetto alla catena di montaggio non ha più nulla del sapere dell’artigiano e non ha motivo di amare il proprio lavoro, anzi! Ma la concentrazione nelle grandi fabbriche gli dava un potere contrattuale temibile da parte dei padroni, costretti ad accettare il cosiddetto “compromesso fordista” che sta dietro al Welfare State. La dissoluzione dei grandi concentramenti industriali consentita dalla globalizzazione (o la loro dislocazione altrove, dove le “maestranze” sono meno pericolose) apre le porte al ritorno al passato: dalla classe operaia cosciente dei propri diritti e sindacalmente organizzata del secolo scorso si vuole retrocedere a una plebe eternamente precaria, e perciò debole e ricattabile. La progressiva cancellazione dei diritti acquisiti, la distruzione sistematica del Welfare State e il ritorno al privato in tanti settori dei servizi, registrano il radicale mutamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro e prefigurano la società del futuro come la vogliono le classi dirigenti. In questo contesto le “grandi dimissioni” non costituiscono un serio problema per il capitale (l’esercito industriale di riserva, sottoproletario o meno, non lascia potere contrattuale a chi si dimette), e al massimo consentono di scegliere altri padroni da cui farsi sfruttare biecamente.

Detto ciò, vale la pena soffermarsi su una questione che il libro ci propone, che è di grande rilevanza teorica e pratica: che ruolo ha oggi per noi, e avrà in futuro, il lavoro? Per cercare una risposta convincente a questa domanda occorre fare un passo indietro, e considerare il lavoro da diversi punti di vista: antropologico, economico, sociologico, psicologico.

I. Antropologia

Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto quello che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale… Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono, quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione. (Marx-Engels, Ideologia tedesca)

Il processo lavorativo, come l’abbiamo esposto nei suoi movimenti semplici e astratti, è attività finalistica per la produzione di valori d’uso, appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani, condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita e, anzi, è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana. (Marx, Il Capitale)

…la umana sensibilità, l’umanità dei sensi, c’è soltanto per l’esistenza del suo oggetto, per la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è opera dell’intera storia universale fino a questo tempo… si richiede l’oggettivazione dell’ente umano, e sotto l’aspetto teorico e sotto quello pratico, tanto per rendere umani i sensi dell’uomo che per creare la sensibilità umana corrispondente all’intera ricchezza dell’ente umano e naturale” (Marx, Manoscritti)

In queste citazioni marxiane è sostanzialmente contenuta una analisi antropologica del lavoro, confermata dalle ricerche successive sino ad oggi. È attraverso l’uso combinato della mente e delle mani che gli esseri umani diventano capaci di cambiare l’ambiente in cui vivono e a creare cultura e storia. Gli altri esseri viventi o riescono ad adattarsi all’ambiente in cui vivono, oppure sono destinati ad estinguersi. Ma l’uso combinato delle mani e della mente è ciò che costituisce il lavoro, che è «attività finalistica per la produzione di valori d’uso», e in quanto tale «condizione naturale eterna della vita umana». Le fantasie più o meno interessate sulla fine del lavoro rivelano la loro inconsistenza di fronte a questa evidente realtà. A meno di ipotizzare il ritorno ad una forma di vita preumana, l’esistenza del lavoro va considerata come un elemento costitutivo della vita umana. L’uomo è tale in quanto può, attraverso il lavoro, soddisfare i suoi bisogni fondamentali e crearne sempre di nuovi e più ricchi. Cambiando la natura, rendendola adatta a soddisfare i propri bisogni, umanizzando la natura, l’uomo umanizza anche se stesso: «la umana sensibilità, l’umanità dei sensi, c’è soltanto per l’esistenza del suo oggetto, per la natura umanizzata». Il lavoro volto alla realizzazione dei bisogni, un lavoro non alienato e che non sia causa di sfruttamento, non è una condanna per gli esseri umani, come dice la Bibbia, ma la nostra naturale condizione di vita. Anche se richiede impegno e fatica, anche se la natura non sempre è benigna, a meno che si ritenga, come pensava Malthus, che la penuria è il nostro destino, la cooperazione tra gli esseri umani può, nel rispetto dell’ambiente, creare condizioni di vita accettabili per tutti senza imporre sacrifici insostenibili. La povertà non è il nostro destino, ma è dovuta alle diseguaglianze intollerabili che vengono imposte dalla produzione per il profitto.

Dopo aver sottolineato il ruolo fondamentale del lavoro nella vicenda umana, Marx, attraverso un uso combinato di economia politica e sociologia (che costituirà il metodo della sua Critica dell’economia politica) analizza con la radicalità che gli è propria quello che il lavoro è diventato nel corso della storia, sino all’alienazione del suo tempo, che è anche il nostro.

Alienazione è un termine di origine giuridica: indica la perdita di qualcosa di cui si era in possesso in quanto viene ceduta ad altri. Riprendendo il termine da Hegel e Feuerbach, Marx ne fa un elemento centrale della propria analisi del capitalismo.

Inizialmente il concetto non viene preso in considerazione nell’ambito del marxismo, a parte il giovane Lukács, che ne fa ampio uso in Storia e coscienza di classe (1923), pur non usando quel termine. Nel 1932, con la pubblicazione dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx, si apre un vasto dibattito sull’alienazione, durato almeno sino agli anni Sessanta e ancora oggi attuale.

II. L’alienazione nei Manoscritti del 1844

E ora, in che cosa consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro sì sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. E a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione. Infine l’esteriorità del lavoro per l’operaio appare in ciò che il lavoro non è suo proprio, ma è di un altro. Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma ad un altro. Come nella religione, l’attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull’individuo indipendentemente dall’individuo, come un’attività estranea, divina o diabolica, cosi l’attività dell’operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé. (Marx, Manoscritti)

Come è evidente, per Marx l’alienazione è un fatto oggettivo, non uno stato d’animo, anche se gli aspetti psicologici del fenomeno sono rilevanti e vanno anch’essi studiati con attenzione. Chi, non possedendo i mezzi di produzione, deve vendere ad altri la propria forza-lavoro: a) non può disporre di ciò che produce, in quanto l’oggetto del suo lavoro appartiene al capitalista; b) perde il controllo della propria attività lavorativa, perché tempi e modi di erogazione del lavoro vengono decisi da altri; c) poiché il lavoro è ciò che lo caratterizza in quanto essere umano, aliena anche la propria umanità.

Il lavoro per Marx ha dunque due caratteristiche essenziali. Da un lato ci fa essere ciò che siamo in quanto esseri umani, dall’altro, in quanto lavoro alienato, stravolge questa condizione nel suo contrario. Questa analisi è oggi ancora più fondata rispetto al momento in cui fu elaborata. Per questo ha senso ripartire da qui, perché solo un riferimento teorico solido può consentirci di contrastare efficacemente le tendenze in atto.

III. La divisione del lavoro

Per procedere nell’analisi è opportuno chiedersi come è accaduto che il lavoro, nonostante il suo ruolo fondamentale nel processo di ominizzazione, sia diventato, con l’alienazione, un tragedia per gran parte degli esseri umani. Marx trova una risposta (anch’essa del tutto confermata dagli studi successivi) nella divisione del lavoro. Storicamente è essenziale distinguere tra la divisione sociale del lavoro (in seguito DSL) e la divisione tecnica del lavoro (DTL).

La ricerca antropologica ha mostrato l’esistenza, sino a qualche decennio fa (oggi con la globalizzazione è improbabile che esistano ancora), di piccole comunità di persone che vivevano di caccia e raccolta, in cui non vi era divisione del lavoro (tranne quella tra donne e uomini), che sono rimaste sostanzialmente egualitarie sino all’arrivo dei “civilizzatori”. Le scoperte archeologiche hanno dimostrato che sino al neolitico la condizione delle comunità umane era sostanzialmente simile. Nessun Eden originario, naturalmente, data la dipendenza dalla natura; ma nemmeno una drammatica lotta per la sopravvivenza (basti osservare come nelle tribù nomadi studiate in diverse parti del mondo, soddisfatti i bisogni essenziali, ci si poteva dedicare agevolmente ad attività non lavorative).

Con la scoperta/invenzione dell’agricoltura le cose cambiano radicalmente. Si comincia a produrre un sovrappiù che consente a una parte della popolazione di sottrarsi al lavoro manuale. Ha origine da qui la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e la storica subordinazione del sapere teorico al potere costituito. Da allora la DSL ha determinato una drastica contrapposizione tra chi lavora con le mani e chi con la mente.

In realtà non vi è attività pratica umana, anche la più semplice, che non contenga elementi di teoria, e non vi sono attività teoriche che non presentino aspetti pratici. Ogni concreta azione umana richiede insieme uno sforzo mentale e uno sforzo fisico, e ciò che varia da una attività all’altra è solo il peso relativo dell’uno e dell’altro. La contrapposizione tra lavoro manuale e intellettuale ha dunque un carattere storico-sociale. Le forme di questa contrapposizione hanno caratterizzato diverse epoche e civiltà (diverse formazioni economico-sociali, diceva Marx).

Con il capitalismo alla DSL si aggiunge la divisione tecnica del lavoro. Già nella manifattura l’attività lavorativa viene frammentata riducendo il lavoro alla ripetizione di operazioni elementari. Con la rivoluzione industriale (affermatasi proprio perché la semplificazione del lavoro rende possibile e vantaggioso per il capitalista sostituire gli operai con le macchine) la separazione tra lavoro manuale e intellettuale diventa drammatica, materializzandosi nel senso proprio della parola. Nel modo di produzione capitalistico l’operaio diventa un’appendice della macchina, che incarna il sapere teorico necessario all’attività produttiva. Mentre nel lavoro artigiano teoria e pratica sono ancora un tutt’uno, il sistema di fabbrica è fondato sulla espropriazione ai lavoratori delle “potenze intellettuali” della loro attività, e il taylorismo-fordismo ha incarnato la forma più estrema di tale separazione.

Il postfordismo non ha modificato in modo significativo questa situazione. I tentativi di ricomposizione delle mansioni (come il cosiddetto spirito Toyota), cercano di adattare la produzione al consumo (produzione just in time), ciò che richiede una piena collaborazione da parte dei lavoratori, ma si sono di fatto rivelati espedienti per coinvolgere i lavoratori nell’etica della produzione.

Singolare che si parli di etica da parte di chi gestisce un sistema la cui unica finalità è la produzione del profitto! In questo caso etico sarebbe il comportamento di chi si identifica nel proprio lavoro sino al sacrificio, e non sarà un caso che il toyotismo sia nato in Giappone, dove persiste una arcaica concezione dell’onore, assente nella cultura occidentale. Da noi prevale la cosiddetta disaffezione al lavoro, di cui il libro della Coin dà ampia testimonianza, che tuttavia non risolve il problema dell’alienazione, né tantomeno quello della mancanza di lavoro, che tende ad essere ormai un fatto strutturale del sistema capitalistico. Mentre prima questo problema si presentava ciclicamente nei momenti di crisi economica, oggi la tendenza alla sottoccupazione si presenta anche nei momenti di espansione, alimentando il ricatto della disoccupazione e accentuando lo sfruttamento della forza-lavoro.

Nel 1980 «Il manifesto» organizza un convegno i cui atti verranno pubblicati con il titolo Liberare il lavoro o liberarsi del lavoro?.1 Questa alternativa (vedremo in seguito se le due cose si escludono necessariamente) centra la questione di cui ci stiamo occupando. Tra i diversi interventi, molti dei quali di rilevante attualità, R. Rossanda pone il problema in modo esplicito chiedendosi se la crisi che ha investito l’etica operaia del lavoro, in un momento in cui ormai «si lavora solo per necessità» e il tempo di vita è divenuto la rivendicazione prioritaria, non «cessi anche il rifiuto attivo dello sfruttamento». Furio Cerutti a sua volta mostra come in Marx sia possibile trovare entrambe le istanze sopra indicate (su questo torneremo).

Come scrive André Gorz in un libro dello stesso periodo:

Da un lato è necessario liberare il lavoro dalla servitù e dallo sfruttamento capitalistico, ma dall’altro occorre liberarsi del lavoro per avere il tempo necessario a coltivare la propria realizzazione umana, attraverso attività autonome (non finalizzate al profitto) che abbiano in sé la loro finalità e ricompensa.2

Gorz pone una serie di domande che ci aiutano a precisare meglio il discorso: «Perché lavorare? Lavorare è un bisogno? O soltanto un mezzo per guadagnarsi da vivere? O solo un modo – a volte imperfetto – di inserirsi nella società, di entrare in rapporto con gli altri, di sfuggire all’isolamento ed al senso di inutilità? O tutte queste cose insieme?». Facendo riferimento ad un sondaggio sui problemi del lavoro pubblicato da «Le Nouvel Observateur» nel 1978, i cui dati sarebbe lungo trascrivere, Gorz osserva che in linea generale «Si accetta la disciplina che ogni lavoro comporta a condizione di scegliere il proprio mestiere e di sapere ciò che si fa. Ciò che è rifiutato è il lavoro che viene imposto, con la sua gerarchia e i suoi orari». Molto interessante anche la risposta alla seguente domanda: «Tra un lavoro interessante, ma non molto ben pagato, ed una lavoro poco interessante, ma ben pagato, quale scegliereste?». Le risposte, che non mi sembrano datate, in quanto indicavano una linea di tendenza oggi confermata in gran parte (vedi tra gli altri i più recenti studi di Aris Accornero, Ulrich Bech e Massimo Paci)3 portano a concludere che la fatica e i sacrifici che il lavoro costa possono essere sopportati a patto che esso: consenta di esprimere la propria creatività; che si svolga liberamente (anche se un lavoro del tutto libero è difficilmente ipotizzabile); che permetta una ragionevole variabilità (la monotonia è a lungo andare intollerabile); che l’orario di lavoro non sia opprimente, mantenendo un certa distanza tra il lavoro e la vita; che vi sia una adeguata retribuzione; che i rapporti di lavoro non siano oppressivi (si potrebbe continuare ancora, ma ciascuno può attingere alla propria esperienza per aggiungere altro).

IV. Quali sono le tendenze in atto?

il nuovo ordine liberista nutre la smisurata ambizione di dare vita a un nuovo soggetto antropologico, un “uomo nuovo” che si viva come imprenditore di se stesso, individuo isolato in concorrenza con tutti gli altri individui, impegnati in una lotta darwiniana che regala il successo ai più adatti (meritevoli), cioè a chi meglio sa mettere a frutto il proprio capitale sociale.4

…ci troviamo di fronte a un capitalismo globalizzato e finanziarizzato che, deprivato del suo antagonista storico, ha riscoperto una cosa che in realtà è sempre stata nelle sue fibre, cioè la vocazione totalitaria a inglobare tutto, a non lasciare nulla fuori di sé, una realtà alla quale noi non eravamo per niente abituati perché siamo vissuti in una società caratterizzata dal conflitto di classe, che promuoveva antagonismo, democrazia, innovazione economica e sociale e l’apertura alla straordinaria possibilità che popolazioni intere potessero concepire una società alternativa.5

È priva di fondamento la tesi (propria di alcuni ex operaisti come Toni Negri)

secondo cui i lavoratori della conoscenza rappresenterebbero l’avanguardia di una forza lavoro dotata di elevati livelli di autonomia nei confronti del controllo e del comando capitalistici – una tesi che ignora completamente come i nuovi apparati tecnologici (software e algoritmi più ancora dell’hardware) incorporino una formidabile capacità di predeterminare nei dettagli tutto ciò che il lavoratore (come singolo e come gruppo) può fare e perfino pensare, e come consentano un radicale decentramento dell’esecuzione intensificando il concentramento delle funzioni di suo tramite progettazione e controllo.6

Altrettanto infondata la visione del lavoro autonomo come scelta di libertà, quando

i lavoratori “autonomi” sono in larga maggioranza precari sottoposti alla dura disciplina del committente, sottopagati, costretti a farsi concorrenza in una spietata guerra fra poveri e privi di ogni potere contrattuale.7

Nella situazione attuale è difficile ipotizzare una omogeneità della CO o la possibilità di un ruolo egemonico da parte di alcuni soggetti sociali

la classe lavoratrice si distribuisce lungo un ventaglio sempre più ampio: dalla classe “creativa” che progetta, controlla e dirige queste nuove forme di “organizzazione scientifica” del lavoro dall’interno di imprese come Google, Apple, Amazon, Facebook, ai milioni di schiavi che sgobbano nei Paesi in via di viluppo, alla massa dei lavoratori del terziario arretrato (catene commerciali, autisti, trasportatori, magazzinieri, collaboratori domestici, ecc.) che erogano servizi per questa aristocrazia operaia. In mezzo, la massa dei lavori precari che operano nelle lunghe catene di subfornitura per i colossi che guidano la danza.8

D. De Masi riprende la distinzione sociologica tra lavoro strumentale e lavoro espressivo. Il primo è il lavoro svolto per sopravvivere, generalmente causa di sfruttamento e alienazione,

dunque può essere compiuto per senso del dovere o per necessità, poco o mai per amore del lavoro stesso. Invece un lavoro è espressivo se, grazie a esso e suo tramite, riusciamo a esprimere la nostra personalità, ad autorealizzarci, a maturare intellettualmente, a metterci alla prova, a creare, a mostrare a noi stessi e agli altri le nostre capacità umane e professionali. Confina con il gioco e spesso sconfina in esso, dal momento che in entrambi prevalgono aspetti piacevoli come l’emulazione solidale, la socializzazione conviviale, l’estetica, la fantasia, la curiosità, l’esaltazione, il tentativo, la creatività, la destrezza, l’allegria.9

Questa analisi, che ritroviamo in quasi tutti gli autori citati, ma anche, con grande anticipo, in H. Marcuse e H. Braverman,10 mi sembra condivisibile. Ciò che non convince è l’idea che la tendenza sia quella di sostituire al lavoro manuale l’uso esclusivo delle macchine, mentre la creatività andrebbe riservata a ciò che De Masi definisce «ozio creativo» (un’idea simile la troviamo anche in Rifkin),11 una attività possibile solo fuori dalla produzione materiale. Sarebbe quindi improponibile la ricomposizione del lavoro nella sua integrità, con il superamento della divisione tra il lavoro manuale e quello intellettuale. Questa ipotesi mi sembra molto futuribile (sarà questione di decenni, di secoli? E nel frattempo cosa ci dobbiamo aspettare?). Ma, soprattutto, non fa i conti con la realtà del capitalismo,

un capitalismo ipervitale che fa delle crisi la sua opportunità e che pratica persino nuove modalità di accumulazione primitiva riproponendo il ventaglio di tutte le condizioni di lavoro che ha utilizzato nel corso della sua storia, dalla schiavitù, al lavoro a domicilio, al lavoro dipendente in fabbrica e in ufficio, alle nuove forme di lavoro “autonomo” e precario.12

Occorre quindi tener conto della «vocazione totalitaria del capitale a inglobare tutto», sia dal punto di vista tecnico che politico. La produzione industriale non è stata cancellata dal postfordismo ma, dislocata altrove, convive con una notevole varietà di forme produttive, tutte egemonizzate dal capitale finanziario, così come restano differenziate le forme politiche del controllo (democrazia liberale, dove è possibile, democrature, dittature vere e proprie. L’unica forma politica che non mi sembra assimilabile dal capitale è la democrazia diretta, per definizione antagonistica).

Ma, soprattutto, in una visione simile, manca ogni riferimento a ciò che oggi deve essere la lotta di classe (qualche indicazione sugli obiettivi da perseguire la troviamo nel libro di M. Paci, Nuovi lavori, nuovo welfare. Purtroppo Paci ci dice ben poco sugli strumenti di lotta necessari a superare con un nuovo welfare la strutturale precarizzazione del lavoro prevedibile nel prossimo futuro). De Masi riprende la distinzione marxiana tra classe in sé e classe per sé, ma, mentre gli è facile mostrare l’esistenza oggettiva delle classi (in barba a chi sostiene il loro superamento o fantastica sulle moltitudini), ha notevoli difficoltà a ipotizzare come possa ricostruirsi una soggettività politica adatta alla situazione attuale ( comunque non può essere il parto di una sola mente ciò che richiede un processo di riaggregazione e maturazione politica le cui forme oggi non riusciamo a prevedere).

Scrive De Masi, con onestà intellettuale:

Oggi, dunque, esistono più che mai gli sfruttati e, quindi, la “classe proletaria in sé” ma, a differenza di quanto avvenne negli anni Sessanta del secolo scorso, essi non sono organizzati in classe, non hanno un progetto comune e non lottano per affermarlo. Non vi sono più un partito e un sindacato… che diano voce ai lavoratori e nei quali i lavoratori si riconoscano… Del resto le formazioni politiche e sindacali hanno tagliato i ponti con il mondo della cultura, hanno scoraggiato l’impegno degli “intellettuali organici” e sono rimaste prive di idee, di progetti e di modelli.13

Note

1 Liberare il lavoro o liberarsi dal lavoro?, supplemento a «il manifesto» febbraio 1981. Cfr. Lavoro, nuovi bisogni sociali e qualità della vita, Quaderni di «PdS», 1982.

2 A. Gorz, Addio al proletariato, Roma, Edizioni Lavoro, 1982.

3 A. Accornero, Il lavoro come ideologia, Bologna, il Mulino, 1980; Id., Era il secolo del lavoro, Bologna, il Mulino, 1997; U. Bech, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Torino, Einaudi, 2000; M. Paci, Nuovi lavori, nuovo welfare, Bologna, il Mulino, 2005.

4 P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, Roma, DeriveApprodi, 2019.

5 F. Bertinotti, C. Formenti, Rosso di sera, Milano, Jaca Book, 2015.

6 Ivi.

7 Ivi.

8 Ivi.

9 D. De Masi, Il lavoro nel XXI secolo, Torino, Einaudi, 2018, p. 753.

10 H. Marcuse, Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 1968; H. Braverman, La degradazione del lavoro nel XX secolo, Torino, Einaudi, 1978.

11 J. Rifkin, La fine del lavoro, Milano, Baldini e Castoldi, 2000.

12 F. Bertinotti, C. Formenti, Rosso di sera cit.

13 D. De Masi, Il lavoro nel XXI secolo cit., p. 753.