L’acqua e i beni comuni naturali e sociali
Giampaolo Pellegrini

I. La globalizzazione neoliberista, contraddizioni e reazioni

Le lotte in corso sul tema del bene comune acqua, nei loro vari aspetti, non sono soltanto una risposta a specifici problemi tecnico-gestionali o a scelte economiche settoriali che contrastano con gli interessi immediati degli utenti, ma anche parte di una lotta più vasta di contrasto generale alle politiche neoliberiste le cui strategie e risultati erano ampiamente e negativamente manifesti in molti paesi nel mondo già a partire dagli anni ’80.

Al di là delle affermazioni ideologiche, gli effetti delle politiche neoliberiste si dimostrano progressivamente avversi alla qualità della vita di strati sempre più ampi della popolazione mondiale, sia per il  concretizzarsi di contraddizioni insite nel sistema sia per le risposte che questo mette in atto.

Con una estrema semplificazione possiamo dire che le contraddizioni principali di questo modello si possono riassumere in quella tra capitale e natura e nella caduta del saggio di profitto. La risposta del sistema a questi problemi si è articolata, di massima, come segue: a fronte del tendenziale esaurimento, in tempi non lunghissimi, delle riserve energetiche fossili alla base del sistema produttivo, difficilmente sostituibili a parità di caratteristiche, si è risposto attraverso l’escalation della “guerra globale”, sia diretta che non, nel tentativo di accrescere il controllo sui principali territori di produzione e stabilire nuovi equilibri che le trasformazioni economiche, e di egemonia, rendono inevitabili. La seconda risposta è più complessa, parte dalla crisi di sovrapproduzione che negli anni ’70 concluse la fase di ricostruzione (e crescita) post-bellica sommata alla crisi petrolifera ed alla fine della convertibilità dei dollari in oro segnando l’avvio del nuovo corso, quello detto della seconda globalizzazione, reso possibile dalla crescente libertà di circolazione di merci e capitali accompagnata da accordi internazionali che sancivano l’imporsi, anche manu militari come in Cile e Indonesia, dei nuovi paradigmi economici neoliberisti.

I risultati di decenni caratterizzati dall’estendersi a tutti i paesi del “nuovo corso” sono sotto i nostri occhi. Le principali direttrici di intervento si possono sintetizzare nel seguente modo:

La delocalizzazione produttiva, che ha trasformato, in diverse parti del mondo, alcuni lavoratori in neo-schiavi o, nei paesi più ricchi, in una variabile dipendente dalle nuove dinamiche competitive indotte dalla liberalizzazione del mercato dei capitali nel nuovo assetto neoliberista. Nel complesso le pratiche neoliberiste abbattono e restringono progressivamente, assieme al reddito, i diritti dei lavoratori conquistati in secoli di lotte. Queste pratiche, che favoriscono la delocalizzazione, si accompagnano all’uso ideologico della teoria economica centrata sul “mercato”, la “concorrenza” e la “competitività”. Più realisticamente, dietro la neutralità di teorie economiche “oggettive”, si maschera sia uno scontro di potere infracapitalistico che di lotta di classe, che la stessa ideologia voleva estinta assieme alle classi. La delocalizzazione unisce i due momenti di scontro tra nazioni o aree economiche e all’interno di queste tra classi che si definiscono attraverso la progressiva divaricazione dei redditi.

La finanziarizzazione, in cui il meccanismo fondamentale è la creazione di valore cartaceo che genera a sua volta giganteschi indebitamenti in tutti i settori economici, ed è la base delle bolle speculative e seguenti crisi. Questo mezzo realizza però processi di drenaggio e concentrazione di capitale e di potere, spesso in corrispondenza di fenomeni di ristrutturazione gerarchica dello stesso. Questo processo non manca di coinvolgere a diversi livelli i lavoratori e le classi medie nel sistema finanziario, sia creando obblighi legali attraverso i processi di privatizzazione dei sistemi pensionistici o del settore sanitario, assicurativo in genere etc., sia dando a “risparmiatori” e “consumatori” l’illusione, rafforzata da diffusi esempi reali, di poter recuperare parte del reddito sottratto alle attività lavorative attraverso la rendita, spesso realizzata con investimenti speculativi.

(Non bisogna dimenticare che, in gergo borsistico, i piccoli risparmiatori sono chiamati “parco buoi” e il fatto che vi siano periodi di “ingrasso” non li sottrae, in quanto tali, al sacrificio a cui prima o poi sono destinati).

I trattati politici ed economici miranti a stabile norme e vincoli di proprietà sulle future materie prime e sui beni comuni sociali e naturali: terra, aria, suolo, genoma, prodotti intellettuali e servizi quali pensioni, sanità, istruzione. Essi agiscono contemporaneamente, e in senso contrario, per liberare “i capitali” dai loro vincoli territoriali accrescendo e “globalizzando” (ma si dovrebbe dire transnazionalizzando) la loro capacità di appropriazione. Emblematica in questo senso la serie di accordi promossi dal WTO (o OMC, Organizzazione Mondiale del Commercio) che, pur istituiti allo scopo di implementare i processi di circolazione di merci, denaro e servizi, promuovevano anche processi protezionistici in materia di brevetti intellettuali e produzione agricola. Lo sfruttamento e profitto di questi ultimi può essere attuato primariamente attraverso la proprietà piuttosto che la gestione, come accade generalmente per i servizi, quindi trasformando il ruolo dello stato e delle istituzioni in una ulteriore variabile economica, uno strumento il cui uso rende, dal lato dell’esercizio del potere, l’attore economico “transnazionale” e, nelle modalità di funzionamento, “multinazionale”. Particolare il caso dei prodotti intellettuali che oggi vengono visti come una materia prima fondamentale da trasformare in merce, ma anche come fonte diretta di potere, che solo la fine dell’umanità può esaurirsi. La privatizzazione delle università, e del sapere in generale, è quindi uno degli obbiettivi principali sia per la conservazione del sistema capitalistico sia per acquisire posizioni di dominio al suo interno.

II. Neoliberismo, privatizzazioni e democrazia

Nei paesi a regime “democratico costituzionale” alcuni di questi beni sono esplicitamente riconosciuti in forma di diritto, come quello all’istruzione, altri, invece, implicitamente con il riconoscimento di diritti esercitabili attraverso l’accesso universale a una serie di beni prodotti dalla comunità. Mi soffermo su queste considerazioni perché la loro generalità mette bene in luce il filo comune che lega lotte e vertenze in Italia e nel mondo.

Le costituzioni moderne riconoscono due tipi di diritti fondamentali che possono e devono sussistere solo separati in quanto contraddittori: quelli così detti escludenti e quelli includenti. I primi sono sostanzialmente i diritti individuali, o quelli proprietari, come, ad esempio, della casa, degli attrezzi indispensabili al lavoro etc. Essi comprendono il  diritto eguale ad essere scambiati o venduti e sono attribuiti tanto agli individui fisici che giuridici, come una S.p.A., una S.R.L. o una Cooperativa.

Gli altri diritti, detti includenti, riguardano le condizioni generali di sussistenza della comunità in quanto tale sia attraverso il riconoscimento di “regole” che per la messa in comune di beni naturali e sociali, come l’acqua o la possibilità di accesso “materiale” all’istruzione, all’abitazione, a cure sanitarie. La loro promozione contribuisce a incrementare, con vantaggio di tutti i cittadini, la possibilità di scelte particolari e individuali che sono genericamente considerate gli indicatori di crescita qualitativa della vita e fondamento materiale del patto di costituzione sociale. La loro natura è tale che possono sussistere solo quando si istituisca una sfera pubblica che attraverso obblighi, divieti, proprietà e gestione ne sostanzi materialmente la universalità che diverrebbe altrimenti un vuoto esercizio di affermazioni retoriche.
Nei paesi più ricchi il peso economico dei servizi arriva a costituire il 70% del PIL. La loro natura economica è tale che solo attraverso una gestione pubblica (e partecipativa) questi possono essere materialmente distribuiti a vantaggio di tutti i cittadini. Ogni qualvolta si sente parlare, in nome della superiore efficienza, di affidarli ai meccanismi del mercato e della concorrenza, possiamo avere la certezza di essere oggetto di un tentativo di frode ideologica. Metterla in atto era di vitale importanza per un capitalismo che al culmine della potenza vedeva ridursi i margini di profitto. Assicurarsi la gestione dei servizi e quindi il controllo, piuttosto che la proprietà, consente di capitalizzare i vantaggi forniti dal monopolio lasciando al “proprietario”, gli “altri” cittadini, l’onere maggiore negli investimenti.

Se ne tratto, è perché la crisi, arrivata dopo quanto abbiamo visto realizzarsi in questi ultimi anni in materia di privatizzazioni, ha accentrato l’attenzione generale sulla finanza e la speculazione mettendo in ombra, se non presentandole come vittime, quelle “imprese” che sono, almeno, attori comprimari. Tali imprese, arricchite a partire dalla ricostruzione post-bellica, nella prima metà degli anni 70 avevano un potere tale da promuovere, oltre alla liberalizzazione progressiva della circolazione di capitali in accordo con le istituzioni finanziarie (Banca Mondiale, FMI), l’ampliamento dei negoziati internazionali allora in itinere (GATT, mirati particolarmente al problema dell’abbattimento delle tariffe doganali per favorire la circolazione di merci conclusi nel 1994 col “trattato di Marrakech”) in un nuovo round (WTO) che conteneva al suo interno quello del GATS dedicato alla privatizzazione dei servizi: acqua, rifiuti, energia, sanità e scuola. Sono questi trattati il filo rosso che lega le varie lotte in Italia e nel mondo e la prova della campagna ideologica contro la gestione pubblica dei beni comuni basata su  reali disservizi che conosciamo, promossi, piuttosto che corretti, dagli amministratori pubblici. Rimane problematico farsi una ragione del ruolo assunto dalla politica istituzionale, specie nei paesi democratici, nel promuovere queste politiche che rovesciano i ruoli istituzionali di tutela del benessere collettivo sbilanciandoli, con trattati e atti legislativi, a favore della rendita, del capitale e delle imprese produttive e finanziarie. Un qualche aiuto in questo senso deriva dalla teoria economica (economia istituzionale)1 che dell’impresa prende esplicitamente in considerazione le relazioni di potere e mostra come, nelle economie capitalistiche, le stesse (e quindi il potere) si sostituiscano al mercato come mezzi di allocazione delle risorse. Col trionfo globale del capitalismo la “funzione” politica si conforma al potere reale, che ovviamente è quello dell’impresa “privata”.

Da qui il mutamento del ceto politico, il quale adegua conservativamente il suo ruolo a quello manageriale d’impresa nello specifico campo della gestione dei servizi individuando il partneriato pubblico/privato come strumento di passaggio per la definitiva privatizzazione. Con questi cambiamenti si modifica anche il sentire comune, tanto è vero, ad esempio, che ormai si accetta senza riflettere che si parli di “azienda Italia” come se i termini con cui si definisce una situazione fossero innocenti e intercambiabili, puri artifici dialettici piuttosto che indicatori di un progressivo adeguamento semantico alle rappresentazioni dominanti con conseguente perdita di capacità critica.

L’attacco ideologico, supportato dalla potenza economica di banche e imprese, ha assunto negli anni una pervasività tale da rendere inavvertibili ai più gli slittamenti legislativi nei quali assumeva preminenza non più il cittadino come portatore di diritti individuali e sociali, ma solo nella sua privata veste di investitore, imprenditore, commerciante, cliente, etc. Sulla strada che portava le varie attività economiche a svincolarsi da “lacci e laccioli” si arrivava a discutere, nelle varie sedi di riunione tra governi e organizzazioni “economiche” (OCSE, trilateral commission, camera di commercio internazionale, etc.) un accordo generale che staccasse definitivamente i titolari di imprese dai vincoli sociali istituiti nel corso dei secoli precedenti. Questi accordi denominati MAI o AMI (accordi multilaterali sugli investimenti) miravano ad abolire, nei paesi a democrazia avanzata, i vari vincoli legali che impedivano di creare, al loro interno, le stesse “zone speciali di produzione” già istituite in paesi come Messico, Indonesia e molti altri, come pratica della delocalizzazione.

Secondo questi accordi oltre alla sospensione di fatto dei diritti civili, sociali, sanitari e sindacali al loro interno, una impresa poteva anche fare causa e ottenere risarcimenti dallo stato, e quindi dai cittadini, laddove si approvassero leggi limitanti il diritto al perseguimento del massimo profitto. Sembra fantapolitica ma è quanto succede nei paesi firmatari del NAFTA, l’accordo economico tra i governi di USA, Canada e Messico.

A dimostrazione di come sia diffusa a tutti i livelli una visione che vede l’impresa e il suo scopo, il profitto, come prima titolare di diritti, a cui tutti gli altri devono subordinarsi, non mancano esempi nazionali: i cittadini residenti in zone prive di apparati di depurazione delle acque reflue pagavano in bolletta il costo di depurazione. Sino a che il sistema era pubblico la legge stabiliva che questa cifra dovesse essere accantonata allo scopo di poterne finanziare la costruzione. Con il passaggio alle gestioni private o miste le imprese subentrate hanno continuato a incamerare gli stessi soldi in tariffa senza avere il medesimo obbligo contrattuale e quindi iscrivendoli agli utili di impresa. Su questa vicenda è nata una vertenza approdata, infine, alla corte costituzionale la quale ha dato ragione agli utenti.

Per le imprese si prefigurava un calo deciso dei profitti sia per la restituzione del mal tolto (perché non andava più all’accantonamento “di scopo”) sia per le perdite future nell’ordine del 22-24% sulla tariffa, il che ammonta, in generale, a svariati miliardi di euro. A questo punto il governo (ministro Prestigiacomo) ha prodotto un decreto secondo il quale dette cifre continueranno ad essere riscosse a titolo di risarcimento del danno ambientale che i cittadini provocano scaricando liberamente le acque reflue.

Si apre un nuovo capitolo che mostra bene la “melmosità” generata dalla commistione pubblico – privato. La mancata costruzione dei depuratori previsti già da decenni, con coperture finanziarie smarrite nei “meandri amministrativi” (qualcuno pagherà?), viene scaricata sul nuovo scenario di società di gestione in house e miste, che sono enti di diritto privato ad affidamento diretto del servizio, come se fossero pubbliche. Tra la corte di giustizia europea e quelle italiane, che condannano tali affidamenti ed i finanziamenti pubblici che non potrebbero essere erogati in quanto aiuti di stato (trattandosi di S.p.A. e S.R.L.) contrari alle norme UE sulla concorrenza, le banche fanno il loro gioco, sapendo che comunque il servizio non può essere sospeso, imponendosi come finanziatrici con gli swap, i derivati ed il project financing (ben noto ai comitati che si oppongono alle “grandi opere”) finendo per far soccombere l’interesse pubblico davanti a quello privato.

Oltre a questo, a dispetto della retorica su mercato e concorrenza, si può facilmente scoprire che le vie di finanziamento, con denaro pubblico alle imprese private, esistono nella legislazione europea e in quella nazionale. Questo è uno dei “nodi” delle cause generatrici del malaffare e delle consorterie che assieme alla scarsa trasparenza degli istituti finanziari, alle libertà di spostamento di capitali, all’esistenza dei paradisi fiscali e di operazioni bancarie in entrata ed in uscita “coperte” contribuiscono al progressivo divaricarsi della “forbice del reddito” tra i cittadini.

Poco alla volta, settorialmente, la “filosofia” dell’AMI viene realizzata stravolgendo il dettato costituzionale a partire dal secondo capoverso dell’ articolo 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini…».

Il tentativo di far sottoscrivere gli accordi AMI in una tornata unica fu smascherato, vista la segretezza degli accordi, nel Parlamento europeo da un funzionario del governo francese, con i rappresentanti dei governi che avevano “la penna per firmarli in mano”, nel febbraio del 1997 (governo di centro sinistra guidato da Prodi).

Rientrano in questo indirizzo anche tutte le leggi che hanno precarizzato i rapporti di lavoro, compreso quello cooperativo grazie all’intervento dell’ultimo governo Andreotti, nel 1992, e poi nel 2003 attraverso la riforma del diritto societario, ad opera del governo Berlusconi, avvenuta nel totale silenzio dell’opposizione e dei sindacati. (In effetti si potrebbe parlare di una grande trasformazione dell’ Italia, a partire dagli anni ’80 e proseguita a cavallo dei governi Andreotti, Amato e Ciampi nei 90, sino agli “alternanti” governi dell’ultimo decennio, come di un colpo di stato economico tout court).

Queste trasformazioni successive hanno reso problematiche le lotte per la stabilizzazione del rapporto di lavoro considerando che la controparte è costituita dagli stessi imprenditori e politici uniti nel proporre e sottoscrivere accordi di tale contenuto.

É auspicabile che i militanti impegnati in lotte e vertenze legate dal filo di queste vicende trovino il modo di unificarsi in un progetto rivendicativo comune superando la parcellizzazione che li caratterizza, cosa oggettivamente difficile ma imprescindibile, solo per cercare di frenare i “poteri forti” lanciati sulla rotta tracciata dalla globalizzazione neoliberista che la crisi non sembra modificare, anzi rafforza disgregando le classi che ne sono più colpite.

É legittimo quindi il sospetto che la crisi attuale, che si vuole unica, imparagonabile, imprevedibile etc., non sia che una replica aggiornata di altre di cui abbiamo notizie sin dai tempi dei babilonesi e che inevitabilmente comportano accentramenti di ricchezza (e potere) a danno di chi la produce materialmente ed a vantaggio di chi l’ha provocata.

La cosa assume un carattere particolare nel nostro paese dove il Censis ci informa che le aziende italiane sono da più di un decennio al vertice della profittabilità e teoricamente ben attrezzate per reggere questa crisi ma contemporaneamente registra, a partire dagli anni ’80,  un costante calo dei redditi da lavoro ed un peggioramento del debito pubblico.2 Il Censis afferma, in pratica, che proprietari e managers di imprese manifatturiere, commerciali e finanziarie stanno (con la collaborazione attiva della classe politico/sindacale), da un lato, sottraendo direttamente reddito ai lavoratori e, dall’altro, guadagnando a fronte di detrazioni ed esenzioni fiscali. Se investono, soprattutto ingegno, lo fanno massicciamente nell’evasione fiscale, nel lavoro nero e nell’aggiramento, direttamente criminale, di regolamenti e vincoli ambientali, ben coperti dallo schermo ideologico del mercato, della competitività e riuscendo prima che in altri paesi ad estendere lo sfruttamento dal comparto produttivo/finanziario a quello dei beni comuni sociali e naturali.

III. Modalità della globalizzazione liberista attraverso l’acqua

L’acqua dolce adatta al consumo umano non è affatto abbondante. Raccolta per il 2,1% nelle calotte polari e per lo 0,65% nei corsi d’acqua, negli ultimi due secoli è stata insidiata dai processi di industrializzazione e utilizzo diffuso di sostanze inquinanti.

Nei paesi industrializzati il consumo domestico rappresenta una quota minima, meno del 20% anche nei maggiori punti di concentrazione urbana. Il restante consumo è a carico dei processi produttivi manifatturieri e, la parte del leone, in quelli agroindustriali che possono superare il 60%. Per quanto abbiamo detto è evidente che una quota rilevante di profitto si può ricavare dal suo controllo (la mafia siciliana nacque proprio attorno al controllo dei pozzi) e su due fronti: minimizzando i costi del processo produttivo scaricando gran parte di questi sul consumo domestico e mantenendo anche in questo un’alta possibilità di profitto grazie al fatto che la domanda di acqua, in quanto bene di prima necessità, è assolutamente rigida. Il loro costo di costruzione, già pagato dai cittadini, e manutenzione è ad “alta intensità di capitale” e non consente l’esistenza di reti alternative. Lo sfruttamento ed il controllo delle risorse idriche, come si è detto sopra, diviene inevitabilmente uno degli assi strategici nei processi di trasformazione del capitalismo. Il problema acqua è stato sollevato e approfondito, nel corso degli anni, in grandi appuntamenti dai quali emerge da una parte il fallimento degli obiettivi umanitari perseguiti e dall’altra la progressiva liberalizzazione e mercificazione.

Nel 1977 a Mar de Plata, in Argentina, si è svolta la prima conferenza ONU durante la quale si è definito l’obiettivo di garantire acqua potabile a tutti gli esseri umani entro il 2000. Obiettivo mancato come quello riproposto nel 1992 con il vertice di Rio.

Sotto la spinta della Banca Mondiale i1 1994 vede la creazione del WTO, del Consiglio Mondiale sull’Acqua, che, coinvolgendo agenzie ONU e singoli stati, promuove forum a cadenza triennale per porre le basi di politiche mondiali sul tema, e, infine, del Global Water Partnership con lo scopo di promuovere un partenariato tra aziende pubbliche e private. Si sono tenuti tre Forum: 1997 Marrakech, 2000 Aja, 2003 Kyoto. È stata anche creata (1998) la Commissione Mondiale sull’Acqua, con scopi di coordinamento e studio di proposte operative. Durante il forum dell’Aia (17/22 marzo 2000),3 a sancire il fallimento delle ambizioni dell’ONU (del resto boicottate nella pratica) di dare a tutti la minima quantità di acqua “buona” (secondo la definizione della Conferenza Mondiale di Nuova Delhi) entro il 2000, la C.M.A. propose e ottenne il passaggio dell’acqua da bene sociale fondamentale a bene economico di rilevanza industriale, soggetto al mercato come ogni comune merce (fu accettata da 130 governi la dichiarazione dell’acqua come “bene economico”, per l’Italia dal governo D’Alema). Era aperta la strada per far entrare l’acqua nell’agenda del WTO (OMC) nella sezione GATS (o AGCS, Accordo Generale sul Commercio dei Servizi).

Nel gennaio 2002 al WTO di Doha in Quatar si apre la porta alla liberalizzazione dei servizi idrici mondiali. In quella occasione l’Unione Europea, pochi minuti prima della fine della conferenza, introdusse un paragrafo nell’art. 33 del documento del vertice, in cui si afferma che gli stati membri del WTO procederanno alla eliminazione di tutte le barriere tariffarie e non tariffarie dei prodotti e dei servizi ambientali.

Nel settembre 2002 il vertice sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg, che nei fatti è stato un’appendice di quello di Doha, pur affermando la volontà di dimezzare le persone che non hanno accesso all’acqua entro il 2015 (obiettivo originario del 1977 rinviato di 15 anni e dimezzato), non prevede nel concreto nessun impegno finanziario in quanto i fondi dovranno arrivare dai PPP (Partenariati Pubblico Privati).

L’indirizzo ormai è chiaro: garantire alle multinazionali la piena libertà di agire. D’altronde a Johannesburg il dibattito sull’acqua è stato introdotto dalla presidente del Comitato Tecnico Scientifico della multinazionale Vivendi Universal e le conclusioni sono state affidate al Segretario della Generale des Eaux (poi fuse in Vivendi environemant ed infine Veolia Water che si occupa anche di igiene ambientale, energia, trasporti, che ha il 40% del mercato mondiale e più di 110 milioni di “clienti”).

Nei paesi più ricchi di acqua, come Canada e USA, l’acqua non è privatizzata, se non in quantità minime (2% circa), ma si spingono decisamente i paesi poveri verso la privatizzazione dei servizi idrici con effetti drammatici per le popolazioni, come gia e accaduto in Africa e in America Latina.

In Argentina, a Buenos Aires, il servizio è stato ceduto nel 1989 alla società Aguas Argentinas, filiale della multinazionale francese Lyonnaise des Eaux (poi fusa con la Suez nel gruppo Ondeo che è la seconda compagnia dopo la Veolia con fatturati e numero di clienti simile). Il risultato è stato che, dei 3 milioni e mezzo di abitanti, ben il 58% è tagliato fuori dalla rete idrica.

Quest’anno si terrà ad Istambul un altro di questi vertici il cui rischio è che si rinforzino le decisioni dell’Aia pur a fronte dei problemi emersi in questi anni e denunciati dai movimenti internazionali, è a buon punto l’organizzazione di uno alternativo nella stesa città.

IV. L’Italian way

L’Italia è, nel bene e nel male, un paese particolare nel panorama internazionale. Non è questa la sede per renderne conto estesamente, ma ciò complica la descrizione sintetica di come gli eventi internazionali hanno agito al suo interno.

L’economia italiana dal tempo del regime fascista è stata dominata dall’intervento pubblico con la fondazione dell’IRI in sostituzione della latitanza o insufficienza dei capitali privati negli investimenti a rischio o a lungo termine di rientro. Le imprese manifatturiere e finanziarie che hanno portato il nostro paese ad essere tra le prime 10 potenze economiche mondiali erano sostanzialmente imprese pubbliche.

L’affermarsi del nuovo paradigma economico neoliberista riuscì ad imporre la fine delle lotte operaie mentre si realizzava la privatizzazione dei settori produttivi e dei servizi, il tutto intrecciato alle vicende della costruzione dell’Unione Europea. Più che molte spiegazioni le conseguenze di questi eventi nel tempo sono evidenti nei grafici riportati (fonte: rivista on-line «Economia e società»).

Negli anni ’80 l’attacco alle precedenti conquiste operaie iniziò dalla scala mobile e, negli anni ’90, proseguì con le privatizzazioni delle industrie manifatturiere e delle banche; i servizi avrebbero seguito a beve (i grafici ci dicono qualcosa circa le modalità, i tempi e sulla la retorica della produttività che ci ha ammorbato ideologicamente in questi anni).

Dal punto di vista strettamente economico l’attacco “finale” in tutti i settori economici coincise temporalmente con i preparativi e la successiva adesione alla costituenda Unità Europea attraverso il trattato di Maastricht. In questo hanno un valore centrale le regole economiche mirate a dare “stabilità” alla iniziale integrazione economico/monetaria attraverso il contenimento dell’inflazione, divenuto l’obiettivo principale della Banca Centrale UE, e della spesa pubblica attuata attraverso i parametri sul contenimento del debito pubblico e del rapporto debito/PIL. Queste ultime “regole”, assieme all’impianto economico pienamente neoliberista, che prevedeva il passaggio al mercato delle attività economiche svolte direttamente dallo stato, divennero giustificazione e premessa delle privatizzazioni delle attività produttive e poi di quelle legate ai servizi. Per continuare a fornirli si doveva, teoricamente, ricorrere al mercato ed alle società che su questo “competevano”. Nella pratica la parte politica reduce da tangentopoli, e in particolare quella locale a cui era demandata la fornitura di rilevanti servizi, specialmente dopo la riforma in senso federalista della costituzione che attribuiva più poteri alle regioni, pensò di farsi direttamente imprenditrice. La situazione creata dall’Unione Europea costrinse i nostri politici al rispetto formale delle “nuove regole” che furono però sfruttate artatamente grazie agli spazi interpretativi che queste lasciavano nelle loro iniziali formulazioni. Ne conseguì che i politici, stretti tra imposizione delle politiche neoliberiste e le loro ambizioni, personali e di parte, procedettero alla trasformazione in S.p.A. e S.R.L. dei servizi col risultato che, sia in veste di istituzioni appaltatrici che in quella di presidenti, amministratori delegati e consiglieri delle nuove società di diritto privato, poterono continuare a  incrementare la spesa ed il debito mentre le direttive europee  consentivano agli amministratori pubblici di mascherarle tenendole  fuori dai bilanci pubblici, formulati anche negli enti locali secondo i criteri del “patto di stabilità” di Maastricht.

Come si diceva sopra i servizi rappresentano circa il 70% del PIL e dell’occupazione europea e sono quindi stati oggetto di specifiche norme costitutive dell’ Unione e successive direttive. Le differenze legislative e produttive degli stati sono però diversissime da paese a paese, definendone anche il livello di welfare. La normativa europea, orientata in senso liberista ha, di fondo, legiferato in materia di servizi cercando di allargare la possibilità di liberalizzarne la produzione e la prestazione tra gli stati attraverso articoli quali: il 43 e 47, sul diritto di stabilimento delle imprese in stati diversi da quello di origine, gli articoli 49 e 55, sul diritto di prestazione dei servizi e l’art. 86 che regola la concorrenza. Ha fornito anche, attraverso documenti quali il libro bianco e libro verde, una definizione di massima dividendo i servizi in SIG (Servizi di Interesse Generale) e (SIEG Servizi di Interesse Economico Generale). Lascia poi agli stati il compito di definire quali consideri tra i primi, che possono gestire autonomamente e fuori dalle regole del mercato, o tra i secondi, che ricadono invece sotto la normativa di stabilimento, concorrenza, regole di appalto ecc.. che è stata ampliata da successive direttive. Per i casi controversi che le differenze legislative possono creare ha stabilito che la Corte di Giustizia europea potrà decidere precisando con le sentenze l’interpretazione effettiva del trattato e delle direttive.

Nello stesso anno della firma degli accordi GATS a Marrakech nel 1994 viene approvata la legge Galli (36/94) che introduce la possibilità di privatizzare la gestione del sistema idrico pur salvaguardando la possibilità di una gestione pubblica ancora ammessa nell’Unione Europea, questa ambiguità permane sino alla odierna legge 133 (art. 23bis). Un’ulteriore ambiguità è la mancata definizione, con legge nazionale, dei servizi SIG o SIEG. Secondo il nostro ordinamento i primi sarebbero di esclusiva pertinenza regionale ed i secondi, dovendo rispondere alle normative europee, specie sulla concorrenza, consentono allo stato di regolamentarne le modalità di gestione.4

I nostri amministratori locali, tra la tutela dei loro interessi privati e di parte, necessità di rispettare almeno formalmente il patto di stabilità e le pressioni di forti soggetti economici nazionali e transnazionali, hanno dichiarato il servizio idrico, e non solo, “di Interesse economico generale”; a questo punto i regolamenti europei avrebbero imposto una gara pubblica tra tutti i privati che intendessero parteciparvi. Per le regioni citate sopra agirono diversamente, crearono delle S.p.A.o S.R.L. con capitale interamente pubblico a cui affidarono direttamente i vari servizi separatamente o assieme, creando delle holding e, successivamente, adottarono due soluzioni sfruttando le interpretazioni che la regolamentazione europea sembrava consentire.

Nel primo caso, che è anche quello Toscano, dopo l’ affidamento hanno proceduto a mettere a gara aperta una quota minoritaria delle azioni facendo entrare un socio,  per lo più come cordata di soggetti a loro volta associati. La legge Galli prevedeva la divisione del territorio, rimandando anche alla legge precedente (183/89), in Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) creando un nuovo soggetto giuridico costituito dall’assemblea dei sindaci che per ragioni legate ai bacini idrici dovevano mettere in comune le gestioni onde sfruttare le conseguenti economie di scala. In Toscana sono sei e rispecchiano, piuttosto che i bacini, le divisioni provinciali. In tre di questi il socio privato vede la partecipazione della Ondeo (Suez), Caltagirone e il Monte dei Paschi guidati dalla Acea, ex municipalizzata di Roma ed oggi S.p.A a capitale misto tra i cui soci sono presenti ancora la Suez e Caltagirone. Il punto taciuto di questo tipo di privatizzazioni è che costituire queste società ha un costo rilevante e si fa giuridicamente stipulando patti “parasociali” che ne determinano le regole.

Una di queste stabilisce quale deve essere la quota di azioni necessaria ad approvare decisioni circa la conduzione della società sia nell’assemblea dei soci che nel consiglio di amministrazione. Uno studio della facoltà di economia di Pavia5 ha preso in esame detti patti in alcune società campione, tra cui tre toscane, dalle quali risulta che, oltre la regola per cui il socio privato nomina l’amministratore delegato, la quota azionaria decisionale è superiore alla quota detenuta dal pubblico anche nel caso che questo sia il maggiore azionista. A fronte, dunque, di un 51% detenuto dal pubblico, ad esempio, le decisioni richiedono maggioranze del 60% per cui, di fatto, è il privato ad avere il reale controllo.

Nessuno di questi aspetti “della privatizzazione” è stato portato all’attenzione dei cittadini, anzi, sulla questione del “controllo” quasi tutti i sindaci hanno mentito.

Secondo le direttive europee questo sistema di affidamento diretto e poi gara per il socio è scorretto e potrebbe essere annullato o ricevere sanzioni, come del resto è stato fatto. Viene però tollerato in mancanza di denunce dirette da parte di imprese private o istituzioni, gli unici soggetti che nei regolamenti europei hanno titolo per farlo, aventi interesse ad aggiudicarsi la gestione. Non è quindi casuale che tra i soci privati vi sia sempre una grande compagnia internazionale. La loro “forza” economica spiega il potere di ricatto, e quindi la tipologia di contratti detta sopra, nei quali gli organi istituzionali salvaguardano primariamente un certo numero di “poltrone” (non dimentichiamo che i dirigenti delle SpA guadagno molto di più dei dirigenti pubblici – vedi sotto i rimandi al “dossier ASA”) e la gestione “politica” dei rapporti con i “clienti”, ex utenti e cittadini.

Sulla illegittimità di questa procedura, dopo la Corte Europea, si è infine pronunciato il Consiglio di Stato su un caso di affidamento di servizi sanitari in via di privatizzazione. Riporto, a questo proposito, un passo della Sentenza N. 1/2008 reg. dec. NN. 9 reg. ric. ANNO 2007, c):

Ritenuto – aderendo al parere reso dalla sezione seconda di questo Consiglio il 18 aprile 2007 con il n. 456 – che non sia accettabile l’opinione per cui, per il solo fatto che il socio privato sia scelto tramite procedura a evidenza pubblica, sarebbe in ogni caso possibile l’affidamento diretto.

Quando la più alta corte sentenzia lo fa «in nome del popolo italiano». Ma, evidentemente, politici e imprenditori credono di essere “altro” (cittadini globali a fronte di cittadini locali??) e gli atti per stabilire un controllo politico della magistratura forse non sono un “pallino” del solo Berlusconi.

La seconda modalità, quella degli affidamenti in house, consente invece di agire sfruttando i regolamenti europei che consentono affidamenti diretti a SpA a totale capitale pubblico. Questo è possibile «quando l’ente aggiudicante abbia su questa [la S.p.A.] un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi interni». Viste le differenze giuridiche dei vari paesi UE questo concetto è stato introdotto, a seguito di contestazioni giudiziarie degli affidamenti, dalla Corte di Giustizia Europea nelle prime cause, Arnhem, RI:SAS, e la causa C-107/98 Teckal.

Questa ultima divenne la giustificazione universalmente accettata, anche da insigni giuristi, perchè consentiva l’affidamento diretto senza gara pubblica dando torto alla ditta (Teckal) che aveva fatto ricorso contro un consorzio di comuni che aveva preso questa decisione. Per qualche anno nessuno notò, o fece finta, che l’affidamento diretto era stato fatto ad una ditta consortile, ente diretto dei comuni, e non ad una ditta di diritto commerciale/privato (quale era la Teckal). Successivamente la Corte UE precisò la questione attraverso la sentenza Parking Brixsen C-458/03.

Sia per la pervasività del modello, sia per la pressione degli obblighi di bilancio, anche i partiti della sinistra radicale ed i sindacati hanno accettato e promosso questa soluzione costruendosi,forse, l’illusione, o il “paravento ideologico”, che in questo modo gli attori politici potessero mantenere un controllo sui servizi a fronte dell’ obbligo a privatizzare a cui ci avrebbero spinto le normative europee e le necessità economiche. Tutto questo è già noto. Riporto, infatti, un paragrafo della procedura di infrazione relativa alla Regione Marche (Bruxelles 4 luglio 2002 N° 8622. Oggetto: Procedura di infrazione 1999/2184 ex art. 226 Trattato. Legislazione in materia di servizi pubblici locali) ma che riguarda anche molti altri territori (Lombardia, Toscana, Lazio) e contribuisce all’incremento della spesa pubblica per via delle sanzioni economiche che seguono la condanna.

Con specifico riferimento all’affidamento del servizio idrico integrato la Commissione sottolinea altresì che i suoi servizi hanno ricevuto numerosi reclami relativi a casi di affidamenti diretti a società partecipate in tutto o in parte da enti locali facente parte di uno stesso degli ambiti territoriali ottimali previsti dalla legge n. 36 del 5 gennaio 1994. Tali affidamenti diretti si pongono in contrasto con le sopraccitate norme e principi del trattato CE nel caso di concessione di servizi, e laddove applicabili, con le direttive 92/50CEE e 93/38/CEE ogni qualvolta gli stessi configurino un appalto pubblico di servizi.

Il significato dell’ultimo capoverso è che la Comunità Europea delega la scelta di gestire i servizi idrici, ma anche quelli sanitari e scolastici, ai governi nazionali e locali o secondo le regole di mercato, rispettando le procedure di gara pubblica aperta, o tramite propri enti che, non avendo come “missione” il profitto ma soltanto il pareggio di bilancio, sono fuori dal mercato e relative regole. Insomma, in linea di massima è ancora consentita la gestione dei servizi tramite enti pubblici.

È lecito sospettare, comunque, che i nostri leader politici abbiano volutamente mantenuto questa ambiguità legislativa sfruttando il fatto che in alcuni paesi, come l’Olanda, esistono norme del Codice Civile tali da consentire il “controllo” anche sulle S.p.A. a totale o a maggioranza di capitale pubblico. Ma non è così in Italia, dove non esistono le condizioni precisate dalla corte UE a garanzia del controllo pubblico su queste società a causa dei poteri riconosciuti agli amministratori di S.p.A. e S.R.L., specie dopo le modifiche legislative in materia apportate dal governo Berlusconi nel 2003.

Il problema che crea la privatizzazione dei servizi si può riassumere nel fatto che i cittadini vengono espropriati da un lato della capacità di decidere essendo trasformati in clienti, dall’altro di un diritto civile, includente e non “commerciabile” secondo lo spirito costituzionale, che viene assoggettato ai criteri di profitto aziendale e di valorizzazione delle azioni.

Queste aziende si presentano normalmente come “multi servizi”; gestiscono anche rifiuti e distribuzione del gas o dell’energia elettrica (tutti settori a monopolio naturale e/o sociale). In questi casi alcune aziende realizzano profitti enormi tanto che le loro azioni, appena approdano in borsa, sono considerate “di rifugio”, dato che nessuna crisi è riuscita a farne crollare il valore e superano in redditività quelle di materie prime quali il petrolio.

Una parte di questa ricchezza viene divisa tra pochi azionisti (ma nulla cambierebbe concettualmente in caso di azionariato diffuso in quanto sarebbe comunque discriminante) invece di essere messa a disposizione dei cittadini sotto forma di migliori servizi e tariffe basse. Si pensi che le municipalizzate toscane, le prime ad essere privatizzate, riuscivano a coprire il 94% dei costi totali praticando tariffe irrisorie, le più basse d’Europa. Inoltre il gestore privato, in quanto controllore della società, gestisce anche la conduzione finanziaria. Questi, in molti casi documentati dai comitati in lotta come quello di Aprilia,6 ha quindi potere di ricatto sull’assemblea dei sindaci, che costituisce gli A.T.O, riuscendo a far modificare contratti e piani industriali e a scaricare sulla parte pubblica l’onere degli investimenti e la loro garanzia. Questo diventa parte del problema, recentemente venuto in luce, dei prodotti finanziari derivati che le banche propongono e che molti comuni hanno sottoscritto, anche per altre spese naturalmente, ma che finiscono per creare situazioni debitorie spesso insostenibili a fronte delle entrate. Molti comuni, fortunatamente, in ritardo sull’esternalizzazione hanno iniziato, a fronte delle esperienze in atto, a coalizzarsi per evitarla, conservando la gestione diretta con aziende speciali e consortili. Purtroppo sono meno di quanto ci si aspetterebbe considerando che “l’istituzione Comune” ha un significato reale solo se gestisce quanto hanno in comune i cittadini dello stesso.

Le privatizzazioni ed esternalizzazioni (un comune emiliano ha esternalizzato anche l’anagrafe) rischiano di lasciare al Comune un ruolo che poco si discosta da quello svolto oggi dalle “pro loco”. Per descrivere con parole non mie questa situazione riporto dalla relazione di apertura dell’anno giudiziario 2007 del procuratore della Corte dei Conti delle Marche, Dott. Avola, la parte che tratta questo argomento:

Va manifestata profonda preoccupazione per il modo con il quale si sono sviluppati i processi di privatizzazione e di esternalizzazione dell’attività amministrativa. Le numerose indagini hanno evidenziato il rischio di una vera e propria implosione del sistema, rischio talmente grande da rendere non più rinviabile un’inversione di tendenza. L’esternalizzazione selvaggia, la privatizzazione senza regole, la forzatura delle logiche giuridiche ed economiche (si pensi, ad esempio, alle società in house), la lievitazione dei costi al di fuori di ogni controllo, il moltiplicarsi degli sprechi, la caduta nella qualità dei servizi, la propagazione di logiche clientelari, il progressivo sviamento dell’interesse generale, l’appropriazione parassitaria delle pubbliche risorse da parte dei privati: questo è il quadro generale che deve essere contrastato, non certo con un semplice ritorno al passato, ma attraverso il recupero di un sufficiente livello di governance fondato su regole nuove e sulla diffusione di prassi e comportamenti svincolati da qualsiasi interessata anarchia. Alcuni esempi danno significato a quanto affermato. Le società partecipate hanno incrementato a dismisura i costi delle strutture; hanno attribuito ingenti compensi agli amministratori, scelti talora non per meriti professionali, ma per appartenenza a questa o quella sensibilità politica; hanno privilegiato e sopravalutato gli apporti dei soci privati; hanno ad essi pagato il know how più volte sotto titoli diversi; hanno creato partecipazioni a catena o a fisarmonica illimitata; hanno sterilizzato qualsiasi forma di controllo dell’ente capitalizzante o conferente; hanno perseguito scopi spesso incoerenti o divergenti con quelli del medesimo ente, discostandosi dalla valorizzazione dell’interesse pubblico; hanno moltiplicato le assunzioni, in violazione dei limiti degli organici e soprattutto in assenza della trasparenza e della necessità funzionale. Si sono registrati casi nei quali il meccanismo a scatole cinesi ha causato scissioni artate dei rami di azienda: quelli attivi sono stati portati in dote alle società in mano alla componente privata e quelli passivi, per lo più con forti indebitamenti, alle società di pertinenza pubblica. Le ipotesi concrete di danno e di responsabilità sulle quali ha lavorato la procura in questo campo sono state il mancato raggiungimento o perseguimento dello scopo sociale, l’inutilità manifesta nella creazione di una società, l’incoerenza e la contraddizione fra i fini generali dell’amministrazione conferente e quelli perseguiti dalla società partecipata, le ricapitalizzazioni seriali dei disavanzi di gestione senza efficaci piani aziendali correttivi. Di eccezionale gravità si è presentata la situazione delle società multiservizi in house. In un caso l’indebitamento è cresciuto a tale livello da portare un comune sul crinale del dissesto. Di eccezionale gravità si è presentata la situazione di società per la realizzazione e gestione di opere e impianti per servizi pubblici. Costituite in nome dell’efficienza e della velocizzazione, hanno sprecato ingenti risorse senza arrivare pressoché a nulla (ci si riferisce in particolare ai settori della metanizzazione e della viabilità). Di eccezionale gravità si è presentata la situazione di una società che, incaricata dell’accertamento dei presupposti per l’applicazione dei tributi locali, ha prodotto materiale del tutto insufficiente e inutilizzabile.

Chi ha seguito le vicende nazionali della privatizzazione dell’acqua può sottoscrivere queste parole aggiungendo che se ci sono da un lato assunzioni clientelari dall’altro il trattamento del personale è notevolmente peggiorato come mostra una ricerca recente, curata in parte da ATTAC e pubblicata su libro dal settimanale Carta, col titolo Quindici anni dopo il pubblico è meglio, basata su centinaia di interviste a lavoratori del settore ed utenti.

V. La privatizzazione dell’ acqua attraverso le leggi

Sarebbe necessaria una trattazione che comprenda gli aspetti antropologici, sociologici e psicologici per rendere conto di come l’immaginario sociale si trasformi in accordo alle pratiche materiali. Ne abbiamo un esempio nella poderosa analisi economica di Marx che, nella seconda metà dell’800, rende conto indirettamente di come la trasformazione dei modi di produzione agisca sulla composizione sociale, sull’immaginario che la lega costituendone l’ideologia e di come questa possa diventare “alienazione”, una falsificazione dalla coscienza in rapporto alle pratiche che  ne misurano la distanza rispetto alla sua percezione e accettazione.

Dopo la crisi del 1929 e la Seconda Guerra Mondiale si imposero le teorie keinesiane che vedevano come positivo l’intervento dello Stato secondo specifiche modalità. Alla fine della ricostruzione si era già affermata e sviluppata la potenza economica degli Usa e delle imprese che avevano già delocalizzato in Europa alcuni settori produttivi. Erano i prodromi della seconda globalizzazione che si impose a partire dagli anni ’70. In questo periodo le teorie elaborate all’Università di Chicago da Milton Friedman dimostravano invece la negatività dell’intervento dello Stato in materia economica, ma sancivano specularmente il potere acquisito dalle grandi transnazionali (General Motors, Ford; ecc.). Si Dettavano le nuove norme economiche che vennero imposte, direttamente e non, dapprima ai paesi del loro “giardino”, come quelli dell’America Latina, e ai paesi produttori di materie prime essenziali manu militari. Poi per pura forza economica negli altri paesi.

Dopo la legge Galli del 1994 le successive, di riordino degli enti locali, finanziarie o di carattere ambientale, pur mettendo vincoli alla possibilità degli enti pubblici di gestire direttamente il servizio idrico, non hanno potuto abrogare palesemente gli articoli che ancora la consentono. Gli ultimi tentativi di privatizzare tutti i servizi risalgono al governo Prodi con il decreto Lanzillotta, da cui fu successivamente scorporato il servizio idrico grazie alle lotte del movimento, la sua approvazione fu impedita dalla fine anticipata della legislatura e poi riproposta con la nota legge 133 del governo Berlusconi all’art 23 bis.

Commentandola, il giurista, prof. Lucarelli (Univ. Na), scrive:

Nel merito dell’art. 23 bis, in via preliminare, va detto che si tratta di una disposizione che ha ad oggetto, testualmente, servizi pubblici di rilevanza economica, o meglio “Le disposizioni contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili”. La norma non ha alcuna ambizione di definizione tassonomica delle categorie; ha invece un obiettivo molto chiaro, far si che voraci multinazionali, talvolta anche in commistione con soggetti pubblici, (nulla di più diabolico l’intreccio oscuro tra interessi pubblici e privati) s’impossessino, quanto prima, e a costo zero, del patrimonio pubblico, delle reti, realizzate nel tempo attraverso il ricorso alla fiscalità generale. […]

Come è noto, l’ordinamento comunitario distingue tra servizi di interesse economico-generale e servizi di interesse generale, entrambi, seppur con caratteristiche differenti, servizi pubblici essenziali, ed in quanto tali, entrambi, in relazione al nostro ordinamento, riconducibili all’art. 43 Cost. Cioè riconducibili a quella norma che non è una mera norma di carattere organizzativo funzionale, ma è una norma che contribuisce alla caratterizzazione più profonda del modello di Stato sociale; una norma che continua a riconoscere, garantire e legittimare, proprietà e gestione pubblica dei servizi pubblici essenziali, anche, laddove necessario, in regime di monopolio. Trasformare la nozione di servizio pubblico essenziale in servizio di rilevanza economica,significa violare l’art. 43, il modello di Costituzione economica e tutte le norme ad essa raccordate in primis gli artt. 2, 3, 5 Cost.; significa violare la peculiarità che l’ordinamento comunitario riconosce allo status di servizio di interesse economico-generale e servizio di interesse generale, peculiarità ancor più rafforzata dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona ed i suoi protocolli […].

Ed infine si pensi che scompare dall’art. 3, paragrafo 2 del Trattato di Lisbona (TUE) il riferimento ad un “mercato interno nel quale la concorrenza è libera e non è falsata” . La concorrenza dunque non compare più tra gli obiettivi dell’unione europea. Non è da sottovalutare che l’abolizione della libera concorrenza è stata caldeggiata dai francesi, gli stessi che hanno voluto aggiungere nell’articolo 3, paragrafo 5, che l’Unione, oltre ad affermare ed a promuovere i suoi valori e interessi contribuisce alla protezione dei suoi cittadini”.7

L’Europa questa volta ci viene in aiuto nel tentativo di salvaguardare i servizi, sebbene il suo impianto normativo sia completamente ispirato alle dottrine neoliberiste, con l’intervento della Francia che ha un governo di destra e dichiaratamente liberista ma evidentemente con un senso più elevato del concetto di cittadinanza e del ruolo delle istituzioni pubbliche. Si pensi che, pur essendo francesi le prime due imprese del mondo in questo settore, la stessa municipalità di Parigi, dopo decenni di gestione mista del servizio idrico, non rinnoverà il contratto con Suez e Veolia e ritornerà ad una gestione direttamente pubblica. L’assessore del comune di Parigi Anne Le Strat è stata chiamata a parlarne ad una manifestazione promossa dalla Regione Toscana; all’occasione non si è presentato nessun sindaco o assessore o consigliere ad ascoltarne le ragioni, dando tra l’altro un buon esempio di arroganza, maleducazione e scorrettezza istituzionale.

Con questo non si deve dimenticare l’indirizzo di cui sopra a seguito del quale, in omaggio alla sua (falsa) ideologia, l’UE abbia tentato di smantellare indirettamente i servizi pubblici, mentre scriveva il primo “trattato costituzionale”, poi bocciato con referendum da francesi e olandesi, brandendo il vessillo della libertà di “concorrere” per la prestazione degli stessi, all’interno del Mercato Europeo, attraverso la “direttiva Bolkestein” che mirava a trasformare, indirettamente, i monopoli pubblici, i beni comuni, mettendoli sul “libero mercato” (iniziativa legislativa partita dalla commissione allora  presieduta da Prodi, oggetto di manifestazioni contrarie e depotenziata negli obiettivi in parlamento).8

I riferimenti politici in merito a trattati ed accordi vogliono far rilevare sino a che punto sia penetrata profondamente l’ideologia economica dominante e di come abbia separato la classe politica dalla società, specialmente dalla parte meno abbiente. Di “riforma in riforma” e da un governo al successivo le concezioni economiche neoliberiste alla base delle crescenti disuguaglianze vengono recepite dalla classe politica e trasformate in norme. L’estendersi delle applicazioni pratiche finisce poi per imporsi come comune sentire e, quindi, base delle categorie interpretative della realtà. Con l’ideologia trasformata in senso comune diviene difficile per questi individuare i rapporti “reali” causa-effetto e quindi limitata la capacità di intervenire efficacemente sulle cause.9

VI. Conclusioni

Apparirà chiaro che le lotte che oggi si svolgono sul tema acqua sono in netto contrasto con gli assunti fondamentali del capitalismo. Sebbene siano impegnate nel dare una risposta alternativa a problemi specifici e immediati, esse sono anche un tentativo di decostruire i luoghi comuni che permeano la nostra società, attraverso una pratica che ne chiarisca la natura e le contraddizioni. Il contributo a cui ci chiamano queste, e altre in atto, è quello di una lotta utopica che non consente vittorie definitive ma solo avanzamenti, o arretramenti, e richiede quindi consapevolezza dell’obbiettivo e costanza nel riproporlo. Ciò di cui parlo, l’utopia che attraversa e lega queste lotte di studenti, comitati, cittadini e lavoratori, è l’uguaglianza. I beni comuni la richiamano in quanto tali e ne sono il fondamento materiale di base. Come tali non possono essere oggetto di proprietà, se non collettiva e inalienabile, né essere usati in tale modo attraverso la loro gestione, che è quanto stanno facendo gli amministratori ai quali questa, e non certo al mercato, si è delegata.

[Giampaolo Pellegrini, C.N. Attac italia/forum italiano dei movimenti per l’acqua]

Note

1 Comportamento di impresa e aspetti di economia istituzionale.

2 Alcuni aspetti della crisi economica normalmente taciuti da media e classe politica.

3 Articolo di R. Petrella, presidente nel 2000 della sezione italiana del “Contratto Mondiale per l’Acqua”.

4 Oggi ci troviamo davanti a mercati dominati da gigantesche imprese in tutti i principali settori. Quando si parla di settori come quelli dei servizi, che la teoria economica neoclassica considera in monopolio naturale o sociale, la situazione è ancora più distante da quella che si assegna ad una economia di mercato. La stipulazione di contratti di gestioni su tempi lunghi (20,30, 50 anni) permettono tassi di profitto superiori a quelli medi. A questo punto per giustificare le privatizzazioni si è inventata la concorrenze “per il mercato”. Consiste nel dividere, tramite gare pubbliche, i mercati monopolistici tra più gestori riuscendo ad introdurre in questi gli stessi vantaggi che, teoricamente” darebbero i mercati concorrenziali (strada seguita anche dall’UE). I presupposti di base per ottenere questo risultato sono però irrealistici prevedendo: 1) la razionalità perfetta di detti mercati; 2) una buona informazione di chi fa l’asta, che rimane una condizione iniziale, quando il privato prende la gestione il controllore pubblico diviene un soggetto esterno privo delle condizioni, anche legali, per conoscere i costi reali e su questi stabilirei prezzi. Lo stesso personale politico che viene inglobato nell’impresa ha in questa i suoi interessi immediati sia economici che di potere, perseguire gli interessi generali non è, in queste condizioni, un interesse primario; 3) è impossibile che sulla lunghezza dell’affidamento qualsiasi contratto possa prevedere tutte le possibili circostanze e questo apre la strada di una continua rinegoziazione dello stesso in cui l’impresa diventa nel tempo il soggetto forte che può imporre condizioni; 4) che le singole imprese non colludano tra loro, cosa irrealistica quando sono in numero limitatissimo; 5) che non vi sia corruzione nell’autorità pubblica: non occorre commentare. Si sono rivelate infondate anche le teorizzazioni che vedevano nelle Authority i soggetti che potessero contrastare sul versante dei prezzi del servizio le naturali tendenze mono o oligopoliste. Nello studio di Massimo Florio sulle privatizzazioni inglesi, dove esiste una tradizione radicata del ricorso all’authority, e una tradizione di rigore dei funzionari pubblici sicuramente superiore a quella italiana, è mostrato che le imprese del tipo considerato hanno goduto di profitti superiori alla media degli altri settori dell’ordine del 21% il primo anno, del 30% il secondo, del 57% il terzo. L’unica cosa di sinistra fatta dal governo Blair è stata quella di aumentare il livello di tassazione di queste imprese.

5 Studio della Facoltà di Economia. Sul sito anche una dettagliata analisi dei bilanci di una SpA a totale capitale pubblico. Confronta Dossier ASA.

6 Sintesi problematiche Latina (Aprilia). Cfr. per una panoramica del problema privatizzazioni dal nord Europa.

7 Ibidem.

8 Comportamento di impresa e aspetti di economia istituzionale.

9 Barbara Eherenreich, Una paga da fame, Feltrinelli, Milano, 2002.

Bibliografia essenziale:

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AA.VV., Ancora con l’ acqua alla gola, «Quaderni del granello di sabbia», n. 6, 2007.

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C. Aruzza, C. Oddi (a cura di), Quindici anni dopo: pubblico è meglio, Roma, Carta-EDS, 2006.

M. Florio, Privatizzazioni e benessere: il caso britannico, in, «Economia Pubblica», 2, 2003.

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G. Raymond, Beni pubblici beni privati, Napoli, Donzelli, 2005.

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Argomenti correlati

F. Rossi Landi, Ideologia, Milano, Mondadori, 1982.

E. Screpanti, Il capitalismo, forme e trasformazioni, Milano, Punto Rosso, 2006.

A.K. Sen, la disuguaglianza, Bologna, il Mulino, 1994.

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G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Milano, SugarCo, 1988.

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Sitografia

Contratto Acqua

PSIRU

Water Justice