Le grandi dimissioni
Un dibattito a partire dal libro di Francesca Coin (II)
Felice Rappazzo

Penso che Le grandi dimissioni esponga un importante e impensato aspetto della resistenza allo sfruttamento brutale del e sul lavoro, accompagnato dalla perdita della sua dignità e dei diritti dei lavoratori; tanto più che si tratta di un panorama mondializzato. Mi pare un dato ormai incontestabile, ma dovrebbe essere chiaro che abbandonare il lavoro non è una soluzione sociale, non è una rivoluzione. Perciò voglio partire dalla questione gigantesca posta da Antonia verso la fine del suo intervento, e ripresa, mi pare, anche da Ludovica: che fare per trovare una via o forma di organizzazione, di dialogo, di presa di coscienza che, superando il boicottaggio individuale (sebbene diffuso in maniera sorprendente) della produzione e del lavoro che ogni singola dimissione segnala, possa consentire forme moderne, diverse ma efficaci, di aggregazione delle varie figure proletarie che oggi proliferano, sparse e disperse? Il che rimanda a una domanda ancora più ampia: come far precipitare in politica e in movimento coeso della società l’insieme diffuso dei disagi economici, soggettivi, materiali e psicologici che distruggono le vite e le aspettative della maggioranza della popolazione mondiale, insomma il nuovo diffuso proletariato dalle mille facce? La domanda non è certo nuova, e non riguarda solo l’orticello italiano, ma da qui partiamo.

Prendiamo le mosse dal “caso” GKN che è – appunto – un “caso”. La mezza vittoria ottenuta infine dai lavoratori con la sentenza del dicembre 2023 che annulla i licenziamenti, frutto di una resistenza strategica degli operai e della loro capacità di coinvolgere il territorio e la parte più attenta del Paese, resta precaria e isolata: il fatto è che la struttura produttiva italiana (accompagnata dalle leggi che hanno ristretto se non azzerato le garanzie e i diritti del lavoro) ha emarginato e reso minoritaria, anche numericamente, l’aggregazione operaia e in genere quelle sociali che attorno ad essa si costruivano, nei vari comparti privati e pubblici; a ciò si aggiunge il verticale crollo dell’investimento pubblico, e quello del cosiddetto welfare. Di conseguenza occorre guardarsi intorno, prendere atto della disgregazione, pensare più in profondità a quella che è oggi la figura del lavoratore dipendente e a nuove forme di lotta, aggregazione e coscienza “di classe”. Proprio a proposito della GKN osservatori attenti hanno posto l’attenzione sulla sua eccezionalità e sul fatto che, proprio a causa della polverizzazione sociale, bisogna acquisire il dato che le figure proletarie sono molteplici e che l’operaio-massa degli anni Sessanta e Settanta ne è solo una nobile ed essenziale componente, un punto di riferimento storico ancora importante, ma non certo, oggi, risolutivo e decisivo. Tempo fa si sarebbe potuto additare in proposito il Mezzogiorno, oggi mi sembra che la disgregazione sia ben più diffusa e generalizzata: basti pensare alla dimensione che ha, in Italia, il cosiddetto lavoro “povero”, faticoso, umiliato e mal remunerato.

Breve digressione: nelle dinamiche del capitalismo la creazione (spesso programmata) di masse di diseredati, la cosiddetta pauperizzazione, è una costante, ed è stata quasi sempre gestita politicamente: il fenomeno più noto è probabilmente quello inglese (e in particolare londinese) del primo Ottocento, quando masse di sottoproletariato vagavano per la metropoli, provocando fra l’altro la famosa «poor law» (1833, mi pare), legislazione per inquadrare e controllare i miserabili. Su questo fenomeno ha scritto molto Dickens, a sua volta ispirato dal giornalista e agitatore Henry Mayhew. Ma, andando a ritroso nel tempo, se ne trovano, in tutta Europa, molte fasi e molti esempi. Può sembrare una digressione, ma voglio ricordare che il capitalismo costruisce la sua pretesa razionalità economica in gran parte anche sulla rapina economica, sulla concentrazione del capitale così come del potere e sull’emarginazione sociale, fino alla produzione di scarti umani (e di merci) in quantità incredibile. Non dobbiamo credere perciò che quel che accade oggi sia un fenomeno eccezionale.

Ma torniamo ai nostri giorni, in Italia. Non si tratta solo delle nuove micidiali norme che si sono succedute a partire almeno dal “pacchetto Treu”, fino alla cancellazione delle principali garanzie contenute nello Statuto dei lavoratori. Non si tratta nemmeno soltanto del cedimento dei partiti di massa e delle organizzazioni sindacali alle sirene del liberismo. Dobbiamo persuaderci che nei settori nei quali lavoratori e lavoratrici rischiano maggiormente il burnout (ristorazione, come sostanza del cosiddetto “turismo” e super/ipermercati; e non dimentichiamoci delle finte partite IVA, del caporalato nelle campagne) i datori di lavoro possono permettersi di praticare lo schiavismo per condizioni e ragioni di fondo: la riduzione dei luoghi e delle strutture produttive o di servizi che aggregano lavoratori, ossia la fabbrica, le scuole, i comparti tradizionalmente aggregati e aggreganti… L’Italia ha da tempo perduto o dismesso settori strategici come chimica, informatica, ora anche siderurgia e meccanica: da qui la crisi oggettiva dei sindacati, la difficoltà di costruire organismi consiliari. L’occupazione, maledetta e precaria, si disperde così in luoghi e con forme che isolano i singoli lavoratori e li mettono in concorrenza.

Quanto sopra riguarda il piano oggettivo, perché la dispersione fisica e sociale dei lavoratori aggregati, cui si aggiunge il ridotto peso del sindacato (anche per colpa del sindacato stesso), l’inconsistenza di un riferimento politico di sinistra che non sia quello che guarda estatico al liberismo e al “mercato”, non consentono un precipitato chimico, una forma aggregata della resistenza e delle lotta organizzata, consapevole. C’è però, di fronte, anche un dato soggettivo, l’altra faccia della medaglia. Qui la questione è ancor più difficile, credo, ma la sostanza può essere posta nei termini classici, quelli che rimandano all’idea della coscienza di classe. Non si è classe, infatti, solo perché si è di fatto in una situazione oggettiva comune, se manca la coscienza di essere – appunto – una classe. Paghiamo anche gli effetti della cosiddetta «società dello spettacolo», che oggi dilaga con le sue forme tentacolari e volgari. La Santanchè e Briatore sembrano i nuovi modelli culturali e ormai anche produttivi dominanti.

Ai giovani si rimprovera spesso la distrazione dietro i social, ma questo potrebbe essere soltanto un effetto dello strapotere egemonico del capitalismo dei nostri giorni, un effetto che a sua volta si trasforma in causa: causa di inerzia e passività, oltre che di disperazione. Spesso constatiamo che molti giovani hanno introiettato la precarietà non solo come inevitabile, ma addirittura come una possibilità, una opportunità. Qualcuno, da anni ormai, parla di narcinismo, ossia di narcisismo più cinismo. Al discorso del padrone (ossia a un imperativo diffuso che dice: produci, risparmia, disciplinati, contieniti) si è sostituito, diceva lo psicoanalista Jacques Lacan, il discorso del capitalista: godi, consuma, spreca. Il piano culturale e antropologico incrocia quello economico e sociale. Siamo di fronte a un doppio vincolo: quello oggettivo, e quello soggettivo. C’è una risposta a questa impasse, ossia di narcisismo più cinismo. Al discorso del padrone (ossia a un imperativo diffuso che dice: produci, risparmia, disciplinati, contieniti) si è sostituito, diceva lo psicoanalista Jacques Lacan, il discorso del capitalista: godi, consuma, spreca. Il piano culturale e antropologico incrocia quello economico e sociale. Siamo di fronte a un doppio vincolo: quello oggettivo, e quello soggettivo. C’è una risposta a questa impasse? C’è una via perché quello che sembra essersi dissolto nell’aria si solidifichi daccapo, sebbene in nuove forme e nuovi luoghi? E ancora: come procedere a un innesto, a una sinergia fra le figure sociali marginali nel cosiddetto Primo Mondo, e quelle nuove che identifichiamo nei cosiddetti “migranti”? Era in fondo l’esigenza, la richiesta profonda, che poneva, oltre sessant’anni fa, Frantz Fanon, nel chiudere il suo bellissimo saggio I dannati della terra. Che non sono più soltanto, oggi, i colonizzati “esterni”, ma anche quelli “interni” al mondo capitalistico, agli Stati Uniti e alla Cina, all’Europa già del welfare.

La risposta, amici, ieri come ancora oggi, soffia nel vento…