Le grandi dimissioni
Un dibattito a partire dal libro di Francesca Coin (IV)
Angelo Morales
Il rifiuto del lavoro è difficile da comprendere nell’ottica tradizionale del Movimento Operaio. Essa si è formata nell’epoca dell’operaio di mestiere, quando, anche se lavoravi alle dipendenze di altri, conservavi e dovevi usare le tue competenze, ricavandone potere contrattuale e dignità. La “rivoluzione” taylorista-fordista ha cambiato radicalmente quel mondo. L’operaio/massa addetto alla catena di montaggio non ha più nulla del sapere dell’artigiano e non ha motivo di amare il proprio lavoro, anzi! Ma la concentrazione nelle grandi fabbriche gli dava un potere contrattuale temibile da parte dei padroni, costretti ad accettare il cosiddetto “compromesso fordista” che sta dietro al Welfare State. La dissoluzione dei grandi concentramenti industriali consentita dalla globalizzazione (o la loro dislocazione altrove, dove le “maestranze” sono meno pericolose) apre le porte al ritorno al passato: dalla classe operaia cosciente dei propri diritti e sindacalmente organizzata del secolo scorso si vuole retrocedere a una plebe eternamente precaria, e perciò debole e ricattabile. La progressiva cancellazione dei diritti acquisiti, la distruzione sistematica del Welfare State e il ritorno al privato in tanti settori dei servizi, registrano il radicale mutamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro e prefigurano la società del futuro come la vogliono le classi dirigenti. In questo contesto le “grandi dimissioni” non costituiscono un serio problema per il capitale (l’esercito industriale di riserva, sottoproletario o meno, non lascia potere contrattuale a chi si dimette), e al massimo consentono di scegliere altri padroni da cui farsi sfruttare biecamente.
Detto ciò, vale la pena soffermarsi su una questione che il libro ci propone, che è di grande rilevanza teorica e pratica: che ruolo ha oggi per noi, e avrà in futuro, il lavoro? Per cercare una risposta convincente a questa domanda occorre fare un passo indietro, e considerare il lavoro da diversi punti di vista: antropologico, economico, sociologico, psicologico.
I. Antropologia
Il processo lavorativo, come l’abbiamo esposto nei suoi movimenti semplici e astratti, è attività finalistica per la produzione di valori d’uso, appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani, condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita e, anzi, è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana. (Marx, Il Capitale)
…la umana sensibilità, l’umanità dei sensi, c’è soltanto per l’esistenza del suo oggetto, per la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è opera dell’intera storia universale fino a questo tempo… si richiede l’oggettivazione dell’ente umano, e sotto l’aspetto teorico e sotto quello pratico, tanto per rendere umani i sensi dell’uomo che per creare la sensibilità umana corrispondente all’intera ricchezza dell’ente umano e naturale” (Marx, Manoscritti)
Dopo aver sottolineato il ruolo fondamentale del lavoro nella vicenda umana, Marx, attraverso un uso combinato di economia politica e sociologia (che costituirà il metodo della sua Critica dell’economia politica) analizza con la radicalità che gli è propria quello che il lavoro è diventato nel corso della storia, sino all’alienazione del suo tempo, che è anche il nostro.
Alienazione è un termine di origine giuridica: indica la perdita di qualcosa di cui si era in possesso in quanto viene ceduta ad altri. Riprendendo il termine da Hegel e Feuerbach, Marx ne fa un elemento centrale della propria analisi del capitalismo.
Inizialmente il concetto non viene preso in considerazione nell’ambito del marxismo, a parte il giovane Lukács, che ne fa ampio uso in Storia e coscienza di classe (1923), pur non usando quel termine. Nel 1932, con la pubblicazione dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx, si apre un vasto dibattito sull’alienazione, durato almeno sino agli anni Sessanta e ancora oggi attuale.
II. L’alienazione nei Manoscritti del 1844
Il lavoro per Marx ha dunque due caratteristiche essenziali. Da un lato ci fa essere ciò che siamo in quanto esseri umani, dall’altro, in quanto lavoro alienato, stravolge questa condizione nel suo contrario. Questa analisi è oggi ancora più fondata rispetto al momento in cui fu elaborata. Per questo ha senso ripartire da qui, perché solo un riferimento teorico solido può consentirci di contrastare efficacemente le tendenze in atto.
III. La divisione del lavoro
Per procedere nell’analisi è opportuno chiedersi come è accaduto che il lavoro, nonostante il suo ruolo fondamentale nel processo di ominizzazione, sia diventato, con l’alienazione, un tragedia per gran parte degli esseri umani. Marx trova una risposta (anch’essa del tutto confermata dagli studi successivi) nella divisione del lavoro. Storicamente è essenziale distinguere tra la divisione sociale del lavoro (in seguito DSL) e la divisione tecnica del lavoro (DTL).
La ricerca antropologica ha mostrato l’esistenza, sino a qualche decennio fa (oggi con la globalizzazione è improbabile che esistano ancora), di piccole comunità di persone che vivevano di caccia e raccolta, in cui non vi era divisione del lavoro (tranne quella tra donne e uomini), che sono rimaste sostanzialmente egualitarie sino all’arrivo dei “civilizzatori”. Le scoperte archeologiche hanno dimostrato che sino al neolitico la condizione delle comunità umane era sostanzialmente simile. Nessun Eden originario, naturalmente, data la dipendenza dalla natura; ma nemmeno una drammatica lotta per la sopravvivenza (basti osservare come nelle tribù nomadi studiate in diverse parti del mondo, soddisfatti i bisogni essenziali, ci si poteva dedicare agevolmente ad attività non lavorative).
Con la scoperta/invenzione dell’agricoltura le cose cambiano radicalmente. Si comincia a produrre un sovrappiù che consente a una parte della popolazione di sottrarsi al lavoro manuale. Ha origine da qui la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e la storica subordinazione del sapere teorico al potere costituito. Da allora la DSL ha determinato una drastica contrapposizione tra chi lavora con le mani e chi con la mente.
In realtà non vi è attività pratica umana, anche la più semplice, che non contenga elementi di teoria, e non vi sono attività teoriche che non presentino aspetti pratici. Ogni concreta azione umana richiede insieme uno sforzo mentale e uno sforzo fisico, e ciò che varia da una attività all’altra è solo il peso relativo dell’uno e dell’altro. La contrapposizione tra lavoro manuale e intellettuale ha dunque un carattere storico-sociale. Le forme di questa contrapposizione hanno caratterizzato diverse epoche e civiltà (diverse formazioni economico-sociali, diceva Marx).
Con il capitalismo alla DSL si aggiunge la divisione tecnica del lavoro. Già nella manifattura l’attività lavorativa viene frammentata riducendo il lavoro alla ripetizione di operazioni elementari. Con la rivoluzione industriale (affermatasi proprio perché la semplificazione del lavoro rende possibile e vantaggioso per il capitalista sostituire gli operai con le macchine) la separazione tra lavoro manuale e intellettuale diventa drammatica, materializzandosi nel senso proprio della parola. Nel modo di produzione capitalistico l’operaio diventa un’appendice della macchina, che incarna il sapere teorico necessario all’attività produttiva. Mentre nel lavoro artigiano teoria e pratica sono ancora un tutt’uno, il sistema di fabbrica è fondato sulla espropriazione ai lavoratori delle “potenze intellettuali” della loro attività, e il taylorismo-fordismo ha incarnato la forma più estrema di tale separazione.
Il postfordismo non ha modificato in modo significativo questa situazione. I tentativi di ricomposizione delle mansioni (come il cosiddetto spirito Toyota), cercano di adattare la produzione al consumo (produzione just in time), ciò che richiede una piena collaborazione da parte dei lavoratori, ma si sono di fatto rivelati espedienti per coinvolgere i lavoratori nell’etica della produzione.
Singolare che si parli di etica da parte di chi gestisce un sistema la cui unica finalità è la produzione del profitto! In questo caso etico sarebbe il comportamento di chi si identifica nel proprio lavoro sino al sacrificio, e non sarà un caso che il toyotismo sia nato in Giappone, dove persiste una arcaica concezione dell’onore, assente nella cultura occidentale. Da noi prevale la cosiddetta disaffezione al lavoro, di cui il libro della Coin dà ampia testimonianza, che tuttavia non risolve il problema dell’alienazione, né tantomeno quello della mancanza di lavoro, che tende ad essere ormai un fatto strutturale del sistema capitalistico. Mentre prima questo problema si presentava ciclicamente nei momenti di crisi economica, oggi la tendenza alla sottoccupazione si presenta anche nei momenti di espansione, alimentando il ricatto della disoccupazione e accentuando lo sfruttamento della forza-lavoro.
Nel 1980 «Il manifesto» organizza un convegno i cui atti verranno pubblicati con il titolo Liberare il lavoro o liberarsi del lavoro?.1 Questa alternativa (vedremo in seguito se le due cose si escludono necessariamente) centra la questione di cui ci stiamo occupando. Tra i diversi interventi, molti dei quali di rilevante attualità, R. Rossanda pone il problema in modo esplicito chiedendosi se la crisi che ha investito l’etica operaia del lavoro, in un momento in cui ormai «si lavora solo per necessità» e il tempo di vita è divenuto la rivendicazione prioritaria, non «cessi anche il rifiuto attivo dello sfruttamento». Furio Cerutti a sua volta mostra come in Marx sia possibile trovare entrambe le istanze sopra indicate (su questo torneremo).
Come scrive André Gorz in un libro dello stesso periodo:
IV. Quali sono le tendenze in atto?
…ci troviamo di fronte a un capitalismo globalizzato e finanziarizzato che, deprivato del suo antagonista storico, ha riscoperto una cosa che in realtà è sempre stata nelle sue fibre, cioè la vocazione totalitaria a inglobare tutto, a non lasciare nulla fuori di sé, una realtà alla quale noi non eravamo per niente abituati perché siamo vissuti in una società caratterizzata dal conflitto di classe, che promuoveva antagonismo, democrazia, innovazione economica e sociale e l’apertura alla straordinaria possibilità che popolazioni intere potessero concepire una società alternativa.5
Ma, soprattutto, in una visione simile, manca ogni riferimento a ciò che oggi deve essere la lotta di classe (qualche indicazione sugli obiettivi da perseguire la troviamo nel libro di M. Paci, Nuovi lavori, nuovo welfare. Purtroppo Paci ci dice ben poco sugli strumenti di lotta necessari a superare con un nuovo welfare la strutturale precarizzazione del lavoro prevedibile nel prossimo futuro). De Masi riprende la distinzione marxiana tra classe in sé e classe per sé, ma, mentre gli è facile mostrare l’esistenza oggettiva delle classi (in barba a chi sostiene il loro superamento o fantastica sulle moltitudini), ha notevoli difficoltà a ipotizzare come possa ricostruirsi una soggettività politica adatta alla situazione attuale ( comunque non può essere il parto di una sola mente ciò che richiede un processo di riaggregazione e maturazione politica le cui forme oggi non riusciamo a prevedere).
Scrive De Masi, con onestà intellettuale:
1 Liberare il lavoro o liberarsi dal lavoro?, supplemento a «il manifesto» febbraio 1981. Cfr. Lavoro, nuovi bisogni sociali e qualità della vita, Quaderni di «PdS», 1982.
2 A. Gorz, Addio al proletariato, Roma, Edizioni Lavoro, 1982.
3 A. Accornero, Il lavoro come ideologia, Bologna, il Mulino, 1980; Id., Era il secolo del lavoro, Bologna, il Mulino, 1997; U. Bech, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Torino, Einaudi, 2000; M. Paci, Nuovi lavori, nuovo welfare, Bologna, il Mulino, 2005.
4 P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, Roma, DeriveApprodi, 2019.
5 F. Bertinotti, C. Formenti, Rosso di sera, Milano, Jaca Book, 2015.
6 Ivi.
7 Ivi.
8 Ivi.
9 D. De Masi, Il lavoro nel XXI secolo, Torino, Einaudi, 2018, p. 753.
10 H. Marcuse, Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 1968; H. Braverman, La degradazione del lavoro nel XX secolo, Torino, Einaudi, 1978.
11 J. Rifkin, La fine del lavoro, Milano, Baldini e Castoldi, 2000.
12 F. Bertinotti, C. Formenti, Rosso di sera cit.
13 D. De Masi, Il lavoro nel XXI secolo cit., p. 753.