La maggior parte delle lotte attuali per la difesa dell’Acqua in quanto bene pubblico, si concentrano intorno al problema della privatizzazione. Nell’articolo che pubblichiamo di Giampaolo Pellegrini è messo bene in luce come la privatizzazione dei servizi non passi direttamente per la proprietà del bene da parte di uno o più privati, ma nella sua gestione. Questa nuova forma di possesso, possibile solo grazie all’accordo tra le amministrazioni pubbliche (i nostrani Governi e Regioni), che formalmente rappresentano i cittadini che sono per legge i proprietari, e le imprese, che invece ne traggono vantaggio economico, costituisce una delle principali fonti di reddito di cui il capitalismo, nella sua fase attuale, dispone. La cosiddetta gestione dei servizi pubblici consente di trarre profitto sfruttando i vantaggi del monopolio e quelli contrattuali (che nel caso dell’Acqua, per esempio, garantiscono il 7% di redditività dei capitali investiti tramite le bollette) scaricando, però, tutti gli oneri di spesa sul “proprietario”, che in questi casi è l’insieme dei cittadini.
Questa è una delle forme in base alle quali avviene in tutto il globo la dismissione dello stato da tutti i settori pubblici economicamente rilevanti, quali istruzione, sanità, materie prime, beni naturali e sociali (pensioni, ma anche prodotti intellettuali, etc.).
Questo discorso ci interessa non solo perché descrive un nodo del processo produttivo, ma anche perché mette in luce come certi aspetti della nostra vita quotidiana pubblica e privata, siano da questi processi influenzata.
Lo studio, di prossima pubblicazione sul sito, svolto in Basilicata intorno al Sinni, vuole non solo denunciare lo stato di malattia del fiume e di tutta la valle (che quello aveva creato modificando con l’acqua le argille), in seguito al convogliamento delle acque nella diga più grande d’Italia, e tra le più grandi in Europa. Ma anche vuole recuperare, attraverso la raccolta delle storie di vita, dei racconti e dei canti legati al fiume, la memoria di un legame ormai perso tra l’uomo e l’ambiente. Non è semplice valore documentario quello che l’Archivio lucano delle voci, che questa ricerca organizza, propone insieme ad un piano di riqualificazione del fiume, al quale hanno lavorato un gruppo composto di architetti, ingegneri e geologi. Lo studio degli aspetti antropici del fiume vuole ribadire che la necessità di slegare l’acqua, o qualsiasi altra delle risorse naturali e sociali, dallo sguardo pietrificante del capitalismo, passa dalla riconsiderazione dello stato del rapporto uomo–natura.
Queste riflessioni costituiscono spesso la base dei comitati locali che in varie parti di Italia mantengono l’attenzione sul problema e propongono soluzioni alternative alle modalità di sfruttamento delle acque territoriali di superficie e di falda. A questo proposito pubblichiamo un documento del Comitato per la salvaguardia dell’Ambiente del Monte Amiata. Il lavoro degli abitanti del monte toscano, che costituisce la più importante risorsa idrica del centro Italia, denuncia con una ricerca geotermica di grande rilievo scientifico, la situazione delle sorgenti dell’Amiata. Lo sfruttamento delle stesse da parte dell’Enel, reso possibile da una serie di norme locali e regionali, provoca non solo una diminuzione preoccupante della capacità di portata ma anche un forte inquinamento dell’acqua. Lo sfruttamento del vapore geotermico a fini elettrici, infatti, sottrae quantitativi enormi agli acquiferi superficiali, per cui il bacino idrico dell’Amiata è diminuito di oltre il 50%, provocando una concentrazione pericolosa, in base anche agli standard sanitari, delle sostanze velenose nell’acqua quali arsenico e boro.
La proposta che la rivista fa pubblicando questi interventi non vuole essere esaustiva rispetto ai problemi dell’acqua, ma spera di fornire contributi importanti per la riflessione sul tema, per le forme di intervento e di studio e per le pratiche organizzative ad esso attinenti.