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Questo malessere parla del fallimento di un modello produttivo fermo al secolo scorso, che negli ultimi decenni ha smantellato le tutele e le forme di retribuzione diretta, indiretta e differita che avevano consentito di fidelizzare la manodopera, aprendo a un’economia terziarizzata basata su rapporti di lavoro individuali e precari, nei quali i dipendenti devono dimostrare devozione al lavoro, mentre le aziende possono assumerli per licenziarli all’occorrenza.
Parla anche, inevitabilmente, di un mondo del lavoro che negli ultimi decenni è stato costretto a fare i conti con una intensa attività antisindacale, che ha stigmatizzato e spesso punito chi si lamentava – basti pensare alle modalità con cui le lotte dei sindacati di base in questi anni sono state osteggiate. Una intensa attività antisindacale che, in questo senso, ha reso difficile le forme di ricomposizione all’interno di luoghi di lavoro.
In questo contesto, il dibattito sulla disaffezione al lavoro può essere considerato l’epifenomeno di un trend di lungo corso, contraddistinto dalla crisi del concetto di lavoro che abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra e dalle possibilità di dare voce alle rimostranze di chi lavora. La triade exit, voice, loyalty di Albert Hirschman appare qui, ancora, quanto mai valida, nella sua capacità di mostrare come la fuga dai luoghi di lavoro derivi anche da un fallimento della capacità organizzativa del lavoro di cambiare il rapporto di forze al loro interno.
Non è una novità che, come risultato di queste tendenze, il mondo del lavoro abbia conosciuto uno smantellamento dei diritti, negli ultimi decenni. Il contesto lavorativo è stato caratterizzato da quello che David Graeber1 ha definito il paradosso del lavoro contemporaneo. Il fatto che la maggioranza delle persone deriva dal proprio lavoro un senso di dignità e autostima, anche se la maggioranza delle persone lo detesta. David Graeber parlava del paradosso del lavoro contemporaneo nel 2018, poco prima dell’inizio della pandemia, per portare alla luce la strana contraddizione in base alla quale ci si aspetta di ricevere riconoscimento da un’attività che si considera «fisicamente estenuante, noiosa, psicologicamente umiliante o priva di senso». Qualche anno dopo la fine della pandemia, questa contraddizione perde di pertinenza.
Dopo la pandemia, non è necessariamente vero che le persone cercano riconoscimento nel lavoro.
Lo dice bene nel suo intervento Antonina Cosentino Leone, che osserva come queste forme di sottrazione siano ribellioni intellettuali «all’insalubre romanticizzazione dell’identificazione con il proprio lavoro. Come se dal lavoro che abbiamo dipendesse il nostro valore umano. Io sono sempre la stessa persona, indipendentemente dalla mia mansione lavorativa, dalla retribuzione e dal ruolo sociale che ho».
Questo è un dato importante, che apre un varco nella narrazione colpevolizzante dei decenni appena trascorsi.
Per lungo tempo, è stato facile essere catturati da una narrazione che considerava il lavoro povero come il sintomo di uno scarso valore della persona che lo svolgeva. Buono a nulla di Mark Fisher2 e tutti i suoi scritti sulla depressione parlano esattamente dell’effetto che la narrazione del merito ha avuto su chi lavora, producendo sensi di colpa per non essere all’altezza delle aspettative della società della performance. Quello che rimaneva sullo sfondo erano le trasformazioni macroeconomiche che hanno reso gradualmente sempre più difficile ottenere riconoscimento economico, professionale e sociale in una società che ha diffuso il lavoro povero e smantellato i diritti. Per certi versi, le grandi dimissioni segnano un disinvestimento emotivo dalla società della performance e mostrano una crescente consapevolezza del fatto che se il sacrificio non porta ad alcuna ricompensa, non vi è ragione di svolgerlo.
L’uso estensivo di contratti precari, part time o in nero, organici tagliati all’osso, orari impossibili, paghe basse e un clima aziendale tossico: sono queste le ragioni per cui il mercato del lavoro non offre riconoscimento. Da questo punto di vista, le grandi dimissioni mostrano l’esistenza di un pezzo di società che crede che il problema siano le politiche di impoverimento e disinvestimento che hanno caratterizzato la struttura produttiva italiana negli ultimi decenni. Un pezzo di società che vorrebbe dedicare la propria vita ad attività che hanno un impatto positivo nel tessuto sociale, che beneficiano gli individui e la collettività, che hanno un senso.
Qualche anno fa, Hartmut Rosa parlava di politica della risonanza,3 per descrivere un impulso umano a creare relazioni con persone nella cui esperienza ci si identifica. Da questo punto di vista, il dibattito che ha seguito la crescita delle dimissioni volontarie apre, volendo, a una politica della risonanza. Oggi, chi sta male non è un buono a nulla, è una persona sfruttata. In questo contesto, la possibilità di trasformare il malessere soggettivo in un progetto di classe nasce anche dalla possibilità di condividere un malessere di cui non ci si sente più causa. Per molti versi, la possibilità di riconoscersi in quanto persone svalorizzate da questo sistema sociale e produttivo è forse uno degli aspetti più interessanti del dibattito sulle grandi dimissioni. In questo contesto, la possibilità di risuonare con le esperienze altrui è essa stessa in erba una modalità di ricomposizione di classe. La crescita del turnover volontario, a sua volta, è il sintomo di un bisogno diffuso di trovare nuove forme di ricomposizione laddove il sindacato aveva lasciato un vuoto.
Come ricorda Morales citando Domenico De Masi, oggi più che mai esistono gli sfruttati, ma «non sono organizzati in classe, non hanno un progetto comune e non lottano per affermarlo. Non vi sono più un partito e un sindacato… che diano voce ai lavoratori e nei quali i lavoratori si riconoscano».
Queste forme di ricomposizione sono tanto più importanti quanto più il resto dei corpi intermedi collassa.
Da questo punto di vista, risuonare con lo sfruttamento altrui è il primo passo di un processo di ricomposizione urgente.
Un’altra possibilità di ricomposizione sottesa alle grandi dimissioni deriva dalla possibilità di un uso politico e sindacale della carenza di manodopera. In questi mesi, la carenza di manodopera ha costretto diverse aziende a fare i conti con la crescita del turnover. L’assenza di personale consentiva ai lavoratori di avere un elemento di forza in più nella negoziazione con la parte datoriale. Come ha detto Cathy Creighton,4 sindacalista statunitense, «se non c’è nessuno in fila per prendere il tuo posto di lavoro perché non ci sono abbastanza persone, questo ti dà una forza incredibile nello sciopero». Creighton tocca un punto fondamentale, perché la carenza di personale può rafforzare le richieste dei lavoratori, perché obbliga la controparte a concessioni salariali o organizzative per mandare avanti la propria attività. In un’epoca segnata dalla carenza di personale in modo trasversale ai paesi e al mercato del lavoro, complici la crisi demografica, il mismatch tra competenze offerte e l’elevato turnover volontario del personale, la carenza di personale può essere un’alleata strategica della protesta, e diventare una delle leve su cui fare leva per chiedere diritti e aumenti salariali.
Stiamo, certo, parlando di una fase specifica, segnata dall’inflazione e dalla crescita della domanda che ha fatto seguito alla pandemia. Essa resta, tuttavia, uno dei diversi strumenti da usare per invertire il rapporto di forze.
Dopo trent’anni di assalto ai diritti del lavoro, un processo di ricomposizione può partire anche da qui.
1 D. Graeber, Bullshit Jobs, Milano, Garzanti, 2018.
2 M. Fischer, Good For Nothing, in «The Occupied Times», March 19, 2014.
3 H. Rosa, Resonance. A sociology of our relationship to the workd, Cambridge, PolityPress, 2019.
4 J. Ho, U.S. Labor Strikes Went up Almost 50% Beetween 2021 and 2022, in «Marketplace.org», January 16, 2023.