Il tema «Lavoro e letteratura» fa parte di una costellazione complessa fin dall’inizio. Nel sistema topico delle pratiche umane sviluppatosi nella modernità – diciamo tra il XVIII secolo e la fine del Novecento – entrambi questi termini sono portatori di una tensione, o forse di una contraddizione, che è quella tra libertà e necessità, tra autenticità e alienazione, tra autonomia e eteronomia. Impossibile qui ricostruire tale costellazione nel dettaglio e nel suo divenire, che comporterebbe lo studio approfondito di figure quali Adorno, Barthes, Bataille, Simone Weil (per restare al Novecento). Ci basterà delinearne le tensioni tematiche e concettuali.
Ricordiamo in ogni caso che un punto di arrivo, o comunque un vertice di intensità, di questa problematica è il testo di Franco Fortini, Opus servile, dei primi anni Novanta del ventesimo secolo, in cui l’attività letteraria è categorizzata attraverso l’assiomatica del lavoro fornita da Hegel nella “dialettica del servo e del padrone”. È chiaramente a partire da questa categorizzazione, che implica una discussione dei generi letterari e del loro rapporto con il tempo e il linguaggio, che sarebbe possibile ricostruire le figure del tema «Lavoro e letteratura» negli autori citati e in quanti ne sviluppano oggi la problematica (due tra tutti: Jacques Rancière e Giorgio Agamben).
1. Duplicità del lavoro
La parola “lavoro” fa parte del nostro discorso politico quotidiano. Ma parliamo veramente della stessa cosa, e della stessa nozione, nei discorsi dei teorici post-marxisti sul potenziale emancipatore del “lavoro immateriale”, nelle mobilitazioni contro la precarietà e misure quali l’infausto jobs act, nella constatazione che un numero crescente di persone sono escluse dal lavoro nei paesi “sviluppati”, nella rivendicazione da parte dei migranti di accedere a dei lavori regolari?
La parola “lavoro” circola in tutti questi discorsi articolandosi alla descrizione di fenomeni tecnologici, giuridici, sociologici – informatizzazione, uberizzazione, precariato – e a delle rivendicazioni salariali e normative che riguardano degli statuti determinati (precarietà, disoccupazione, declassamento, illegalità…).
Ma questa parola è davvero sufficiente per esprimere una struttura coerente in grado di connettere tutti questi fenomeni, queste analisi, queste richieste e questi rifiuti? E soprattutto: è suscettibile di oltrepassare la semplice descrizione per collegare questa (ipotetica) struttura coerente a qualche orientamento etico e politico univoco?
Forse l’evocazione attuale del “lavoro” in tutte queste accezioni non rinvia solo ad una molteplicità non-totalizzabile di sistemi di riferimento che mettono in causa dei significati cognitivi e pratici ciascuna volta diversi, ma anche ad una discordanza dei tempi, la quale fa sì che nel presente persistano e insistano le vestigia di tempi altri, e che nelle parole da noi oggi impiegate risuonino dei discorsi, delle nozioni, degli affetti e dei gesti divenuti estranei e opachi, un tempo parti di un tutto coerente sostenuto da una struttura oggi scomparsa, ma le cui tracce, mischiate alle forme del presente, continuano ad evocarla sottoforma di un’esistenza inattuale.
Tale è il caso del “lavoro”, il cui presente contiene, ma sottoforma di sintomo, il campo dei significati che tale parola ha implicato a partire dall’Ottocento e che sono divenuti oggi ineffettuali dopo la crisi e la caduta del movimento comunista. Come ricorda Jacques Rancière:
Ciò che sorge in quel momento [nel 1850], in particolare attraverso lo sviluppo di tutta la rete delle associazioni operaie, è l’idea che il lavoro costituisce un mondo comune, l’immensa struttura orizzontale di un sistema di produzione e di scambio che può funzionare da solo e senza gerarchia.
È questa visione di un avvenire in cui i rapporti mediati dalle astrazioni della moneta e della merce sarebbero (ri)divenuti dei rapporti diretti tra gli uomini produttori che ha sostenuto lo sviluppo dei vari socialismi.1
Secondo Rancière, un tale statuto del lavoro è oggi inesistente:
2. Lavoro e “spirito”
La diagnosi di Jacques Rancière è indubbiamente pertinente. Tuttavia, è forse possibile sfumare un po’ il suo profilo del lavoro nell’Ottocento. Poiché il secolo che vede la nascita dei socialismi, ma anche il dispiegamento della filosofia classica tedesca, ha pensato il lavoro in modo coerente, ma dialetticamente contraddittorio, quale si esprime nel mito filosofico del Signore e del Servo nella Fenomenologia dello Spirito (1807),4 l’opera che inaugura – e forse riassume per anticipazione – i problemi essenziali della modernità pienamente dispiegata. Qui, il lavoro appare come il campo di una tensione, in cui la costruzione da parte del genere umano della sua libertà e della sua coscienza, l’appropriazione delle sue forze immanenti, sono sempre-già prese in una zona d’indiscernibilità tra la perdita radicale del senso e la vita autentica.
Nell’Ottocento, emerge l’idea che il lavoro è una realtà strutturalmente duplice: da un lato, esso è il luogo dello sfruttamento, della subordinazione e della pena; dall’altro, esso rappresenta una pratica di costituzione di un mondo comune libero da ogni necessità esteriore. Il lavoro incarna la disumanizzazione degli uomini sottomessi all’espropriazione e all’esaurimento delle loro forze fisiche ed intellettuali, ma anche l’umanizzazione del mondo che le forze collettive dei produttori istituiscono e riproducono.
Nel lavoro, l’attività e i poteri dell’uomo sono incorporati a delle finalità esterne, affetti da una divisione radicale tra coloro che dirigono e godono, da un alto, e, dall’altro, coloro che eseguono; ma il lavoro è anche la condizione alla quale i lavoratori possono acquisire un’esperienza e un sapere, una padronanza del mondo e delle loro forze proprie attraverso il confronto con la necessità.
I lavoratori tendono a ridursi alla condizione dello strumento o dell’animale, ad un’esistenza totalmente eteronoma e strumentale; ma fanno anche l’esperienza della socialità e della condivisione della vita e del pensiero con i loro compagni – comunicazione e comunione. Infine, nel mentre che i loro gesti sono sottomessi ai fini e alle volontà dei loro padroni, essi possono fare l’esperienza della finalità e dell’autonomia, del potere di dare una forma alla materia e ai loro propri gesti.
In questa esperienza moderna, il lavoro è indissociabilmente un’azione necessitata e una pratica della libertà, una forma d’esistenza “minorata” e un’appropriazione di sé e del mondo, un’esposizione alla necessità e alla violenza cieche e un’arte di vivere. Così, il lavoro diventa il luogo in cui delle gerarchie e delle diseguaglianze immemorabili si rovesciano le une nelle altre e si trasformano nei loro contrari, ma anche il campo in cui le tensioni che attraversano la specie umana si accentuano fino alla separazione radicale tra differenti forme e generi di umanità.
Da un lato, la necessità e la passività immanenti al lavoro rinviano al ritmo dell’esistenza pre-umana, alla semplice riproduzione naturale aldiquà dell’antropogenesi; dall’altro, il lavoro in quanto progetto, libertà e finalità immanenti allude ad uno spazio che si apre aldilà del lavoro stesso, ma anche della condizione umana ordinaria. Ecco perché l’immagine del lavoro è inseparabile tanto dal suo aldiquà, che è la semplice natura, che dal suo aldilà il quale coincide, nella topica moderna delle pratiche umane, con l’attività artistica.
Da qui viene il legame che unisce la pratica estetica e il comunismo in quanto progetto fondato ad un tempo sul “mondo comune” prefigurato dal lavoro e sulla critica della non-libertà del lavoratore:
Ma se il lavoro deve la sua centralità politica alla tensione che esso istituisce tra necessità e libertà, tra mezzi e fini, diventa possibile misurare a che punto le critiche sociali contemporanee evocate da Rancière rappresentino un regresso rispetto a Marx o a Hegel. Poiché per esse la “rivoluzione” finisce per essere identificata, da un lato, con la semplice attività vitale immediata disgiunta da qualsiasi finalità e da ogni distanza presa rispetto all’immediatezza attraverso un progetto; e, dall’altro, con un’attività “immateriale” supposta essere immediatamente ed intrinsecamente libera da ogni costrizione, da ogni sforzo penoso e da ogni pesantezza di una materia ad un tempo vulnerabile e indocile. In queste due immagini contemporanee del lavoro – la “vita” e l’“immateriale” – che strutturano dei discorsi “critici” incapaci di articolarsi all’esperienza ordinaria di un lavoro ridotto a precarietà e a gestione delle risorse umane, divengono manifesti il crollo della sintesi socialista o comunista moderna e la sua sostituzione con un campo di separazioni in cui la costituzione di un mondo comune nel seno stesso della pena e dell’eteronomie è rimpiazzata dalle distanza abissali e quasi biologiche tra gli esseri e le esistenze.
Da questo limite adialettico mi sembra non andare esente la posizione – ben più ricca e fondata su una ben miglior conoscenza delle realtà sociali e professionali – di Sergio Bologna:
La distinzione proposta da Bologna tra attività intellettuale e semplici skills mi pare essere del tutto pertinente. Ma perché rifiutare la qualifica di “lavoro” all’attività “libera”? Non si finisce anche in questo caso per sacrificare la duplicità della nozione di “lavoro”, che è lungi, nell’ottica dell’analisi marxiana, dal rappresentare solo la maledizione dell’eteronomia? E soprattutto, non si finisce così per sottrarre all’attività “spirituale” libera – quindi anche all’attività artistica che ne è in qualche misura il simbolo e la vetta – ogni rapporto con la necessità, la durata e la pena dell’esistenza finita?
3. Duplicità della letteratura
Se ci volgiamo al secondo termine del rapporto tra lavoro e letteratura, troviamo, nella storia delle riflessioni sulla pratica della scrittura letteraria, un’oscillazione analoga tra la critica delle prestazioni eteronome e l’affermazione dell’attività libera. La letteratura (e un discorso analogo potrebbe essere fatto per altre forme dello spirito) si pensa, nel contesto della civiltà borghese moderna – il cui apogeo è quell’Ottocento che ha visto sorgere la comprensione dialettica del lavoro – come presa tra il potere di incarnare una modalità del lavoro libero e creatore e la fuga o la sottrazione davanti alla predominanza del lavoro alienato.
Quando il sistema delle attività umane diventa oggetto esplicito di una riflessione critica, e di una crisi conclamata, è appunto a questa tensione che rivolgono la loro attenzione le teorie critiche della società. Così, nel 1911, il giovane Lukács si rivolge ai narratori tedeschi del secondo Ottocento, quali Theodor Storm, Gottfried Keller e Theodor Fontane, per delineare il profilo di un’idea, e di un’esperienza vitale della letteratura intesa come esempio di un “lavoro” autentico, portatore di valori etici e di una chance di autorealizzazione personale.
Nel mondo borghese incarnato da Theodor Storm, «che l’arte fosse una cosa compiuta in sé e obbedisse a leggi proprie, non era la conseguenza di una violenta evasione dalla vita, ma veniva considerato come un fatto naturale poiché ogni lavoro svolto con serietà era di per sé giustificato. Poiché l’interesse della comunità, verso cui sono dirette tutte le attività umane, esige che il lavoro venga svolto come se non avesse altro fine all’infuori di sé e della sua perfezione».7
Nell’esistenza metodica e operosa del Bürger il lavoro conserva i suoi aspetti di necessità, metodo, applicazione sistematica – in una parola, il suo carattere penoso. Ma il fine immanente che anima di uno “spirito” proprio questa pena e questa necessità fa della sua esecuzione la condizione di una consistenza etica che oltrepassa infinitamente qualunque prestazione semplicemente eteronoma. L’attività necessitata è praticata come Beruf, professione-vocazione, e pertanto si sublima in Werk, invece di degradarsi nella semplice esteriorità dell’Arbeit:
La forma di vita borghese comunica segretamente con i valori estetici autentici perché la cura metodica e l’applicazione sistematica che essa implica convergono con la cura artistica della forma. La consistenza etica fonda la consistenza estetica, e la compiutezza estetica manifesta la serietà etica:
Ma questa coerenza tra l’arte e la vita borghese è possibile soltanto in una fase “arretrata” della società moderna in cui la prestazione professionale non è ancora divenuta completamente eteronoma; in cui cioè il borghese è giudice, pastore, assessore, insegnante – com’erano Storm, Keller o Eduard Mörike. Allora, la pratica della letteratura sembra poter non contraddire il valore immanente di un “lavoro” artigianale, certo borghese ma in nessun modo industriale né capitalista (se ammettiamo che nel lavoro sottomesso al capitale il fine non è la perfezione dell’esecuzione e del risultato, né il senso etico dell’esercizio, ma unicamente il criterio esteriore della valorizzazione):
Ma, facendo della letteratura la pura antitesi del lavoro – nel quale ormai sono confusi aspetti eterogenei quali la prestazione, la merce, la necessità, il mestiere e la professione – è la consistenza dell’opera e del soggetto che l’esegue ciò che viene messo in pericolo:
Si potrebbe sviluppare l’allusione di Sartre al Medioevo ricordando la profonda radice protestante delle figure evocate da Lukács: la loro ascesi intramondana non è l’annullamento del temporale, ma la sua santificazione in quanto luogo dello svolgersi di una vocazione. Il puro consumo, al contrario, è un ideale anticapitalistico estremamente “cattolico”.
Se questo quadro delle tensioni interne al rapporto lavoro-letteratura è pertinente, la vera domanda che tutto questo solleva è la seguente: dove si situa oggi la contraddizione tra l’attività libera e quella eteronoma? Nel mondo capitalistico odierno l’attività che accumula profitto è sempre più svincolata dalla consistenza di una professione, di regole e risultati identificabili e distinte dal tempo della riproduzione, dello svago e del consumo; d’altra parte, cosa resta dell’ideale dell’Opera o della Forma, che esse siano etiche o piuttosto assolute, in un mondo in cui lo statuto singolare dell’arte sembra essersi dissolto nella generalizzazione industriale dell’“estetico” o del “culturale” diffusi? Senza la misura immanente delle pratiche che la civiltà moderna ha tentato di stabilire, è ancora possibile reperire una contraddizione interna a tali pratiche, invece della loro semplice disseminazione e vaghezza di contorni? Bisognerà forse accettare la scommessa di Hans-Magnus Enzensberger, secondo la quale l’intensità e le tensioni pro-prie alle ormai dissolte oggettivazioni spirituali moderne persistono nella cultura contemporanea, ma in una forma diffusa e quasi impercettibile: quella dell’Alka-Seltzer.
Note
1 J. Rancière, En quel temps vivons-nous? Entretien avec Eric Hazan, Paris, La Fabrique, 2017, p. 20. Qui e in seguito la traduzione è mia.
2 Legge affine al jobs act presentata dal governo socialista francese nel 2016 e oggetto di imponenti proteste [A.C.].
3 Rancière, En quel temps vivons-nous?, cit., pp. 20-21.
4 F. Fortini, Opus servile, in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. 1644.
5 Rancière, En quel temps vivons-nous?, cit., pp. 45-46.
6 S. Bologna, Conoscenza, cultura, competenza. Un contributo alla discussione su come difendere il valore del lavoro intellettuale e creativo, intervento alla manifestazione «Libri come», Roma, 11 marzo 2012, in «UniNomade».
7 G. Lukács, La borghesia e l’”art pour l’art”: Theodor Storm, in Id., L’anima e le forme, trad. it. Di S. Bologna, Milano, SE, 1991, p. 93.
8 Ivi, p. 95.
9 Ibidem.
10 Ivi, p. 101.
11 J.-P. Sartre, Qu’est-ce que la littérature?, Paris, Gallimard, 1948, p. 134.
12 Ivi, p. 136.