Le grandi dimissioni
Un dibattito a partire dal libro di Francesca Coin (I)
Antonia Cosentino Leone

Il libro-inchiesta Le Grandi Dimissioni (Torino, Einaudi, 2023) di Francesca Coin, sociologa che attualmente insegna in Svizzera, ha suscitato un interesse piuttosto vasto, che si è esteso al di fuori dell’ambito scientifico e professionale coinvolgendo più ampie platee di lettori. Esso affronta il tema dell’abbandono volontario del lavoro – sentito e subito come oppressivo e incompatibile con la “vita” – negli ambiti più vari delle attività, soprattutto per la incertezza dei diritti, per l’impegno che si vuole totalizzante e corporativo, per la precarietà, per le umiliazioni che vi si subiscono. Sorprende innanzi tutto l’ampiezza e la diffusione del fenomeno, che attraversa i continenti, toccando ad un tempo, per segnalare gli estremi geografici politici e culturali, gli Stati Uniti e la Cina, e naturalmente coinvolgendo l’Italia, la cui situazione è affrontata nei capitoli centrali, con numerose inchieste sul campo.

Il libro si fa apprezzare sia per la sua originalità tematica, almeno per il pubblico non specializzato, sia per quella che una volta si sarebbe definita “scorrevolezza”, che non è solo una qualità di scrittura ma soprattutto la capacità, che l’autrice possiede, di collegare il terreno dei dati (e della ricognizione della letteratura scientifica sull’argomento) con la concreta e sofferente esperienza dei lavoratori e delle lavoratrici, nelle parti d’inchiesta relative alla situazione italiana.

La presentazione che se ne è fatta a Catania è dovuta all’iniziativa di un variegato collettivo appena costituitosi informalmente, che mira tuttavia a diventare una associazione culturale nel nome di un indimenticato militante e dirigente politico, Gabriele Centineo. Essa è stata affidata alle relazioni di due giovani donne, lavoratrici precarie impegnate a vario titolo, e agli interventi (alcuni dei quali programmati, altri invece suscitati spontaneamente dal dibattito) di vari altri soggetti, più anziani.

I testi che qui presentiamo sono quelli di Antonia Cosentino Leone (relatrice) e alcuni interventi scritti, rielaborati dagli appunti dei rispettivi autori e autrici. Non è stato purtroppo possibile ottenere il testo della seconda relazione, dovuta a Ludovica Intelisano, così come di altri interventi che si sono susseguiti nel dibattito.

Riteniamo utile, con questa pubblicazione, dar conto di questa iniziativa, e ringraziamo la redazione dell’«Ospite ingrato»: e naturalmente Francesca Coin, per aver scritto il libro, e per essersi resa disponibile a concludere il dibattito con un suo ulteriore intervento che pubblichiamo.

[a cura del Collettivo di analisi e inchiesta, Catania, 28 febbraio 2024 (f.r.)]

Le grandi dimissioni, un libro in cui in troppe e troppi possiamo specchiarci

Il libro di Francesca Coin è una bellissima inchiesta sulle grandi dimissioni, il fenomeno molto complesso e contraddittorio del rifiuto del lavoro, di chi sceglie di andar via nonostante l’assoluta incertezza del futuro. Un fenomeno che l’autrice interpreta come sintomo di una rottura epocale con il tempo storico in cui ha regnato la speranza che il lavoro consentisse di realizzare sogni di emancipazione e mobilità sociale, sul piano individuale, e che potesse essere uno strumento per salvare il mondo da fame e povertà, sul piano sovraindividuale.

Il libro ci mostra le grandi dimissioni nella loro dimensione mondiale, offrendo analisi di situa-zioni apparentemente molto diverse, ma con molto in comune come quella cinese e statunitense, per poi focalizzarsi sul nostro Paese e mostrarne invece la trasversalità, dato che ad essere coinvolti sono davvero tutti i settori del mondo lavorativo.

Chi lascia il lavoro non lo fa perché altezzoso o perché “se lo può permettere”, lo fa perché non ne può più e preferisce sottrarsi al meccanismo di distruzione che lo vede lavorare sempre e non potersi comunque permettere sia l’affitto che la cena.

Un rifiuto che nasce da una consapevolezza nuova e che arriva dopo il lento e programmato deterioramento delle condizioni di lavoro avvenuto insieme alla costruzione di una cultura del lavoro tossica, fatta di salari bassi e turni massacranti, mobbing, vessazioni, sessismo, scarsa sicurezza del e sul lavoro.

Un deterioramento che è andato avanti supportato da una narrazione che ha edulcorato quanto si stava realizzando con immagini indubbiamente suggestive. Parole e immagini che l’autrice raccoglie lungo tutto il libro, a cominciare dall’insalubre romanticizzazione dell’identificazione con il proprio lavoro. Come se dal lavoro che abbiamo dipendesse il nostro valore umano.

Io sono sempre la stessa persona, indipendentemente dalla mia mansione lavorativa, dalla retribu-zione e dal ruolo sociale che ho. E dico io non a caso perché in questo libro così ricco di testimo-nianze, che forse più dei ragionamenti avvicinano il lettore alla dimensione di chi si trova a compiere una scelta di queste, mi sono spesso specchiata. Qualcosa che leggendolo capiterà a tanti, troppi.

Ma torniamo alle parole. Una è sicuramente “impegno”. Ci è stato raccontato come generazione che al nostro grado di impegno sarebbe corrisposto un riconoscimento lavorativo adeguato, un successo, ma questa narrazione non ha tenuto conto del contesto socioeconomico che cambiava, delle nuove condizioni lavorative, generando in noi frustrazione e senso di inadeguatezza e fallimento, che hanno nelle nostre vite un impatto importante, con ricadute considerevoli su come gestiamo i rapporti lavorativi.

La letteratura sulle risorse umane ha poi compensato lo smantellamento dei diritti e delle tutele del mondo del lavoro e l’erosione della retribuzione con un’abbondanza di riferimenti cognitivi e affettivi all’impegno richiesto ai lavoratori, laddove per impegno si intende un concetto molto simile a quello di matrimonio.

L’azienda è come una grande “famiglia”. Spendersi per la famiglia non è certamente paragonabile allo spendersi per un estraneo sotto un rapporto di lavoro. Quando un familiare ha bisogno di aiuto ci si attiva subito per risolvere il problema, così i dipendenti si adoperano persino quando non è richiesto. E se gli accordi contrattuali, ad esempio, non sono rispettati, ci si aspetta che i lavoratori mostrino comunque comprensione, impegno e fedeltà e non che avanzino pretese sui propri diritti non riconosciuti, altrimenti darebbero dimostrazione di non essere fedeli alla famiglia, di non credere nel progetto.

Una narrazione che falcidia tutte le regole che normano il rapporto lavorativo, che è crollata per la prima volta durante la pandemia di Coronavirus del 2020, quando “la famiglia” ha abbandonato senza remore i suoi dipendenti non più essenziali o addirittura li ha mandati a lavorare senza alcuna condizione di sicurezza, mettendone a rischio persino la vita. È in quel preciso momento che iniziano tante storie di rifiuto del lavoro, come se l’esperienza della pandemia avesse fatto da spartiacque dentro molti di noi su tante consapevolezze fino a quel momento sopite. E l’incantesimo si è rotto.

C’è poi il concetto di lavoro nero e lavoro gratis (pensiamo a tutte le forme consentite dalla legge) come sacrificio temporaneo per un “investimento” futuro. Un ricatto che si concretizza soprattutto nelle fasi di inserimento nel mercato del lavoro.

Il lavoro non è più un diritto, né un dovere, ma un dono, un favore, che l’azienda ci fa, un’occasione di crescita, di professionalizzazione, di formazione, un investimento sul nostro futuro, appunto.

Ecco perché l’esitazione ad accettare un impiego sembra così assurda e ci viene raccontata come “nessuno vuole più lavorare”. A sostegno di questa narrazione c’è, infatti, l’enorme visibilità di storie come quella della

donna che tutti i giorni da Napoli va a lavorare come bidella a Milano. Ogni mattina prende il treno, per risparmiare sull’affitto, e la sera si dichiara felice di tornare a casa in famiglia con i genitori, la nonna e i cagnolini. Queste storie, molto discusse e spesso smentite, lodano il sacrificio individuale, la capacità di accettare la durezza della vita, l’umiltà di chi al lavoro dà il massimo, nonostante lo sfruttamento e le paghe basse, oscurando così l’immagine di un Paese sempre più diseguale, nel quale la desertificazione produttiva rende difficile uscire dalla disoccupazione anche per chi lo desidera. Di fatto, dietro queste narrazioni colpevolizzanti, ci sono zone del Paese in cui il lavoro non si trova, non tanto a causa della disoccupazione volontaria, quanto per l’assenza pluridecennale di una politica industriale e di investimenti in ricerca e sviluppo, che ha trasformato intere aree d’Italia in un deserto produttivo. Per comprendere cosa sta accadendo, dunque, bisogna uscire da questa cornice narrativa e prendere in considerazione tutte le contraddizioni dell’anomalia italiana: lo strano caso di un Paese nel quale ci sono circa cinque milioni di persone disoccupate e scoraggiate e, nonostante questo, interi settori sono incapaci di reperire personale.1

Non è che manchi il lavoro o la manodopera. È che il lavoro è così malpagato che si preferisce rifiutarlo. Sono le condizioni di accettabilità a mancare. Ma ci raccontano altro. Invitandoci a provare pietà per certi imprenditori e disprezzo per un’improbabile massa di fannulloni.

Ci raccontano che mancano “passione” e “amore per il lavoro”, due concetti che spostano continuamente «la linea di demarcazione tra ciò che pensiamo debba essere fatto per amore e ciò che pensiamo debba essere fatto per denaro», sigillando la collaborazione tra un regime di lavoro sempre meno tutelato e retribuito e la sua stessa preda e trasformando l’amore in una risorsa emotiva capace di intrappolare la classe precaria in un contesto di sfruttamento continuo.

Dietro si cela l’aspettativa che cadano tutte le barriere tra il lavoro e la vita privata, che le persone siano disponibili H24 e che considerino il lavoro una passione, un hobby, una priorità al pari di trascorrere il tempo con i propri affetti.

Un meccanismo perverso in cui anche uscire puntuali dall’ufficio diventa una forma di inadempienza, in cui rapportarsi al lavoro come semplice lavoro è già considerato un affronto, una forma di insubordinazione, mancanza di deferenza e gratitudine.

Non basta essere puntuali e produttivi, bisogna essere devoti. Ma il rapporto d’amore di cui stiamo parlando è un rapporto squilibrato e non reciproco, in cui il sacrificio di una parte è funzionale ai profitti dell’altra.

Infine, torniamo al concetto di “identità”, ovvero al processo di imbrigliare l’identità delle persone nel proprio ruolo produttivo. Se ci pensate un attimo lo facciamo continuamente anche noi quando chiediamo a qualcuno che lavoro fa come prima cosa, come se fosse solo quello a identificarlo.

Occorre riportare il lavoro alle sue unità di base: soldi – tempo.

Le grandi dimissioni non sono la soluzione, sono il sintomo di qualcosa che si è rotto o si sta rompendo, accendono i riflettori sul marcio del capitalismo estrattivo che produce ricchezza sull’esaurimento delle risorse e delle persone.

Raccontano una nuova narrazione, quella del “sottrarsi”, che significa rifiutare il lavoro e il ruolo sociale ad esso collegato come destino, ma anche resistere alla necessità di produrre e consumare continuamente come se solo da questo derivasse la realizzazione umana.

Significa cambiare l’idea di sviluppo, dando spazio ai desideri, agli affetti, a tutto il mondo di interessi, passioni, piaceri che ci definisce oltre al lavoro.

Il rifiuto del lavoro non è antilavorismo come quello che veniva teorizzato dal Movimento operaio degli anni Settanta, quando si diceva «abolire il lavoro per restare a casa a fare l’amore». È rifiuto come necessità di sopravvivenza, è quindi più affine al rifiuto del lavoro di cura dei Movimenti femministi degli anni Settanta (ahimè ancora attuale), che nasceva non dalla teoria, ma dall’esigenza vitale e concreta di disconoscere il ruolo in cui la società aveva incasellato e confinato le donne.

Francesca Coin traccia delle ipotesi di strade da percorrere per uscire da questi meccanismi: sicuramente l’aumento dei salari, il controllo del lavoro sommerso, l’aumento degli organici, l’abolizione di tutte le forme di lavoro gratuito, e non ultima la lotta. Ma come si fa a creare coesione sociale quando ci hanno abituati a percepirci come individui singoli, atomi in questo mercato del lavoro, e quindi a ragionare sui nostri personali e unici limiti di accettazione o meno di una specifica condizione lavorativa, soprattutto nel privato, consapevoli che il nostro no, sarà il sì di qualcun altro? Il potenziale di questa disaffezione al lavoro è enorme, ma come organizzarlo?

Dove si parla di lavoro oggi? Nei luoghi di lavoro certamente no. Sui social sempre meno, considerato i recenti annunci di Meta che ridurrà lo spazio e la visibilità per i temi di politica.

Il rifiuto va collettivizzato a partire dallo sradicamento del binomio lavoro=valore, altrimenti rimane confinato in una dimensione individuale che non cambia il mondo del lavoro, non nell’immediato almeno. Il libro sollecita certamente il nostro impegno in questa direzione, ma da dove cominciare?

Note

1 F. Coin, Le grandi dimissioni, Torino, Einaudi, 2023, pp. 101-102.