Il “mestiere” di scrivere
Note su La Merda di C. Ceresoli e sulla
cantera delle scritture di Rabbia

Valeria Carrieri

 

Ce qu’ils font ne peut s’appeler travailler.1

Que les plus beaux de nos gestes nous viennent de cette sauvage impossibilité qui fut la leur de s’en tenir à ce qui est.2

Besides – there is an idleness – more Tonic than Toil.3

Le travail est plus loin de moi que mon ongle l’est de mon œil. Merde pour moi! […] Quand vous me verrez manger positivement de la merde, alors seulement vous ne trouverez plus que je coute trop cher à nourrir!4

 

Nel marzo 2016 ho visto per la prima volta uno spettacolo dal titolo La Merda.5 Nella sala affollata dell’Auditorium-Parco della Musica di Roma l’attrice era già sul palco, posizionata di spalle su un alto sgabello da circo, ma girata di tre quarti in modo da poter gettare occhiate verso la platea mentre cantilenava nel suo microfono suoni incomprensibili (solo a fine spettacolo riconosceremo gli echi appena dissimulati dell’inno di Mameli). Nonostante fosse già lì e nuda, o proprio per questo motivo, le persone del pubblico continuavano a chiacchierare, ridere e fare battute come se lei non ci fosse. «Certo che ci vuole del coraggio».6 Lo spettacolo, diversi passaggi del testo, continuavano a tornarmi in mente nei giorni seguenti e ancora oggi, benché possa dire ormai di conoscerlo quasi a memoria. Alcune cose venivano nominate con insolita, inattesa precisione. Ricordo bene la sensazione provata sul momento, un misto di soddisfazione e dolore, come di toccare inavvertitamente proprio dove fa male.

La Merda è un monologo scritto da Cristian Ceresoli nel costante dialogo con l’interprete, l’attrice Silvia Gallerano. La protagonista e voce narrante, definita nel testo solo dal pronome di terza persona «Lei» è una «piccola del mondo» disposta a tutto pur di «farcela».7 L’occasione di un provino televisivo, che si rivelerà poi una selezione per una pubblicità progresso contro la violenza sulle donne da realizzarsi in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è cornice e pretesto di «una tragedia in tre tempi: Le Cosce, Il Cazzo, La Fama e un controtempo: L’Italia».8 Nel suo flusso di coscienza articolato in tre crescendo la ragazza racconta, ricorda, immagina, parti di sé e del nostro tempo in un incrocio tra il paradigmatico e il vissuto che arriva a costruire una mirabile sintesi, vorticosa, dell’alienazione contemporanea. Ceresoli e Gallerano incarnano nel personaggio una storia individuale, ma anche una tensione verso “La Storia”, che restituisce lo sfondo di un’Italia contemporanea come Repubblica fondata sul (non) lavoro e su un endemico immaginario fallocratico, denunciato nella sua onnipresenza anche negli ambiti del lavoro culturale.

Nella scrittura de La Merda (2010-2011) sono confluiti, seppure trasfigurati e filtrati letterariamente, materiali autobiografici: il testo nasce (anche) da un «desiderio di esporre il nostro stato».9 Il riferimento fecale del titolo non rinvia a una condizione metaforica, osservata dal di fuori, e in questo senso non c’è una presa di distanza dal personaggio monologante e risulta esplicativo l’esergo pasoliniano posto in apertura dell’edizione a stampa: «Non aver paura […] che sono abbastanza puzzolente anch’io per essere capace di non sentirmi legato a tutta questa merda».10 Il pubblico è quindi confrontato a una posizione scomoda, chiamato all’identificazione e al contempo respinto dalla protagonista del testo che suscita empatia, tenerezza ma anche repulsione.11

Monica Jansen in un suo recente articolo ha visto nella vicenda di questa giovane che attende un provino l’allegoria di un esame di accettazione o rifiuto da parte del sistema di produzione capitalista;12 il testo è quindi messo direttamente in relazione, «da un punto di vista socio-economico» con la precarietà che riguarda soprattutto l’occupazione giovanile e femminile, «ma anche la categoria dei lavoratori creativi».13 Nel testo un certo immaginario contemporaneo del lavoro e delle pulsioni desiderative legate al riconoscimento trovano rappresentazione, ma tornando alla questione dei materiali autobiografici ci si potrebbe chiedere se e in che modo il testo trasfiguri una condizione del lavoro intellettuale e artistico oggi in Italia. Chiedersi se e sotto quali aspetti la protagonista de La Merda possa essere considerata anche come un alter-ego dello scrittore, porta in fin dei conti alla domanda: cos’è il lavoro intellettuale nel panorama socio-economico attuale, dove il modello proposto pare essere quello (neoliberale) dell’«intellettuale di se stesso»?14 E quel tipo particolare di lavoro che è la scrittura, dove e come si situa? Come indicano gli esempi e le riflessioni provenienti dalle scienze sociali infatti, la condizione contemporanea dei mestieri artistici, intellettuali e “della creazione” non solo ha dei punti di contatto con la degradazione del lavoro negli altri campi produttivi e lavorativi, ma sembra aver fornito il modello per le retoriche che presiedono a un nuovo immaginario “prestazionale” del lavoro e a forme sempre più raffinate di sfruttamento e invisibilizzazione dello stesso. In conclusione vorrei intrecciare al mio discorso il filo dell’esperienza collettiva di Rabbia di una «scrittura che continuamente genera altre scritture»,15 curata dagli stessi Ceresoli e Gallerano e nata dall’incontro dei due artisti con il Teatro Valle Occupato di Roma. L’idea è infatti è che il cantiere di Rabbia costituisca una sorta di rovesciamento e risposta alle impasses da cui la scrittura de La Merda si è generata e che in controluce il testo ritrae.

1. Dalla passione al lavoro e del modello prestazionale

In un articolo del 2014 Miya Tokumitsu invita a vedere nel lavoro accademico il modello ideale per la formulazione di strategie discorsive basate su un disconoscimento del lavoro con il suggello del ricatto affettivo:

A molti accademici piace pensare di aver evitato un ambiente di tipo aziendale, con i suoi relativi valori, ma nel suo saggio We work, Mark Bousquet osserva che l’accademia potrebbe rappresentare, in realtà, un modello gestionale perfetto per le aziende: «Come emulare il luogo di lavoro accademico e convincere la gente a lavorare ad un alto livello di intensità intellettiva ed emotiva, cinquanta o sessanta ore alla settimana, per la paga di un barista o anche meno? Esiste un modo per indurre i dipendenti a restare chini sulle loro scrivanie ripetendosi “Amo quello che faccio” anche quando il carico di lavoro aumenta e la paga diminuisce? In che modo possiamo convincere i nostri lavoratori a diventare come i docenti universitari e a negare il fatto di stare lavorando?».16

17 Così come proviene sempre dall’ambito dei lavori creativi e intellettuali, la retorica affettiva e vocazionale che oggi è sempre più spesso estesa a tutti i campi produttivi. Ma come messo in luce ancora da Tokumitsu, l’idea seducente enunciata da Steve Jobs ai neolaureati della Stanford University nel 2005, «per fare bene il vostro lavoro, l’unico modo è amare quello che fate»,18 che parrebbe contenere un elemento di ottimismo democratico, per cui ognuno amando il proprio lavoro potrebbe dare un migliore contributo al funzionamento della società, nasconde invece una visione profondamente differenziale, gerarchica ed elitista dei lavori che valgono la pena di essere amati e dei lavoratori davvero in grado di amare il proprio lavoro. A uno sguardo più attento l’idea di legare l’affetto al lavoro ha infatti implicazioni più sinistre (così come il motto di Amazon, scritto sugli ingressi destinati ai lavoratori e stampato sulle loro magliette «Work Hard, Have Fun, Make History» quando si ricostruiscono le condizioni reali di lavoro dentro i magazzini della multinazionale)19 e nella maggior parte dei casi copre la volontà di intensificare i ritmi di lavoro abbassando le paghe o incoraggia una cultura dell’autosfruttamento e del “lavoro gratuito” come quello svolto ogni giorno da milioni di tirocinanti, il più delle volte in vista di una remunerazione solo simbolica in termini di prestigio e curriculum.20 E non è quindi un caso, sottolinea Tokumitsu, che figure tipiche della «nostra epoca», che «ha visto l’ascesa del professore a contratto e dello stagista non retribuito: gente che viene persuasa a lavorare per pochi soldi o gratis, se non addirittura in perdita», non solo abbondino «in campi socialmente appetibili come la moda, i mezzi di informazione e le arti […] settori abituati da tempo a masse di dipendenti disposti a lavorare in cambio di moneta sociale anziché di veri salari», ma non è neanche «una coincidenza che le industrie cha fanno più affidamento su stagisti e tirocinanti – moda, informazione, arti – sono anche quelle in cui la presenza femminile è più numerosa».21

L’esempio dell’attività artistica e intellettuale e specificamente della scrittura è poi particolarmente utile, anzi paradigmatico. Come notato da Natalie Heinich infatti, essendo vissuta come vocazione, la scrittura non è pienamente assimilabile a un lavoro:22

Informare l’atto creativo delle retoriche relative al professionismo significherebbe, anzi, disconoscere una delle condizioni principali della grammatica vocazionale: lo scrittore scriverebbe anche se non fosse pagato, cosa che non accetterebbe alcun imprenditore o commerciante.23

Queste le grandi linee di un modello che è stato descritto dalle scienze sociali come «società della prestazione»,24 dove il lavoro si fa sempre più invisibile e lo sfruttamento sempre più capillare anche tramite il dispositivo minorizzante dei “lavoretti” (secondo la logica della Gig economy),25 e dove il «confine tra la possibilità dell’emancipazione e quella dell’ultimo stadio dell’alienazione si perde nella messa al lavoro dell’affetto».26

2. Centralità della scrittura, della parola, del corpo ne La Merda

«Dire di un libro, cioè di uno scritto, come fa Flaubert, che “è scritto”, non è affatto una tautologia».27 Ceresoli preferisce riferirsi a La Merda in quanto testo con una lessico specifico, utilizzando ad esempio il termine scrittura (usato come un sostantivo deverbale)28 o altrove partitura poetica o musicale.29 L’uso di sostantivi simili pone l’accento sull’azione e sul carattere dinamico e plastico più che sull’“oggetto” finito ed è sintomatico di una poetica fondata sul carattere processuale della scrittura e sull’interesse per la sua “esecuzione” dal vivo, che elegge quindi la scena come mezzo di diffusione anche per le sue possibilità comunicative, per l’apertura a un pubblico più ampio, con cui ingaggiare un confronto diretto (esigenze rispetto alle quali la forma libro comporterebbe un’insufficienza potenziale). L’attenzione portata alla musica e al canto (da cui si mutuano i termini tecnici utilizzati nei pochi e asciutti paratesti: partitura, tempi, semitempo, controtempo), alla scansione ritmica e alla metrica del testo va di pari passo con una dimensione di oralità e performatività della parola incarnata, assunta come estetica a tutto tondo (non a caso il fenomeno della sua prima ricezione è stato paragonato a più riprese a un «concerto rock»).30 Tutti elementi di una poetica che si ritroveranno appunto nell’esperimento di Rabbia.

Ceresoli ha dichiarato a più riprese che nonostante La Merda abbia come spinta propulsiva la volontà di districarsi da quel «totalitarismo […] capace di uccidere con dolcezza», preconizzato da Pasolini «all’affacciarsi della società dei consumi», non si tratta tuttavia di un’opera politica.31 Semmai lo strumento rivendicato è quello della poesia. La «partitura poetica» de La Merda «nasce così dalla carne e alla carne ritorna, pur dentro a una rigidissima confezione estetica. Applausi obbligatori».32 Queste righe premesse alla prima edizione sembrano evocare per l’oggetto testuale un’ambigua nozione di prodotto e fare il verso all’unanimismo finto dei programmi televisivi e quindi sfidare l’idea stessa (in quanto paradigma antropologico) di una platea fatta di spettatori (nel paratesto il pubblico è infatti chiamato con precisa intenzione «l’umanità»).33 Richiamando una problematica idea di merce il testo si propone al contempo come cibo e come critica: l’imballaggio, la carne, non possono che ricordare la logica del supermercato pur entrando però in risonanza con La Merda del titolo;34 lo spettacolo è anche definito un «banchetto», in cui «la femmina» (con enfasi sull’animalità) si offre in pasto e viene «sbranata».35 La semantica sacrificale è poi centrale anche nella parabola della protagonista. E gli ostacoli che intralciano la volontà di “arrivare” della protagonista, primo fra tutti il «problema delle cosce»,36 possono essere risolti, parodiando la logica e la retorica del “sacrificio” necessario, che qui consiste però nell’infilzarsi di elettrodi per dimagrire e nel «mangiare i cazzi»37 di quelli che contano. A indicare il nervo scoperto e indicibile dell’imposizione di una violenza maschile “naturalizzata” (come nelle immagini distopiche, ricorrenti nel monologo, degli animali marini e degli acquari) davanti a cui alla donna, secondo un senso comune neanche troppo caricaturato, non resta altro da fare che «abituarsi».38

Nel testo questo immaginario non è oggetto di una denuncia esplicita, ma l’autore si serve di un linguaggio che utilizza sapientemente la risorsa poetica del mettersi in contraddizione da solo, in una sofisticata risemantizzazione del linguaggio quotidiano. La centralità della parola, la potenza espressiva, fanno pensare a un superamento o momentanea sospensione delle poetiche postmoderne dell’ironia e del limite della parola come scacco insormontabile e indicibilità del mondo. Ma l’impegno resta necessariamente fuori dall’opera, che deve porsi, come mostrano bene le reazioni diversissime del pubblico, in modo ambiguo e polisemico.

3. Il mestiere di scrivere e l’esperienza di Rabbia

Dopo un inizio difficile per La Merda, lo spettacolo, scritto e prodotto con pochissimi mezzi, viene tradotto in inglese e portato nel 2012 al Fringe Festival di Edinburgo, dove Gallerano vince il premio «The Stage for acting excelllence» e Ceresoli il «Fringe First award for writing excellence». La consacrazione al maggiore evento europeo dedicato al teatro apre una nuova fase, con l’arrivo di un grande producer del calibro di Richard Jordan e l’inizio di una tournée mondiale tutt’ora in corso dopo sette anni.39 Lo spettacolo gira anche per la penisola, dove i due artisti sono chiamati anche da chi in un primo momento aveva chiuso loro le porte, ma scelgono comunque di attraversare i luoghi più disparati: da teatri storici come il Teatro Goldoni di Venezia, il Teatro Puccini di Firenze o il Teatro Stabile di Bolzano a sale da concerto come l’Auditorium-Parco della Musica di Roma, ai palazzetti sportivi e spazi e teatri occupati proprio negli stessi anni, come Macao a Milano, Il Teatro Coppola di Catania e il Teatro Valle di Roma. È soprattutto tramite l’incontro con il Teatro Valle (dove La Merda va in scena sia prima che dopo i riconoscimenti del Fringe) che matura l’impegno verso (altre) nuove scritture con il progetto di Rabbia.

L’esperienza stessa dell’occupazione è stata letta come tentativo di vivere la precarietà come immanenza e possibilità di spostare i confini del possibile, nel riappropriamento di spazi e pratiche artistiche e di autogoverno del teatro e dei lavoratori dello spettacolo.40 In questo senso la frase «Com’è triste la prudenza» scritta dagli occupanti sullo striscione lasciato appeso ai palchetti del teatro, può sintetizzare bene la vicenda nata come una protesta e una denuncia contro i tagli alla cultura e la svendita del patrimonio artistico ai privati, che diventa un processo istituente, benché precario, durato più di tre anni. Il fatto stesso di rivendicare dignità e diritti per le professioni di artisti e tecnici facendo arte, costruendovi intorno partecipazione e aggregazione, nell’ottica di una restituzione dei beni comuni (commons), ma anche del “fare comune” (commoning) alla cittadinanza,41 ha rappresentato un gesto politico dirompente, costituendo anche una proposta teorica e pratica rispetto alla «sottrazione di credito sociale alla letteratura e (in misura variabile) a tutte le discipline umanistiche, a tutte le attività artistiche»42 che sembra segnare questi anni.

Rabbia, insieme al laboratorio di scrittura permanente «Crisi» guidato da Fausto Paravidino,43 può essere considerato come un tentativo di risposta, con i mezzi dell’impegno verso le nuove scritture e dall’interno del «Teatro Valle Occupato», alla situazione della politica culturale in Italia dominata negli ultimi decenni da definanziamento, privatizzazione dei servizi e strategie sempre più volte al profitto, in un’economia di sopravvivenza, basata essenzialmente sulla tutela e la conservazione del patrimonio esistente.44 Il progetto prosegue l’ideale estetico e la poetica maturati attraverso l’esperienza de La Merda nella collaborazione tra autore e interprete, fondandosi su una stretta solidarietà tra scrittura e performance, ma anche l’obiettivo da quella raggiunto, di «un’opera artistica fatta e prodotta con artisti e tecnici pagati il giusto, con la dovuta cura di tutti gli aspetti».45 «In un’epoca in cui il capitale simbolico della parola specificamente letteraria è eroso all’osso», Rabbia costruisce a partire da uno spazio, «Il Teatro Valle Occupato»:

il progetto di produzione di una scrittura che continuamente genera altre scritture: dove per scritture si intende costruire opere artistiche (almeno inizialmente) senza vincoli formali; dove la ricerca estetica ha una ricaduta in termini di produzione, di concrete possibilità di realizzazione, di riconoscimento del lavoro svolto di chi è coinvolto. E viceversa.46

I punti cardine sono quindi l’assenza di qualsivoglia indicazione e limitazione di forma e di tema, l’apertura a scritture, quindi, pur ancora fragili, frammentarie, non necessariamente strutturate né strutturabili come testi teatrali, ma passibili di essere letti da più voci, e da portare subito su un banco di prova, tramite la lettura collettiva incarnata dagli attori. Rispetto a scuole o corsi di scrittura creativa risaltano immediatamente fondamentali differenze di approccio e fini, grazie anche alla disponibilità di un luogo e un contesto eccezionali come quello dell’occupazione. La partecipazione è gratuita e aperta (ma si pensano e si praticano la sostenibilità e la retribuzione tramite l’autofinanziamento e le aperture alla cittadinanza); di continuo le persone possono unirsi ai lavori in corso, assistere, leggere, andarsene.47 C’è osmosi tra chi fa e chi guarda, chi scrive e chi legge o è chiamato a interpretare.48 Lo scopo è dare spazio e continuità a queste nuove scritture che faticano ad esistere in un contesto giustamente percepito come desertificato dal punto di vista della produzione culturale, portandole verso un pubblico non più annoiato, secondo un’esigenza forte di spezzare l’autoreferenzialità sia del teatro che della letteratura. Con l’obiettivo pratico quindi di permettere a questi nuovi testi di essere ultimati e quindi presentati, attraverso letture, mise en éspace o nel montaggio delle scritture in lavorazione chiamato Orgia delle scritture, ma anche con l’obiettivo di una fucina permanente di idee e di nuove produzioni.49

Se nelle parole della protagonista de La Merda il lavoro non si presenta tanto nei tratti emancipativi di un’aspirazione a un inveramento della persona tramite l’esercizio di un mestiere, quanto piuttosto come possibilità di accesso ad uno status privilegiato, una fuga dall’anonimato crescente tramite un delirio di riconoscimento televisivo, l’esperienza di Rabbia può essere letta come una sorta di rovescio della trama del monologo. All’interno del contesto del «Teatro Valle Occupato», la condizione di precarietà e impotenza da cui la pièce si generava viene rivoltata in un’economia di mezzi, che consiste innanzitutto nel rimettere al centro una dimensione quasi artigianale, di «mestiere», partendo proprio dalla ricerca delle potenzialità piene dello scrivere. Il lavoro della letteratura non è solo un lavoro intellettuale e chi scrive non è sempre solo.

 

Note

1 G. Flaubert, voce Artistes, in Id., Dictionnaire des idées reçues [1911], Paris, Fayard, Mille et une nuits, 1997, p. 12 («Artisti. Ciò che fanno non può essere definito lavoro»; per le citazioni, salvo se diversamente indicato, le traduzioni sono le mie).

2 A. Le Brun, Du trop de réalité [2000], Paris, Gallimard, 2004, p. 29 («che i più belli dei nostri gesti provengono da questa selvaggia impossibilità che fu la loro, di attenersi a quel che c’è»).

3 E. Dickinson, lettera a S. Bowles, metà novembre 1862, n. 275, in Ead., The Letters of Emily Dickinson, ed. by T.H. Johnson, T. Ward, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1958 (ed. it. a cura di G. Ierolli, Le lettere, «D’altronde esiste un ozio più Tonico del Lavoro»).

4 A. Rimbaud, lettera a P. Verlaine, aprile 1872, n. VII, in Id., Opere [1964], a cura di I. Margoni, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 338 («Il lavoro è più lontano da me che la mia unghia dal mio occhio. Merda per me! […] Quando mi vedrete mangiare positivamente della merda allora non troverete più che sono troppo caro da sfamare!»).

5 Testo di Cristian Ceresoli, interpretato da Silvia Gallerano. Una produzione Frida Kahlo Productions con Richard Jordan Productions, Produzioni Fuorivia, Bags Entertainement. Con il supporto di Summerhall (Edinburgo), The Basement (Brighton), Soho Theater (Londra) e Teatro Valle Occupato (Roma).

6 Sono le prime parole del monologo. La nudità si è imposta nel tempo come necessario “costume di scena” e si tratta di una scelta non scontata, che in chi ha visto lo spettacolo si dimostra inassimilabile a una rappresentazione eroica o erotica del corpo femminile e trova preciso riscontro nella “nudità” del testo nell’essenzialità della scena. Sulla “nudità” della scrittura cfr. E. Fuochi, Parola nuda e parola rituale. Analisi de «La Merda» di Cristian Ceresoli. Tesi di Laurea in Letteratura Italiana Contemporanea, relatore Prof. M.A. Bazzocchi, correlatore Prof. S. Colangelo, a.a. 2014/2015, Università di Bologna.

7 Cito le parole di S. Gallerano dall’articolo di L. Mariani, Il dramma dell’umiliazione. «La Merda» di Cristian Ceresoli e Silvia Gallerano, un successo internazionale (2010-2016), in «Scritture della performance», «Mimesis Journal», V, 2, 2016, pp. 67-88: p. 71: «Si comincia a concepire la storia di un essere umano, che assume il modello televisivo di Maria de Filippi per conquistare un’identità propria e cerca di diventare adulto lottando per farcela. Lei non vuole avere successo, vuole farcela».

8 Lo spettacolo è stato più volte oggetto di censure più o meno esplicite, cfr. a questo proposito ivi, p. 67.

9 Cfr. Mariani, Il dramma dell’umiliazione, cit., p. 78, dove l’elemento autobiografico riguarda «un certo processo di umiliazione, per l’impossibilità di raggiungere il modello di uomo e di donna che ti è stato proposto, un affanno dell’adolescenza e della prima età adulta. La genesi invece è stata molto legata a una necessità, lo stato in cui eravamo: frustrazione, fatica, rabbia, desiderio di esporre il nostro stato».

10 P.P. Pasolini, lettera a Luciano Serra, febbraio-marzo 1944, in Id., Lettere, I, 1940-1954, a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1986, pp. 190-191. In questo momento il testo conta due edizioni: C. Ceresoli, The Shit/La Merda. Dual English and Italian-Language Edition, London, Oberon Books, 2012; C. Ceresoli, S. Gallerano, La Merda, con CD-audio, Roma, Gallucci, 2017 e numerose traduzioni, cfr. La Merda, in «Cristian Ceresoli», e Mariani, Il dramma dell’umiliazione, cit., p. 67.

11 Idealmente si è in presenza di un primo capitolo di un programmatico “decalogo del disgusto”, cfr. L. Paxman, «La Merda». Gallerano’s performance will stay with you for years, in «The Stage», 14 August 2012. L’articolo compare in una sezione posta in appendice all’edizione Gallucci, p. 69, da cui cito.

12 M. Jansen, Precarity on Stage: The Creative and Political Dimensions of Affect in Ceresoli’s Theater Production «La Merda», in «Frame», XXX, 2, 2017, Precarious Work, Precarious Lives, p. 84.

13 Ivi, p. 87: «Starting from the play’s narrative from a socio-economic point of view, it is related to conditions of precarity in Italy, regarding to youth and women, but also to the cathegory of creative workers». Rimando allo stesso articolo per ulteriori precisazioni bibliografiche.

14 Cfr. il numero monografico della rivista «aut aut», 365, 2015, Intellettuali di se stessi. Lavoro intellettuale in epoca neoliberale, e in particolare R. Ciccarelli, L’emergenza delle nostre vite minuscole, pp. 37-53.

15 «La scrittura che genera scritture di Rabbia» è «contesto di alta formazione, produzione e programmazione di nuove scritture», dal profilo biografico in «Cristian Ceresoli». Rabbia ha avuto finora tredici sessioni di cui la maggior parte all’interno del Teatro Valle Occupato (a partire dal 2012), ma è stata ospitata anche dal festival Arti Vive di Soliera (Modena) e dopo lo sgombero del 2014, dal C.A.F.T. e a Spintime.Lab (Roma).

16 M. Tokumitsu, Il lavoro che ami è una trappola, in «Internazionale», 1042, 2 marzo 2014, p. 84 (trad. it di Ead, In the Name of Love, in «Jacobin», 12 January 2014).

17 Cfr. F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Roma, Ediesse, 2017, in particolare pp. 62-72; G. De Angelis, Poste in gioco. Lavoro e soggettività tra formale e informale, gratuito e remunerato, Tesi di Dottorato in Sociologia, Università di Bologna, Ciclo XXVIII, a.a. 2015-2016, p. 67.

18 Tokumitsu, Il lavoro che ami è una trappola, cit., p. 82.

19 Cfr. C. Buquicchio, Se questo è Amazon. Lavoratori ingranaggi della «megamacchina», in «L’Unità», 6 dicembre 2013, ripubblicato in «minima&moralia», 10 dicembre 2013; C. Cadwalladr, Gli schiavi di Babbo Natale, in «Internazionale», 1031, 20 dicembre 2013, pp. 37-43 (trad. it. di Ead., My week as an Amazon insider, in «The Guardian», 1 December 2013.

20 De Angelis, Poste in gioco, cit., p. 78.

21 Tokumitsu, Il lavoro che ami è una trappola, cit., p. 85: «Le donne costituiscono la maggioranza della forza lavoro sottopagata o non retribuita». Infatti, come evidenzia I. Caleo, re|Play the Commons. Pratiche e immaginazione politica nei movimenti culturali per i beni comuni, in «Memorie Geografiche», XIV, 2016, Commons/Comune: geografie, luoghi, spazi, città, pp. 13-24: p. 15: «questa appropriazione di immense quantità di manodopera e di risorse relazionali e cognitive trova il suo modello storico» proprio «nel lavoro domestico non retribuito e riproduttivo che le donne hanno fornito».

22 Questo nodo a dire il vero problematico e contraddittorio tra scrittura, vocazione e lavoro è ben visibile e operante in un breve passaggio sciasciano: «Qualcuno di questi saggi – come, per esempio, le poche pagine su Luciano o quelle sul mito del Vespro – mi ci è voluto tanto lavoro, a scriverle, quanto per Il Consiglio d’Egitto o Todo Modo; ma spero che i lettori non se ne accorgano. Del resto, parlo di lavoro per approssimazione, per convinzione. Scrivere non è mai stato, per me, un lavorare» (L. Sciascia, Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, cito dalla quarta di copertina).

23 N. Heinich, Régime vocationnel et pluriactivité chez les écrivains: une perspective compréhensive et ses incompréhensions, in «Sociologos. Revue de l’association française de sociologie», 3, 2008. Cfr. Ead., Être écrivain. Création et identité, Paris, La Découverte, 2000.

24 Cfr. Chicchi, Simone, La società della prestazione, cit.

25 G. De Angelis, Gig-economy: se il codice è legge, in «Nuvole, 8 giugno 2018.

26 Id., Poste in gioco, cit., p. 80. Cfr. A. Fumagalli, C. Morini, La vita messa a lavoro: verso una teoria del valore-vita. Il caso del valore affetto, in «Sociologia del Lavoro», 115, 2009.

27 P. Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario [1992], Milano, il Saggiatore, 2005, p. 158.

28 «Cristian Ceresoli è uno scrittore. La sua scrittura d’esordio è La Merda», dal profilo biografico in «Cristian Ceresoli».

29 E forse sarebbe opportuno trattare questo testo, che si appropria una tecnica romanzesca di forte impronta lirica, proprio come un testo poetico o musicale. La scelta tecnica del monologo interiore si rivela non inerziale rispetto ai precedenti novecenteschi, come nell’utilizzo peculiare di inserti dialogici in cui gli altri personaggi parlano direttamente tramite le diverse “maschere vocali”, nei procedimenti allocutivi, nella scelta di una protagonista di età imprecisata che tuttavia conserva una fragilità adolescenziale, in una tendenza al realismo spesso deviata, in una sorta di delirio, da una deformazione lirica o grottesca, come nel finale o nei tre simmetrici crescendo che strutturalmente compongono il testo.

30 Cfr. Fuochi, Parola nuda e parola rituale, cit.

31 Ceresoli, La Merda [2012], cit., n.p.: «La Merda ha come spinta propulsiva il disperato tentativo di districarsi da un pantano o fango, ultimi prodotti di quel genocidio culturale di cui scrisse e parlò Pierpaolo Pasolini all’affacciarsi della società dei consumi. Quel totalitarismo, secondo Pasolini, ancor più duro di quello fascista poiché capace di annientarci con dolcezza».

32 Ivi, n.p.

33 Ivi, p. 7.

34 In questo senso è interessante il parallelo possibile tra il titolo La Merda, l’ultima parte del testo, l’immagine provocatoria dell’opera e del corpo come prodotto alimentare e alcune considerazioni di F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993, p. 20: «Chiamare antimerci le immagini letterarie di cose inutili o nocive, significa tornare a riferirle virtualmente agli escrementi – al meno mercificabile degli scarti. […] Se per noi la letteratura, come sede di ritorno del represso morale e fors’anche razionale, poteva ben dirsi uno spazio riservato al demonio, come sede di un ritorno del represso antifunzionale potrà pure dirsi uno spazio concesso agli escrementi. Uno spazio più profondamente ambiguo non solo del ripostiglio del ciarpame, ma anche della immane raccolta di antimerci o della riserva di flora e fauna selvaggia: qualche volta un immaginario ricettacolo dell’oro che era già stato merda, qualche volta un immaginario deposito della merda che era già stata oro».

35 Ceresoli, La Merda [2012], cit., n.p.

36 Ivi, p. 22.

37 Ivi, p. 23.

38 Ivi, p. 12: «e mi fa schifo, ma io mi abituo»; ivi, p. 18: «e io mi abbasso, gli slaccio la cerniera e poi mi abituo»; ivi, p. 30: «E non mi fa più schifo. No. Non mi fa più schifo niente». In questo nodo risiede uno degli elementi più dirompenti del testo, dove ad essere additato, fino alla fulminante sentenza su cui si chiude il monologo, «IL SESSO MASCHILE LA NOSTRA BANDIERA», è il sessismo fondativo della Nazione (il testo è costellato di riferimenti al patriottismo e a una retorica resistenziale svuotata di senso) e tutta la costruzione identitaria collettiva fatta a immagine di “maschio”, o meglio di un’idea di maschio o di una sineddoche dello stesso che è «il Cazzo», nella sua declinazione erettile e stupratoria, ovvero fascista e totalitaria.

39 Sul sito dello scrittore si può consultare un elenco completo di tutte le date e le tappe passate e a venire. Cfr. anche le mappe sintetiche degli spostamenti dello spettacolo (fino al 2016) che accompagnano l’articolo di Mariani, Il dramma dell’umiliazione, cit., pp. 68, 69. Interessante a questo proposito il legame stabilito da Jansen, Precarity on Stage, cit, p. 90, tra il fenomeno dell’emigrazione giovanile “forzata” che riguarda un numero crescente di cittadini italiani (brain drop), la retorica neoliberista della mobilità e i movimenti dello spettacolo nell’ininterrotta tournée internazionale di contro a condizioni sempre più diffuse tra precari giovani e meno giovani di «immobilità, attesa, e persino fissità».

40 M. Jansen, Il lavoro culturale di «Teatro Valle Occupato»: come abitare la crisi, in S. Contarini, M. Jansen e S. Ricciardi (a cura di), Le culture del precariato. Pensiero, azione, narrazione, Verona, Ombre Corte, 2015. Cfr. F. Giardini, U. Mattei, R. Spregelburd, «Teatro Valle Occupato». La rivolta culturale dei beni comuni, Roma, DeriveApprodi, 2012; C. Belingardi, I. Caleo, F. Giardini, I. Pinto, Spatial Struggles: Teatro Valle Occupato and the (right to the) city, in «openDemocracy», 24 February 2014.

41 Su commons e commoning cfr. Caleo, re|Play the Commons, cit., in particolare pp. 13-14; D. Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Milano, il Saggiatore, 2013; A. Borchi, «Teatro Valle Occupato»: protesting, occupying and making art in contemporary Italy, in «Research in Drama Education: The Journal of Applied Theatre and Performance», I, 2017, pp. 126-127. Per la riflessione giuridica e filosofica sui beni comuni cfr. U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011; F. Giardini, Beni comuni, una materia viva, in Dire fare pensare il presente, a cura di Laboratorio Verlan, Macerata, Quodlibet, 2011.

42 P. Pellini, Lo scrittore come intellettuale. Dall’affaire Dreyfus all’affaire Saviano: modelli e stereotipi, in «Allegoria», 63, 2011, p. 146.

43 Ma cfr. alla voce “scritture” del Progetto artistico per un futuro Teatro Valle, in «Teatro Valle Occupato».

44 Cfr. Borchi, «Teatro Valle Occupato», cit., pp. 126-129. Rabbia è «La conseguenza di una serie di tentativi per costruire, nella pratica, dentro un paesaggio depresso e impossibile, qualcosa di possibile», dalla pagina web del progetto.

45 Cito le parole di C. Ceresoli da Mariani, Il dramma dell’umiliazione, cit., p. 86.

46 Cito dalla pagina web del progetto.

47 Cfr. Caleo, re|Play the Commons, cit., pp. 17-18: «Una delle strategie di risposta che le lotte hanno elaborato è stata di iniziare a parlare di beni comuni produttivi. Ricollocare al centro la produzione e potenziare le reti fino a creare vere e proprie infrastrutture di scambio: così si possono attivare dispositivi di reddito e di redistribuzione, ispirati non alla sussistenza o alla remunerazione, ma alla sperimentazione di nuovi modelli».

48 Si veda la testimonianza di M. Jansen, Il lavoro culturale di «Teatro Valle Occupato», cit., p. 88: «Dei laboratori Crisi e Rabbia si possono vedere dei brani su YouTube e sul sito di Teatro Valle Occupato. Ciò che colpisce è l’ibridismo dello spettacolo, a metà tra scrittura in corso, prova e recita, e condivisione di momenti di esperienza emotiva e di convivenza». Cfr. A. Pocosgnich, Rabbia: generare scritture al Teatro Valle Occupato, in «Teatro e Critica», 22 luglio 2014.

49 Il lavoro anche lessicale di invenzione, nella nominazione del progetto e delle sue componenti (cantera, orgia delle scritture, ecc.) fa anch’esso parte di una più ampia riflessione sui linguaggi condotta all’interno del «Teatro Valle Occupato». Su questo punto cfr. Caleo, re|Play the Commons, cit., p. 20.